tag:blogger.com,1999:blog-34972962922716771852024-02-21T02:03:34.709-08:00DUSTYROADBartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.comBlogger1228125tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-9598192104245624972019-03-25T06:04:00.003-07:002019-03-25T06:04:34.252-07:00L’Anima Di Un Uomo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4peqQS43Dxx7_V1n5ZprKQpMAVw5amAM7mgz1mR98ymJxo1EFyXyb2ra-KYrpbaoPb85Hu_ImcEs3rWhmpoQd19rrmxPzwE3HwGWAV5p4s090Hi8ormLHdFhfVrMEmUKJPp3qXLIraI8/s1600/LAnima-Di-Un-Uomo-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4peqQS43Dxx7_V1n5ZprKQpMAVw5amAM7mgz1mR98ymJxo1EFyXyb2ra-KYrpbaoPb85Hu_ImcEs3rWhmpoQd19rrmxPzwE3HwGWAV5p4s090Hi8ormLHdFhfVrMEmUKJPp3qXLIraI8/s640/LAnima-Di-Un-Uomo-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Stavo in sella alle mie illusioni in un alba rosso prugna</strong>. Mi fermai in un <strong>area di servizio</strong> e feci colazione con un doppio caffè e brioche. <strong>Comprai una cartolina e in un angolo scrissi “<em>Ti Amo</em>”</strong>. Gliel’avrei spedita da qualche punto lungo il tragitto. Poco prima che andassi, lei mi disse abbracciandomi: <em><strong>“Non mi spezzare il cuore, se puoi non farlo mai”</strong></em>.
Guidavo e non riuscivo a dimenticare la sua ultima frase, era quella
che mi rimbombava nella testa come una palla da biliardo: <em><strong>“Lo sai che il tempo prima o poi porta tutto alla luce, lo sai che è cosi. Non fingere su questo neanche con te stesso”</strong></em>. Mi domandavo perché mai mi avesse detto quelle cose. Forse le mie ombre, i miei buchi erano visibili. <strong>La muffa sul mio cuore mi aveva sovrastato</strong>. Cosa
mi era successo? Perché non avvertivo più quel segnale che mi aveva
sempre messo in allerta? Avrei disinfettato e guarito definitivamente le
mie ferite. Avrei tenuto fede ai miei propositi prima che, ancora una
volta, fosse troppo tardi… ma tutto ero stagnante. Mi guardavo come
fossi un passante davanti ad una vetrina di un negozio che, gettata un
occhiata veloce, proseguiva dritto per la propria strada. Un visitatore
frettoloso di me stesso. Ecco cos’ero diventato. <strong><em>St. James Infirmary</em></strong> suonata da <strong>Allen</strong> <strong>Toussaint </strong>in<strong> “The Bright Mississippi”</strong> (<strong>2009</strong>): un disco che è un tributo ai<strong> grandi del Jazz</strong> come <strong>Louis Armstrong</strong>,<strong> Sidney Bechet</strong>,<strong> Jelly Roll</strong> <strong>Morton</strong>, e<strong> Joe “King” Oliver</strong>, reggeva quei pensieri cullando i mie deliri. <strong>La strada era rivestita dei sogni frantumati di tutti quei randagi che l’avevano attraversata</strong>.
Mentre lo scenario che mi circondava toglieva il fiato, ebbi quasi
paura che disturbassi quell’immensa bellezza con il mio passaggio.<strong> La strada era da sempre l’unico luogo dove riuscivo a fare chiarezza, sin da ragazzo era stato così</strong>.
Sanguinavo sotto il cielo che era un tappeto di sogni usati, ma era
anche il luogo da dove lei era sbucata tutto ad un tratto riempiendo la
mia vita. Dopo, lentamente si era iniettata nelle vene e il muro era
crollato. Adesso era l’essenza di tutti i miei sogni. Adesso avevo
ricominciato a vivere dopo essere scivolato nel regno dei morti. Sistemo
nel lettore il cd <strong>“One foot in the Ether”</strong> (<strong>2009</strong>) dei <strong>The Band Of Heathens</strong> che è un disco dove il <strong>gospel</strong>, il <strong>blues</strong> e certo <strong>funky&roll</strong> si attorcigliano come serpenti alle tre voci dei<em> leaders</em>
che, accompagnate da chitarre slide che sanno di polvere e fango, si
intersecano in canzoni avvolgenti che ti ronzano nelle orecchie fino a
diventare appiccicose come le zanzare. <strong><em>L.A. Country Blues</em></strong> ha lo spirito fiero del <strong>rock di strada</strong> e germoglia di libertà, narrando la storia dello scrittore <strong>Hunter S. Thompson</strong>, <strong>morto suicida mentre era al telefono con la moglie</strong>… in realtà <strong>assassinato</strong> per le sue<strong> inchieste</strong> dopo l’<strong>attacco terroristico alle torri gemelle</strong>. <strong><em>Let Your Heart Not Be</em></strong> <strong><em>Troubled </em></strong>è una ballata alla <strong>Stones</strong>, <strong><em>Shine a Light</em></strong> un <strong>gospel</strong> con slide e organo e le voci che si inseguono, <strong><em>What’s this world</em></strong> è la canzone che <strong><em>Steve Earle</em></strong> non scrive più da quando ha lasciato il <strong>Sud</strong> e la <strong>Gibson</strong>. Ancora oggi, pur in pellegrinaggio dal vecchio <strong><em>Hank Williams</em></strong>, non gli gira più come un tempo. <strong>Torna indietro Steve!</strong> <strong><em>Say </em></strong>è un <strong>R&B</strong> che mi riporta alla mente i <strong>Semi-Twang </strong>di<strong> “Salty Tears” </strong>(<strong>1988</strong>), ma anche gli <strong>Statesboro Revue</strong>. Ad eccezione di <strong><em>Look at Miss Ohio</em></strong> di <strong>Gillan Welch</strong>, è tutta farina del sacco dei<em> leaders</em>: <strong>Ed Jurdi</strong>,<strong> Gordy Quisty </strong>e<strong> Colin Brook</strong>. La luna sottile è un cerino pronto a dar fuoco al cuore di tutti i <strong>soul lovers</strong> che bazzicano ancora le terre cattive del rock e <strong><em>Golden Calf</em></strong>, con il suo incedere<strong> voodoo</strong> è perfetta per andare incontro alla notte. Cosa avrà provato il piccolo <strong>Willie Johnson</strong> quando quel<strong> liquido tossico</strong> lo accecò, cosa fece dopo che quel <strong>secchio da bucato</strong> gettato con rabbia durante una<strong> lite tra suo padre e la matrigna</strong>
gli bruciò le pupille?. Forse avrà corso con le mani sugli occhi
piangendo per il dolore e la disperazione attraversando i campi di <strong>Marlin </strong>in <strong>Texas</strong> senza
riuscire a fermarsi, mentre il mondo si oscurava per sempre. Avrei
voluto essere lì e tenerlo forte, abbracciarlo sorreggerlo ed avrei
pregato Dio in qualche modo affinché gli restituisse la vista. Avrei
voluto esserci quando scisse <strong><em>Dark was the night And Cold The Ground</em></strong> , un <strong>blues strumentale</strong> che esprimeva il <strong>dolore</strong> la <strong>sofferenza</strong>, il <strong>bene</strong> e il<strong> male</strong>, con note raschiate sulle corde della chitarra da <strong>un coltellino usato come slide</strong>, mentre spargeva tutto il suo <strong>tormento</strong>.
Avrei voluto vederlo suonare per strada mentre predicava, perché era
nella fede che si era rifugiato per trovare ristoro ad una vita fatta di
stenti e miseria. Avrei voluto conoscerlo ed essergli amico. <strong>“<em>Gesù
Cristo era un uomo e aveva viaggiato in lungo e in largo. Era un
lavoratore coraggioso e instancabile. Diceva ai ricchi: “Date la vostra
roba ai poveri”. Così hanno fatto il funerale a Gesù Cristo” </em></strong>(<em><strong>Jesus Christ</strong> </em>– <strong>Woody Guthrie</strong>).<strong><em><br />
</em></strong><strong>Blind Willie Johnson</strong> si fece <strong>predicatore battista</strong> e iniziò a divulgare il credo per le strade del<strong> Sud</strong>. Era un abilissimo chitarrista, dal suo strumento traeva suoni limpidi e puliti che lo differenziavano da tutti gli altri <strong><em>bluesmen</em> </strong>che bazzicavano l’<strong>area del Delta</strong>. La sua musica era un misto di <strong>gospel</strong>, <strong>blues</strong> e <strong>folk</strong> dai toni caldi e seducenti ed <strong>aveva un canto che scuoteva l’animo come un fuscello</strong>.
La sua voce, potente e roca ma velata di tristezza, era il suo grido
profondo, per una vita durissima, che sapeva donare comunque
consolazione a chi gli prestava ascolto. <strong>Willie</strong>, come tanti altri<em><strong> bluesmen </strong></em><strong>ciechi</strong>, si guadagnava da vivere suonando per le strade in cambio dell’elemosina.<br />
<strong>”<em>Well, who’s that a-writing? / </em></strong><strong><em>John
The Revelator / Who’s that a-writing? / John The Revelato r/ Who’s that
a-writing? / John The Revelator / A book of the seven seals” </em></strong>(<strong>John the Revelator</strong>).<strong><em><br />
</em></strong>Quando conobbe <strong>Angelina</strong>, un’<strong>ex cantante gospel</strong>, si sposa e va a vivere a <strong>Dallas</strong>… ed è in <strong>Texas</strong> che inizia ad incidere le sue canzoni, una trentina in tutto, che nel tempo diventeranno <strong>pietre miliari del blues</strong>. <strong><em>If I Had My Way</em></strong>,<strong><em> Let YourLlight Shine On Me</em></strong>,<strong><em> You’re Gonna Need Somebody On Your Bond</em></strong>, <strong><em>Motherless Children Have A Hard</em></strong> <strong><em>Time</em></strong>,<strong><em> Make Up Dying Bed</em></strong>. Canzoni spesso accompagnate dal <strong>controcanto di Angelina</strong> che diedero alla sua musica un fascino tutto particolare. <strong>Un uomo sensibile e toccato nel profondo dagli eventi ingrati che lo perseguitarono</strong>. Una vita passata nell’<strong>indigenza</strong>, dove solo la musica riuscì a lenire il suo profondo dolore… un <strong>musicista sincero e speciale</strong>, ma <strong>sfortunato</strong>, anche nell’<strong>orribile morte</strong> che fece.<br />
<em><strong>“Qualcuno qui mi può dire che cosa è l’anima di un uomo? /
Ho viaggiato in diversi paesi / Ho viaggiato per terre straniere / Non
ho trovato nessuno che mi dica che cosa è l’anima di un uomo”</strong></em></span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;"><em>.</em></strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">(</span><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><strong>Soul of a Man</strong></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">).</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><br />
</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">La sua casa andò in fumo e <strong>Willie Johnson</strong>,
che non sapeva dove andare, restò a dormire tra quelle macerie. Quella
sera il cielo lampeggiò e faceva un freddo cane. Si rannicchiò su se
stesso e si addormentò. A testa in giù, nella fredda terra sprofondò.
Quando <strong>Ry Cooder</strong> suonò <strong><em>Dark Was The Night</em></strong> nella <strong>colonna sonora</strong> di <strong>“Paris Texas”</strong> (<strong>1984</strong>) di <strong>Wim Wenders</strong> sono certo che ogni nota che centellinò con la sua chitarra, fu guidata dalla mano e dal cuore di <strong>Blind Willie Johnson</strong>. Eccomi in cammino, con il tempo che mi spia, cercando di mettere in chiaro quello che non so. <strong>Ho le mani sudate e il cuore che mi martella mentre salgo le scale del Motel</strong>.
Ho con me la mia piccola chitarra da viaggio, getto la sacca da
marinaio sul letto e cerco la melodia per quei versi che da tutto il
giorno mi frullano nel cervello:<br />
<em><strong>”</strong><strong>A meta strada sto tra le tue braccia /
correndo nella notte / guidando contromano / ho trovato la chiave / Se
piovono stelle vienimi vicino / non guardarti indietro / in fondo siamo
vivi ed è quel che conta / Trattieni il respiro / manda giù la promessa /
non lasciamoci più / non lasciamoci più / non lasciamoci più / Ci si
abitua a tutto anche a morire / Oggi come allora / prendi la mia mano
tienimi cosi / Oggi come allora/ prendi la mia mano tienimi cosi” </strong></em>(<em><strong>Come Allora</strong></em>)</span><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">.</em><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><strong><br />
</strong></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Il giorno dopo scrissi quelle strofe sulla cartolina e prima di ripartire la imbucai.</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-82828399246753532712019-02-06T07:14:00.003-08:002019-02-06T07:14:53.770-08:00Lungo La Strada Ferrata<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1biYcBAvGtO2wZnXMluVgzOu6mwlcnAwQWGOsUF2ewDabuhpX_PSKP2e0RtTfVEh4YEyX-sjrHVZQYcY8CHzl30TMZs9lNoSVExeer4ZygYvo7fgVrlUze_F88BOEh1z8rGCDrL0s4sI/s1600/strada-ferrata-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1biYcBAvGtO2wZnXMluVgzOu6mwlcnAwQWGOsUF2ewDabuhpX_PSKP2e0RtTfVEh4YEyX-sjrHVZQYcY8CHzl30TMZs9lNoSVExeer4ZygYvo7fgVrlUze_F88BOEh1z8rGCDrL0s4sI/s640/strada-ferrata-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Mi sono svegliato nella mia stanza d’albergo vicino la ferrovia</strong> con la moquette sfilacciata e le tende bruciacchiate dalle sigarette; mi sono lavato, <strong>ho afferrato la mia sacca da marinaio</strong>
piena delle mie speranze e me ne sono andato. Fuori non c’era anima
viva, ma ho guardato bene lo stesso alla ricerca di qualche sagoma da <strong>poliziotto</strong>.
Mentre camminavo già sentivo le ondate di calore dell’afoso mattino
farmi colare gocce di sudore dalla fronte. Sarei saltato sul <strong>primo treno</strong> che andava verso <strong>Jackson</strong><em>, </em><strong>Mississippi</strong>, e dal finestrino avrei guardato le <strong>paludi</strong>, le <strong>colline</strong> tondeggianti ed i grandi spazi che circondano l’<strong>America</strong>. Avrei cercato di stare in guardia, perché <strong>i vagabondi non piacciono alla gente</strong>, <strong>né alla polizia</strong>. Ma con la mia chitarra non passavo inosservato. Da ragazzo, quando andavo in giro con mio <strong>padre</strong> che <strong>suonava per hobby agli angoli delle strade</strong>, avevo preso l’abitudine di portarla con me, alla maniera di <strong>Arthur “Big Boy“ Crudup</strong>, a tracolla come un fucile con il manico rivolto verso il basso. Quella <strong>chitarra</strong> fu regalata a mio padre da <strong>Slim Harpo</strong> di cui era amico e, a sua volta, papà la regalo a me che da allora la tenni come una reliquia. In fondo, <strong>era l’unica cosa di valore che possedevo</strong>. Una sola volta la prestai, lui è un mio amico e si chiama <strong>Sonny Landreth</strong><em>,</em> perché gli serviva per incidere <strong>“Way Down in Louisiana”</strong>, ma è successo tanto tempo fa. Quando<strong> il lungo treno arrivò in stazione</strong> sbuffando, salii su una carrozza in coda e presi posto vicino al finestrino. Da lì vidi il <strong>capotreno</strong> che con un movimento della mano dava il segnale di partenza, dopo di che sentii due volte il fischio e il convoglio si avviò. <strong>L’alba è ancora tinta di rosa</strong> le canne ondeggiano nei campi ed io sono come il vento, vado dove mi pare. In <strong>Texas</strong> avevo ascoltato gli <strong>Statesboro Revue</strong> e mi era presa la smania di rimettermi <strong>in viaggio verso Sud</strong>. Volevo rivedere le<strong> fattorie sgangherate</strong>, i <strong>campi di cotone</strong> e le acque fangose del <strong>Mississippi</strong>, le liane e le querce, gli aceri della palude ed i cachi. Quei ragazzi avevano fatto <strong>“Different Kind of Light“</strong>, un disco splendido, shakerando gli umori ed i <strong>sapori del Sud</strong>, i <strong>canti della libertà</strong> e il <strong>rock selvatico</strong> dei <strong>Black Crowes</strong> di <strong>“Shake Your Money Maker”</strong><em>.</em> Ad ogni generazione i suoi <strong>Rolling Stones</strong>, a loro erano toccati i <strong>Crowes</strong>. La musica degli <strong>Statesboro Revue</strong> viaggia per immagini e sensazioni, con la <em>slide</em> e il dobro in evidenza, le chitarre energiche ma mai invadenti, un piano ritmico che sembra sbucato fuori da qualche <strong>”<em>barrellhouse</em><em>”</em></strong> ed un cantante intenso e ruvido, ma modulato e pieno di <strong>soul</strong>, che a tratti ricorda <strong>Van Morrison</strong> da giovane, ma anche il debordante <strong>Mike Farris</strong> di <strong>“Salvation In Lights”</strong>.Non prendono nessuna scorciatoia, nessuna deviazione, né sentieri paralleli. Gli <strong>Statesboro</strong><em>,</em> vanno dritto al nocciolo, non facendosi mancare nulla del bagaglio del <strong>Blues</strong>, incluso le armoniche, i cori gospel a sostenere le atmosfere paludose da Bayou, piene di passione e magia che hanno fatto di <strong>“Different Kind of Light“</strong> un disco che suona duro e dolce come il pioppo e scuro come l’acqua del lungo fiume.<strong> Il cielo del Mississippi è chiuso da nuvole</strong>, ma non sono nuvole di pioggia, l’aria profuma di zucchero di canna e miele. <strong>Jim Dickinson</strong> ha
avuto il permesso di sbarco e cammina fin dietro l’angolo con il suo
cappello e la pistola dentro i jeans. Adesso, per purificarsi l’anima, è
arruolato per sempre nell’esercito della salvezza.<br />
<strong>“<em>Mona ha tentato di avvertirmi di stare alla larga dai
binari ha detto che tutti i ferrovieri bevono il sangue come vino ed io
ho risposto “oh non lo sapevo”, ma poi ne ho incontrato solo uno e mi ha
solo affumicato le palpebre e forato la sigaretta.” </em></strong><em><strong>(Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again”</strong></em>. (Bob Dylan).<br />
<strong>“Keys to the Kingdom”</strong> i fratelli <strong>Dickinson</strong> lo hanno registrato rendendo <strong>omaggio al padre</strong>, scomparso nel <strong>2009</strong>. Dentro ci sono tutti gli ingredienti emotivi e psicologici che il <strong>Blues</strong> sa spargere. Mentre suonavano queste canzoni magre e spigolose, sono stati raggiunti da vecchi amici come <strong>Ry Cooder</strong>, <strong>Mavis Staples </strong>e<strong> Alvin Youngblood Hart</strong>. Ne è venuto fuori un disco incazzato e amaro, impregnato di <strong><em>“canned heat”</em></strong>, itinerante e sgretolato come solo il Blues ancorato alla tradizione può essere. <strong>Luther Dickinson</strong> dimostra, ancora una volta, la sua bravura alla chitarra riuscendo a sostenere, insieme al fratello <strong>Cody</strong><em> </em>alla batteria, <strong>un Blues scavato e sofferto</strong> che sa emanare calore umano e, nello stesso tempo, essere carismatico e semplice, che dosa tecnica e <em>feeling</em> rendendo cosi alcuni momenti davvero straordinari. <strong>Tutte cose che riescono solo ai fuoriclasse</strong>.
Ecco che me ne andavo tranquillo per la mia strada, con la barba ispida
e incolta e i capelli arruffati, quando in un sonnolento pomeriggio
bussai alla sua porta, mentre i pescatori all’ombra delle querce
bevevano birra e mangiavano salsiccia.<em><strong> “Va tutto bene”</strong></em>, mi disse guardandomi,<em><strong> “non saresti dovuto venire”</strong></em> proseguì, ma i suoi occhi rotondi e neri mentivano. <strong>La guardai intanto che il sole stava tramontando</strong> proprio dietro casa sua e l’unica cosa che riuscii a dire fu:<em><strong> “Che bello essere a casa”</strong></em>.</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-91605842224194086512019-01-14T04:36:00.002-08:002019-02-05T07:41:43.953-08:00Nel Mio Quartiere<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfs-xwnN3PvT7dEGvXgy7IqS-HvAod-z8R1n-dTkR6s3Ebb0NmaDjskiox0MyIxfJdV5sV9nGA9fFeAiL72MKWegvBxR2YZanb2jZPwjO-umJ9AElmf4Oq-xXoZ3V0MXizNN7A5pWODUs/s1600/nel-mio-quartiere-bartolo-giusto-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfs-xwnN3PvT7dEGvXgy7IqS-HvAod-z8R1n-dTkR6s3Ebb0NmaDjskiox0MyIxfJdV5sV9nGA9fFeAiL72MKWegvBxR2YZanb2jZPwjO-umJ9AElmf4Oq-xXoZ3V0MXizNN7A5pWODUs/s640/nel-mio-quartiere-bartolo-giusto-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: "arial" , "helvetica" , sans-serif;"><b>Ero lì che ascoltavo e intanto speravo</b>, aspettavo, che so, un <b>treno</b>, un<b> bacio</b>, una<b> cattiveria</b>.
Attendevo che qualcuno mi venisse a prendere. Ma non accadeva mai
nulla. Era tutto grigio e monotono sopra la mia vita. Mi alzai dalla
poltroncina in similpelle marrone e chiusi la porta della stanza. <b>Volevo stordirmi di parole e musica</b>. Seduto sull’immaginaria riva di un<b> fiume</b>, osservavo quelle <b>piccole onde</b> che il vento formava sul pelo dell’acqua. Erano <b>incessanti come le passioni</b>. Il disco continuava a suonare e l’armonica di <b><i>Racing in The Street</i></b> lacerava le mie barriere. Allora non avevo fantasmi intorno a me. C’erano invece <b>promesse</b>, <b>fiori</b> colti in un giardinetto e<b> ideali</b>. Vero, avevano tutti l’aria un po’ triste, ma mi tenevano in piedi.<i> <b>“Oh Thunder</b></i><b> <i>road, Oh Thunder road…” </i></b>Mia <b>madre</b> mi sta chiamando per la cena. Aspetto che il <i>solo</i> di chitarra finisca e apro la porta. <b>Solo tre passi e sono in cucina</b>, che è piccola, anzi piccolissima. C’è puzza di aglio soffritto. Ma ci sto bene li. Lei porta una<b> vestaglietta</b> blu smanicata a stampe di<b> fiori provenzali</b>. Sta ascoltando alla radio <b>Barry White</b>.
Mi guarda e mi sorride, con quell’istinto tutto femminile di
rincuorare. La persiana è aperta, il trambusto nel cortile è incessante.
Una sera, questa, di molto tempo fa.<b> Il buio ha invaso tutto</b>. Mi affaccio alla finestra. L’<b>edera</b> si è arrampicata sul colatoio ormai arrugginito. L’odore del <b>gelsomino</b> è inebriante. <b>Un bambino piange</b>.<b> Qualcuno urla di salire</b>. E’ il mio <b>passato</b> che smonta dai ricordi e se ne va via tutto solo. <b>Il cortile adesso è vuoto</b>… e anche la cuccia del cane. <b>Ascolto</b>, <b>aspetto</b>, <b>spero</b>… Gli <b>uomini</b> sono rientrati, le <b>famiglie</b> si sono rincollate. <b>Mangiamo alla buona e parliamo di tutto</b>. Non so perché, ma <b>nel quartiere c’è aria di libertà.</b><br />
<i><b>“Sarò il tuo specchio rifletterò quello che sei nel caso non
lo sapessi sarò il vento la pioggia e il tramonto la luce alla tua
porta per mostrarti che sei a casa”</b>.</i> (<i>I’ll be your mirror</i>).<i><br />
</i>E’ meglio non farsi illusioni, ognuno di noi cerca di scaricare le proprie pene su gli altri. Quelle dei <b>Velvet Underground</b> mi arrivarono tramite un pacco postale speditomi dai <b>magazzini Nannucci</b> di <b>Bologna</b>. Era la prima volta che compravo un <b>disco per corrispondenza</b>. <b>“The Velvet Underground & Nico”</b>, si rivelò essere una raccolta dei loro primi fondamentali lavori. <b>Nella mia stanzetta qualche volta faceva freddo</b> e mi sentivo come <b>un passeggero rinchiuso nella stiva di una nave</b>.
Ci passavo un sacco di tempo lì dentro, a fare progetti e ad ascoltare
le cose che mi arrivavano dal mondo. Con le canzoni dei <b>Velvet </b>facevamo lo stesso viaggio. Le sentii entrare in quella camera come un frammento di luce.<br />
<i><b>“</b><b>Be’, comincio a vedere la luce voglio
dirvelo, oooh ora comincio a vedere la luce. Ecco una cosa più dolce ho
usato le mie mani come denti per arruffare i capelli della notte be’,
comincio a vedere la luce</b></i>.<i><b>”<br />
</b></i>(<i>Beginning To See The Light</i>).<br />
Dalle mie parti, durante gli <b>anni settanta</b>, si stava rilassati. <b>Le famiglie affacciate sui balconcini di casa bevevano birra senza schiuma</b>, e a me mi pareva di essere dentro una <b>grande festa</b>. La gente si divertiva con poco. Bastavano, per dire, dei piccoli <b>fuochi d’artificio</b> o una <b>battuta grassa</b>, per generare buonumore… e c’era musica dappertutto. <b>Le massaie cantavano</b> mentre facevano le pulizie, gli <b>operai</b> dei <b>cantieri edili</b>, intenti a lavorare sui <b>pontili</b>, intonavano veri e propri <b>concerti di musica popolare</b>… e <b>le radio stavano sempre accese a sputare canzoni</b>. Gli <b>adulti</b>, a quel tempo, ti istruivano a <b>resistere ai desideri</b>, ai piaceri della vita. Soprattutto a quelli <b>lussuriosi</b>. Ti impartivano le regole, dicendoti che era per forgiarti il carattere. <i><b>“Perché tutto si paga, prima o poi”</b></i> dicevano. Ma mia <b>madre</b> non fece mai quel giochino con me. Mi lasciò libero di fare a modo mio… e il <b>sesso</b>, a differenza di molti del quartiere, non mi sembrò mai una cosa sporca. <b>Nella mia stanza seguitavo a ballare nella semioscurità</b>, imparando anche a camminare, intanto che il velluto sotterraneo cantava lo sfacelo d’esistere e vivere. <b>Argo</b>, il mio trovatello, <b>ha schizzato un po’ d’urina sul muro</b>. I miei sogni si stanno sparpagliando nel cielo a conversare con le stelle. Tanto per non sbagliare, i <b>critici baciapile</b> etichettarono i <b>Velvet Underground </b>come
semplice spazzatura. Succede sempre di scagliarsi con cattiveria contro
chi destabilizza le nostre presunte certezze. Avvenne anche con il<b> punk</b>. Quei loschi figuri avevano risvegliato come un <b>vento cattivo</b> gli<b> spettri della violenza</b>, dell’<b>eroina</b> e della <b>morte</b>. La loro musica era la conseguenza di quell’<b>orrore</b> a non finire e delle <b>menzogne </b>gelide. <b>Seducenti</b>, <b>nevrastenici</b>, <b>sobillatori</b>, a tratti spigolosissimi, <b>cantavano di fantasmi stralunati</b>, che scivolavano nell’<b>ignoto del mondo</b>, deambulando in situazioni malsane e depravate. <b>Un’umanità senza colore</b>, perdutamente persa nel buio. Canzoni alle volte così pruriginose da sembrare un <b>sex shop ambulante</b>. D’altronde, il loro nome fu preso pari pari da una <b>novella pornografica</b>. Con loro, accadde anche che uno strumento prettamente classico come l’<b>arpa elettrica</b> divenne il marchio di fabbrica di una band di <b>rock’n’roll</b>. Si sentivano a loro agio <b>vestiti di cuoio nero con stivaletto e tacco a spillo</b>.<br />
<i><b>“Candy è arrivata dall’isola nella stanza sul retro era
carina con tutti Ma non ha mai perso la testa neanche quando faceva
pompini e ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio ha
detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio e le ragazze di
colore fanno Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doodoo, doo-doo, doo-doo,
doo-doo-doo”</b>. </i>(<i>Walk On The Wild Side – </i>Lou Reed)<i><br />
</i>Il loro primo album, <b>“The Velvet Underground & Nico”</b>, è un disco epocale che possiede un <b>alchimia sonora unica e mai eguagliata</b>. In queste canzoni non c’è posto per il sole, ma solo per <b>la notte delle strade di New York</b>. Luoghi dove si consumano<b> storie di alienazione e solitudine</b>, di<b> assassini</b> e <b>prostitute</b>. Di <b>gente senza fortuna</b> che non ha nulla a cui aggrapparsi se non la propria disperazione. <i><br />
<b>“Severin, Severin, parla sottovoce Severin, inginocchiati,
assaggia la frusta, in amore non si risparmia, assaggia la frusta, ora</b></i> <i><b>sanguina per me”</b>. </i>(<i>Venus in Furs</i>).<br />
<b>Lou Reed e soci</b> si fanno emissari di chi vive con <b>l’inferno sotto le maniche della camicia</b>. Spiriti lividi con <b>ventisei dollari</b> in mano, che aspettano il loro uomo all’altezza di <b>Lexington</b>. Che <b>corrono, corrono, corrono, sul bordo del mondo</b> anche se di fiato non ne hanno più e, su quei <b>viali intossicati</b>, estirpate dalle loro tombe s’incrociano anche <b>femmine fatali</b> e <b>Veneri in pelliccia</b>, adornate con coroncine di perle a buon mercato e stivaletti coi bottoni. <b><i>Sunday Morning</i></b> apre il disco ed è una ballata dolce e malinconica. Da struggimento totale. <b>“Lost Generation”</b>, l’album di <b>Elliott Murphy</b> che uscì nel<b> 1975</b>, doveva essere prodotto da <b>Lou Reed</b> che lo aveva segnalato alla <b>RCA</b>, dopo che <b>Elliott</b> aveva scritto le<b> note di copertina</b> del disco <b>“1969: Velvet Underground Live with Lou Reed”</b>… ma in quei giorni<b> Lou Reed</b> era impegnato in<i> tour</i> in <b>Canada</b>, per cui la casa discografica lo mandò a <b>Los Angeles</b> a lavorare con <b>Paul Rostchild</b>, il produttore dei <b>Doors</b>. Per un ragazzo come <b>Elliott </b>che voleva diventare una <b>rock’n’roll <i>star</i></b> e che era stato additato come il nuovo <b>Dylan</b>, dopo il folgorante e applaudito debutto dell’album<b> “Aquashow” </b>(<b>1973</b>), c’era di che sperare. In quelle registrazioni era presente come <b><i>session man</i></b> anche <b>Jim Gordon</b>, batterista di <b>Derek And The Dominos</b>, coautore di <b><i>Layla</i></b>. <b>“Lost Generation” </b>del <b>1975</b>, pur essendo un buon disco di rock’n’roll con episodi di rilievo come <i><b>Hollywood</b>, <b>Manhattan</b></i><b> <i>Rock</i></b> e la stesa <i><b>title track</b></i>, non riscuote lo sperato successo. Senza pensarci troppo la casa discografica mette <b>Elliot</b>
alla porta. Una cosa che gli accadrà spesso nella sua lunga carriera.
Però, e questo rimane un dato di fatto, farsi notare discograficamente
nel <b>1975</b> non era una cosa semplice. In quell’anno di
grazia furono pubblicati con copertina di cartone rigido e vinile
rigorosamente nero: <b>“Born To Run” </b>di <b>Bruce Springsteen</b>,<b> “Horses” </b>di<b> Patti Smith</b>,<b> “Zuma” </b>e<b> “Tonight’s The Night” </b>di<b> Neil Young</b>,<b> “Fandango” </b>degli<b> ZZ Top</b>,<b> “Blood On The Tracks” </b>di<b> Bob Dylan</b>,<b> “Bob Marley & the Wailers Live”</b>,<b> Who</b>,<b> “The Who By Numbers”</b>,<b> Allman Brothers Band</b>,<b> “Win, Lose Or Draw”</b>,<b> Aerosmith</b>,<b> “Toys In The Attic”</b>, i <b>Blue Oyster Cult </b>del magnifico<b> “On Your Feet Or On Your Knees”</b>,<b> “Leonard Cohen Greatest Hits”</b>, i<b> Rush </b>di<b> “Fly By</b> <b>Night” </b>e <b>“Caress Of Steel”</b>. Il buon <b>Elliott Murphy</b>, che è un vero <b>stacanovista del rock</b>, viene ingaggiato dalla<b> Columbia</b>, la stessa casa discografica di <b>Bob Dylan</b> e, nel <b>1976</b>, pubblica <b>“NightLights”</b>. Un disco notturno, romantico e scintillante di <b>rock’n’roll da bassifondi</b>. Ci suonano eccellenti musicisti come <b>Billy Joel</b>, <b>Jerry Harrison</b>,<b> Ernie Brooks</b> e anche un ex <b>Velvet Underground</b>, peraltro ottimo chitarrista, quel <b>Doug Yule</b><i> di </i><b>“Loaded” 1970</b>. E contiene due o tre canzoni che sono ancora oggi l’ossatura del suo vastissimo repertorio.<br />
<i><b>“Nella mente ha proprio il tocco di Bonaparte. E’ dello
stessa razza di Jack lo Squartatore. Vive ai margini. Mi piace vedere
quel tipo di energia. Cominciamo a sentirci soli su questo scoglio”</b>.<br />
</i>(<i>Lady Stiletto</i> – Elliott Murphy)<i>.</i><br />
Ma per diventare una <i>star</i> del rock occorre anche un pizzico di fortuna, cosa che non sembra essere una prerogativa di <b>Elliott Murphy</b>. Nonostante tutto ha continuato a darsi un gran daffare inseguendo i suoi sogni, sfornando ancora altri dischi tra cui<b> “Murph the Surf” </b>del <b>1982</b>,
il suo capolavoro. Non si è mai arreso di fronte ai suoi fallimenti, è
andato fino in fondo alle cose, senza alcuna paura. Se volete lo potete
incontrare ancora oggi da qualche parte in giro a suonare il suo
personale <b><i>“Never Ending Tour”</i></b>. Certo, il suo rock vive sui <b>palchi scomodi e logori di provincia</b>, nei pub o in piccoli club…ma quello che importa è ascoltare le sue <b>ballate polverose</b>, che hanno una dignità e un amore per la musica che è lezione per molti spocchiosi musicisti di adesso. Questo suo<b> senso di profonda dignità</b> nel cercare sempre nuove avventure lo rende ai miei occhi senz’altro speciale. Come fosse davvero lui <b>l’ultima delle rock’n’roll <i>stars</i></b>. Ci sono posti dove è facile farsi del male ma d’altra parte non sarebbe né meglio né peggio rimuoverli dai ricordi. <b>La villetta del quartiere sta sempre lì</b>, e anche quella <b>panchina</b>,
che è sempre vuota come lo era allora. Mi ci sedevo quando sentivo di
aver perso il controllo di me stesso e i miei punti deboli si erano
ingigantiti e diffidavo di tutto. Allora <b>restavo seduto senza far nulla</b>, solo a guardarmi intorno. <b>L’altro ieri ci sono ritornato</b> e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho alzato gli occhi verso <b>la finestra da dove si affacciava mia madre per chiamarmi</b>, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. <b>Le ho fatto un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto</b>. Ho girato gli occhi ancora più in alto ed ho visto<b> il balconcino di Pasqualino</b>. Era l’unico che si sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui tentava di parlare dei <b>fantasmi che lo perseguitavano</b>.
C’era nato con la testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso
in casa ma, quando mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le
scale e si metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a
fumare.<b> Sembrava che mi aspettasse</b>. Alle volte, quando le sue visioni erano felici, <b>mi sorrideva come solo i pazzi ti sanno ridere</b>
e mi toccava il viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che
quasi mi soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato
e ho pensato che <b>non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore che aveva dentro</b>,
che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui sapeva, sentiva
che c’era qualcosa in me che non andava… e allora credo che alla fine
sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che fosse troppo
tardi. Adesso sarà un angelo, <b>Pasqualino</b>, magari
bizzarro, che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi
manca la sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. <b>Accidenti a me. Odio i ricordi</b>. <i><br />
<b>“O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito non muore
mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a camminare lo
spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati intorno, e
guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai</b></i><i style="line-height: 22.4px;">.</i><i style="line-height: 1.4em;"><b>“</b> </i><span style="line-height: 1.4em;">(</span><i style="line-height: 1.4em;">Spirit </i><span style="line-height: 1.4em;">– Van Morrison).</span></span></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXpqwTnCwc06rNocott-9hEKEqVDq8icS7oAtXmIjeV6rnQp_sdSqmaAR5gFkY_6Ykeb_yMmJ_9kwLV8JicrxpMhiMVSIqVmvSoXvOFC-PoN1o-ToIU_A4I1MfSh7PA8Fabydh5aZaOVc/s1600/nel-mio-quartiere-bartolo-interno.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1086" data-original-width="768" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXpqwTnCwc06rNocott-9hEKEqVDq8icS7oAtXmIjeV6rnQp_sdSqmaAR5gFkY_6Ykeb_yMmJ_9kwLV8JicrxpMhiMVSIqVmvSoXvOFC-PoN1o-ToIU_A4I1MfSh7PA8Fabydh5aZaOVc/s640/nel-mio-quartiere-bartolo-interno.jpg" width="452" /></a></div>
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Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-23172995644426084702019-01-10T22:40:00.000-08:002019-01-10T22:40:25.095-08:00Bob&Tim: vite da niente<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFZRxqtejgJSkVVDuskSx_B2CCr4jqS7qfHdaPnIWgOnIlKQfuqphfDjdqBwnU8hup06xyywjnlo6Og1cGq3CoJqkTWfs_yzUvNX862sXy1dw9uSzBoClqS1b5er44FozbwqY3gqiW2DQ/s1600/bob-e-tim-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFZRxqtejgJSkVVDuskSx_B2CCr4jqS7qfHdaPnIWgOnIlKQfuqphfDjdqBwnU8hup06xyywjnlo6Og1cGq3CoJqkTWfs_yzUvNX862sXy1dw9uSzBoClqS1b5er44FozbwqY3gqiW2DQ/s640/bob-e-tim-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Ho il cranio che mi frulla di strane cose, e passo la mia giornata ascoltando <strong>Elvis </strong>che continua a cantare le sue fottute canzoni. Mi è rimasto solo lui mentre <strong>me ne vado da questa città</strong>,
e non so neanch’io con quali intenzioni. Mi chiedo mentre me la filo su
questa deserta strada, come farò a sopravvivere in un posto che non
conosco… ma andarmene è l’unica cosa che posso fare per cercare di
tirarmi avanti, aspettando che il mio destino si compia. <strong>Mio padre e mia madre sono stati genitori devoti e amorevoli</strong>, onesti e cortesi, e anche molto tolleranti con me che sono sempre stato un<strong> ragazzo difficile</strong>, strano, chiuso, e forse anche con qualche rotella fuori posto. Forse per questo motivo <strong>non ho mai incontrato una ragazza</strong>
che avesse voglia di mettere in questa forsennata e delirante testa un
po’ d’ordine. Darò l’impressione che io abbia voglia di lamentarmi, e
penserete che io abbia paura ma non è così. E’ solo colpa di <strong>una strana configurazione d’eventi</strong>, se mi trovo in questa situazione, ma come il mitico <strong>Jack di Denari</strong>
quel furfante che sgusciava tra pilastri di fiches, sarò uno duro da
battere. L’altro giorno al bar del rione, su un quotidiano ho letto che
andava tutto bene, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. La <strong>disoccupazione</strong>, la<strong> povertà</strong>, l’<strong>ingiustizia</strong> non esistevano più. E neanche gli<strong> invidiosi</strong> e i<strong> traditori</strong>. È stato così che ho pensato che<strong> il successo di quelli che ci governano</strong>, assomigliava in maniera impressionante al mio fallimento. Si era semplicemente rotto le palle <strong>Bob Dylan </strong>(nome d’arte preso da <strong>Matt Dillon</strong>, eroe di una serie western TV degli <strong>anni 50</strong>, e non dallo scrittore<strong> Dylan Thomas</strong>) di starsene a <strong>suonare seduto su un divano</strong> attorniato da quei <strong>giovani intellettuali</strong>
che lo osannavano. Era diventato il simbolo della loro condizione
sociale, del loro modo di pensare, e anche della loro appartenenza
politica. Tutti <strong>studenti universitari</strong> che si definivano<strong> innovatori</strong>, ma in fondo non erano altro che <strong>figli di papà</strong>, <em>radical chic</em>, con la puzza sotto il naso. Per questi <em><strong>folkniks</strong></em> che frequentavano gli stessi locali ascoltando gli stessi dischi, e che parlavano allo stesso modo, <strong>la riscoperta della canzone come strumento di comunicazione era solo una moda</strong>. Tutto il contrario di quel giovinetto taciturno e scorbutico </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.5;">che si era abbeverato al </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.5;">sapere popolare </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.5;">di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.5;">Woody Guthrie</strong>,<strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.5;"> </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">e che aveva imparato a suonare l’armonica a bocca e la chitarra ascoltando alla radio le canzoni di quell’ubriacone di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Hank Williams</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">, il rock’n’roll blasfemo di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Little Richard,</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e il blues paludoso di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Muddy Waters</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Howlin Wolf</strong><span style="line-height: inherit;">. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Quel loro modo di essere era quanto di più lontano potesse esserci dalla sua <strong>anarchia intellettuale</strong>,
e anche dal suo intendere la musica folk stessa. Ma sin dai tempi in
cui dodicenne si esibiva ai festival per dilettanti, pur continuando a
leggere </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Steinbeck</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e ascoltare i dischi di <strong>hillbilly</strong> di sua madre, in cuor suo ambiva a diventare una rock’n’roll star.</span><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> </em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"><strong>Dylan</strong> ha sempre diviso in due il pubblico. C’è chi lo adora incondizionatamente, e chi invece non lo sopporta per quel suo <strong>carattere taciturno e scontroso</strong>. La storia racconta che tutto ebbe inizio al festival folk di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Newport</strong><span style="line-height: inherit;">,</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> nel </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">1965. </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Quel giorno il rock’n’roll tornò nella vita della gente, ed ebbe nuovamente una voce. Era stufo <strong>Dylan</strong> di sentirsi dire: <strong><em>“</em></strong></span><strong style="line-height: inherit;"><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">bravo questo ragazzo, anche se è stonato e suona maluccio la chitarra”</em></strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">. Così con un ghigno diabolico dipinto sul viso, quel <strong>25 luglio</strong> si presentò sul palco con una chitarra elettrica a tracolla, seguito dal chitarrista </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Mike Bloomfield</strong><span style="line-height: inherit;">,</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e l’armonicista </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Paul Butterfield</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">. Alzò il volume degli amplificatori, e <strong>la sua Fender sibilò nell’aria che i tempi erano cambiati</strong>,
una volta e per sempre. Lo guardarono terrorizzati quei giovinetti
presenti, che cominciarono a rumoreggiare e a respingerlo in malo modo…
ma <strong>Bob continuò a suonare</strong> mentre il pubblico protestò scandalizzato, osteggiandolo di continuo. L’erede di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Woody Guthrie</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> chi si credeva di essere? Era solo uno che si stava compromettendo con una <strong>musica volgare, blasfema, impura</strong>…
e per di più lo stava facendo proprio di fronte a chi lo aveva sempre
osannato e vezzeggiato. Ma in quel trambusto nessuno si rese conto che
per la prima volta due mondi <strong>il folk e il rock</strong> che si erano da sempre guardati con avversità e sospetto, attraverso l’arte di quel ragazzo, <strong>finalmente diventavano complementari</strong>. Sfruttando l’energia di quei suoni, <strong>Dylan</strong> tirò fuori dal suo cilindro qualcosa che non esisteva e questa volta, con buona pace di tutti, senza restarne prigioniero. <strong>“</strong></span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Bringing All Back Home”</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">, <strong>“</strong></span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Highway 61 Revisited”</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e <strong>“</strong></span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Blonde On Blonde”, </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">sono i dischi che seguiranno quell’evento e che <strong>deformeranno, plasmeranno per sempre</strong></span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"><strong>la musica rock</strong>. Il loro avvento produrrà un <strong>cambiamento radicale nel mercato discografico</strong>. Il rock’n’roll non sarà più solo musica da ballo, ma diverrà la <strong>colonna sonora per tutte quelle minoranze silenziose</strong> che nessuno rappresentava. Dentro queste canzoni c’è una musica carica d’idee, di fatti, di slogan. <strong>Una musica anche politica rinnovatrice, sovversiva, ribelle, anarchica</strong>, che nessuno riuscirà mai a eguagliare. Neanche lui. Le sue canzoni lievitano fino a diventare lunghissime, con <strong>cascate di versi che si fondono magicamente insieme ai suoni</strong> e, dentro quel caos apparente, c’è tutto quello che nessuno aveva mai osato metterci. <strong>Letteratura</strong>, <strong>ideologia</strong>, <strong>vita vissuta</strong>, <strong>fantasie</strong>, <strong>bugie</strong>, <strong>visioni</strong>, <strong>poesia</strong>, <strong>rabbia</strong> e <strong>violenza</strong>; ma anche le <strong>tradizioni</strong>, la <strong>strada</strong>, le<strong> droghe</strong>, </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Rimbaud</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">, </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Baudelaire,</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> e </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Charley Patton</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">. Tutto questo sta in piedi in un clima da incubo urbano, da sogno ad occhi aperti, in una baraonda che è rock, folk, blues. <strong>Dylan</strong> ancora una volta <strong>diventa un simbolo</strong>. Questa volta però del <strong>disagio</strong> e della <strong>coscienza di massa</strong>; ma anche un <strong>punto di riferimento per una miriade di musicisti</strong>.
Quei versi sputati fuori con giochi di parole, rime martellanti,
scioglilingua, per la rapidità dell’informazione contenuta sembrano dei <strong>moderni <em>tweet</em></strong>.
Sono arrivato in città prima dell’alba e mi sono addormentato sui
sedili posteriori della macchina. Quando nella tarda mattina mi sono
alzato accecato dai raggi del sole, avevo un terribile mal di testa che
mi accudiva. Sono sceso dall’auto e mi sono seduto sul ciglio della
strada. Per farmi compagnia <strong>mi sono messo ad ascoltare il vento bisbigliare tra l’erba</strong>.
Avevo perso non so quante volte l’equilibrio, e ogni volta prima che
riuscissi nuovamente a rialzarmi, avevo dovuto lottare come un leone in
un’arena. Dopo il mio ennesimo fallimento era molto meglio riprendere
fiato. Quando vivevo ancora con i miei genitori, una sera ho sistemato
l’<strong>antenna della radio</strong> e ho visto delle <strong>nuvole nere</strong> nel cielo arrivare sopra casa mia. Prima che piovesse <strong>ho ascoltato una canzone</strong>… che dico, una<strong> voce profonda</strong>,
chiara, poi scura, forte, tenue, che sfumava le parole e poi le
assaliva. Sembrava volesse superare qualsiasi barriera quella voce. Per
un attimo mi sono chiesto se fosse un’allucinazione, o un mio tormento. <em><strong>“</strong></em></span><strong style="line-height: inherit;"><em style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Io sono giovane, io vivrò, io sono forte, io posso darti lo strano seme del giorno: senti il mutamento, conosci la strada” </em></strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">(</span><em style="line-height: inherit;"><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Goodbye And Hello</span></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">). </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Tim Buckley</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> non era nato per fare la <em>rockstar</em>,
anche se l’industria discografica sin dall’inizio aveva tentato in
tutti i modi di costruirgli quel ruolo. Un uomo schivo, onesto e
sensibile, con un carattere emotivo, introverso, tormentato come il suo,
non avrebbe mai potuto esserlo. Per via di quell’indole <strong>i discografici di quel tempo lo avevano preso per uno squilibrato</strong>. Un artista </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Buckley</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> che non si può categorizzare in nessun genere.<strong> La sua musica è inafferrabile, turbolenta, libera da qualsiasi costrizione</strong>. Con il suo canto allucinato ma prorompente e straripante di passione, era quasi riuscito a <strong>deformare la realtà con la poesia</strong>. Com’è stato per </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Dylan</strong><span style="line-height: inherit;">,</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> i dischi di </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Buckley </strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">hanno
rotto qualsiasi barriera musicale ed emozionale. Un uomo che ha
sofferto la tristezza e la bruttezza del mondo, e che sognava la
leggerezza di un viaggio fantastico. Un viaggio che partiva
dall’ombra per poi tentare di volare, di respirare, cercando un
appiglio, uno spunto, per tornare nella luce del mattino. <strong>Un uomo che riusciva a cantare completamente nudo nell’anima</strong>.
Un innamorato della vita, tanto da non sopportare le sue miserie e
trovare riparo nell’eroina. Uno che toccava e accarezzava le parole come
i riccioli dei suoi capelli, cercando sempre un nuovo punto di partenza
da cui poterle trasfigurare. L’<strong>acqua</strong>, le <strong>nuvole</strong>, il <strong>mare</strong>, i fiumi, le <strong>ragazze gitane</strong>, i <strong>treni</strong>, le <strong>melodie tristi</strong>, i <strong>solitari</strong>,
sono le cose da cantare, quelle che animano il suo sentire; e non ci
sono steccati o interdizioni che tengono, di fronte a quel flusso di
passione. </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Tim Buckley</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;"> con la sola chitarra acustica affronta <strong>il suo mondo di suggestive visioni</strong>,
comunicando con gli angeli, graffiando e avvolgendo le parole,
distendendo la melodia. Commuove e spacca l’anima mentre con la sua voce
baritonale che non conosce risposte né verità, ma solo la paura di non
potere più sognare, <strong>apre nuovi orizzonti</strong>. Era un uomo solo <strong>Buckley</strong> che faceva un mucchio di sogni, e che amava anche quello che perdeva. Con il vento che gli annodava i capelli <strong>era pronto a mettersi in marcia</strong>. Se né andato troppo presto il<strong> 29 giugno del 1975</strong> nel cuore della notte, per un’overdose di eroina. <strong>Stava solo volando, cercando di afferrare qualcosa che gli era sfuggita nel buio</strong>.
Ho ripreso a guidare, poi ho rallentato per rendermi conto di dove
fossi arrivato, e mi sono fermato davanti a un lampione. Non ero solo.
Lo avevo capito sin da subito, da quando <strong>la incontrai</strong>, che <strong>la musica non mi avrebbe mai lasciato</strong>.
Durante questi anni passati insieme l’ho vista sorridere, piangere,
lamentarsi; con l’aria corrucciata, aggrottare la fronte e fumarsi una
sigaretta nervosamente. Spostarsi nei miei incubi, per poi tornare
insieme a me a sognare. L’ho sentita come </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Tim</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">, triste e felice. Curiosa e sconvolta, come </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Bob</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">. Per poi incazzarsi e mentire, come </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">Iggy</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: inherit;">. Un’irruzione continua, <strong>una voglia infernale di vita</strong>. Sedersi e svignarsela. Mi sono guardato intorno, <strong>la strada era di nuovo ricoperta di poesia</strong>. La musica è l’ultima resistenza al potere. Lei non va mai via. Nelle vite da niente, non va mai via.</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-15799702976140664692019-01-02T05:39:00.003-08:002019-01-02T05:41:08.278-08:00Io e Tom... Buon Anno a tutti.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZ96Vw-FAPkVDQj__wBoMZZgYlYboKr075rzidWC8E3gaa9R1WBpXKM9ra3Idyd8cU9HmRUHF_gLXSX6q4N78beCNoqZ_UX9M-37p2LQIp-aLIKucC8RPrZozaDM_Mvr7NjYrp3UR4rkk/s1600/48429982_10213249235097103_9209486076874326016_n.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="720" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZ96Vw-FAPkVDQj__wBoMZZgYlYboKr075rzidWC8E3gaa9R1WBpXKM9ra3Idyd8cU9HmRUHF_gLXSX6q4N78beCNoqZ_UX9M-37p2LQIp-aLIKucC8RPrZozaDM_Mvr7NjYrp3UR4rkk/s320/48429982_10213249235097103_9209486076874326016_n.jpg" width="240" /></a><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTp0L3bomS9GNk3qC3brKObiIded2OoqvMZc_sY95exDgViIN3SSCV4Zz-ihr9Q0HtnJp5Cg80b8PeJxqiJ5JWLJtykHcfS3frN2t_EWqCnSTAVlcs3z4Q9JD6AQ6GKGSXZZEzd467UUU/s1600/tomwaitstop6.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1144" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTp0L3bomS9GNk3qC3brKObiIded2OoqvMZc_sY95exDgViIN3SSCV4Zz-ihr9Q0HtnJp5Cg80b8PeJxqiJ5JWLJtykHcfS3frN2t_EWqCnSTAVlcs3z4Q9JD6AQ6GKGSXZZEzd467UUU/s320/tomwaitstop6.jpg" width="228" /></a></div>
<br />Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-72434103992023254502018-12-26T07:47:00.001-08:002018-12-26T07:47:50.038-08:00Dal Blu al Nero<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhcocGe3Q2uFWrKhxyrbiJV4TAoBxurpiLm0ID4xMoq_Dn8mAoCqMG5cWcSKG5hPl3rovtGuaFegS4vN7mlcZxd-Lo0CFT5hhagVO9y92wk3FaeP6Sfm2GLYyDPuEFW6t-q9RNvZ9F0HiE/s1600/dal-blu-al-nero-bartolo1-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhcocGe3Q2uFWrKhxyrbiJV4TAoBxurpiLm0ID4xMoq_Dn8mAoCqMG5cWcSKG5hPl3rovtGuaFegS4vN7mlcZxd-Lo0CFT5hhagVO9y92wk3FaeP6Sfm2GLYyDPuEFW6t-q9RNvZ9F0HiE/s640/dal-blu-al-nero-bartolo1-768x445.jpg" width="640" /></a><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;"><strong> Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé</strong>. Riaprire il fiotto dei<strong> sogni</strong> e partire dal primo che si è fatto quando si era ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, <strong>nuovi punti di arrivo</strong> e, quindi, <strong>nuovi punti di partenza</strong>.
Squadrai il cielo sopra la mia testa che restava fuligginoso, mentre
sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che mi incrostavano
l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e saziarmi
di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio della
mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza… ma
non riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi
attraversava mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato
parecchio complicato <strong>stare sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più</strong>.
Il pericolo era di fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a
tradirmi. Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio
stambugio. Ero pallido e stanco. <strong>Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con rabbia e avidità</strong> ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la vita. <strong>Ero un precario dei sentimenti come del lavoro</strong>.
Cosa avevo da offrirgli se non la mia stessa confusione? Probabilmente
era il momento di fare quella puntata balorda e giocarmi i numeri alla
ruota del lotto rimanendo in attesa del miracolo di diventare ricco ma
non avevo mai creduto abbastanza che questo potesse accadermi da
dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di male a immaginarmi
nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei occhi che <strong>scoppiai a ridere sconciamente</strong>.
Lì da solo in mezzo alla strada. Rientrai in casa e bevvi un sorso a
canna dalla bottiglia di gin che era riversa sul tavolo della cucina.
Afferrai dallo scaffale nel reparto <em>operai della musica</em> <strong>“</strong><b>Willy And The Poor Boys” </b>dei <b>Creedence Clearwater</b> <b>Revival</b>, anno <b>1969</b>.
Tirai un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi meglio. La musica,
da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che attraversa l’<strong>America</strong>, mentre la voce di <b>John Fogerty</b>,
lacerata e colma d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia
sempre sul punto di spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che
ti afferrano le pareti dello stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto
in quelle semplici canzoni: <strong>voglia di vivere</strong>, di <strong>combattere</strong> e <strong>fierezza di essere duri e puri</strong>. Tutte cose che quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano confidato nel <strong>potere magico della musica</strong>
per crearsi l’esistenza. Che su tre accordi hanno adagiato i propri
sogni, e con molta probabilità hanno perso più di un occasione nella
vita. Che sul <strong>treno dei finti sorrisi</strong> non ci sono mai
voluti salire per restare fedeli a se stessi. Persone che hanno pianto
come bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le
pareti del mondo. <strong>Uomini che si sono trascinati nel buio della notte</strong> e che, sbandati e confusi, non hanno trovato più la strada di casa.<br />
<strong>“</strong><i><strong>My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci
resterà. E’ meglio bruciare fino in fondo che dissolversi nel nulla. My
my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed entrare nel nero. Ti danno questo, ma
paghi per quello. E una volta che sei andato non puoi più tornare.
Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero”. </strong></i><em>My my, ehi, ehi (Out of the blue)</em>. <i><br />
</i>Sono poche le cose che ci legano al passato ma alla fine sono
proprio quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra
con un bicchiere sul petto, ascoltando <strong>“Live </strong><b>Rust” </b>di<b> Neil Young</b>, anno <b>1979</b>. Un doppio album dal vivo registrato nel <b>1978</b> al <b>Cow Palace</b> di <b>San Francisco</b>, dove <strong>Young</strong>, con la sua chitarra acustica, prima si scioglie dentro le sue ballate dolenti e poi, insieme ai <b>Crazy Horse</b>, dà vita ad un <em>set</em> elettrico ad alta intensità emotiva: <strong><em>Like A Hurricane,</em></strong> <em><strong>Cortez The Killer</strong></em>, <em><strong>My My Hey Hey</strong></em>, <strong>Cinnamon Girl</strong>, <em><strong>Powderfinger</strong></em>,
sono proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla
pelle, sui nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è
sopraggiunta la rassegnazione. <strong>“Live Rust”</strong> è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché <strong>ero giovane e ribelle e i Clash erano il mio unico credo</strong>. La musica di <strong>Neil</strong>,
in quei giorni, era il punto di riferimento di una generazione che in
qualche modo consideravo già vecchia… ma era nella natura delle cose e
della vita dovermi incrociare con quest’uomo. <strong>Un inquieto sognatore notturno</strong>, la cui esistenza è costellata di fantasmi.<br />
<em><strong>“</strong></em><i><strong>Quando lei se ne andò, lui morì,
ma continuò a fingersi vivo. Quando lo vedrai, capirai che niente può
liberarlo. Fatti da parte, cedigli strada: è il solitario”</strong>. (The Loner).<br />
S</i>draiato sul letto<i> </i>pensai a<strong> Luisa</strong> e al suo
corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come se avessi
lasciato le mie tracce sulla battigia e al mio ritorno non c’era più
nulla. La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina
sulla <strong>statale 113</strong>. Quando avevo bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo preferito. <strong>La 113 è una strada lunga e silenziosa</strong>, che cammina a ridosso del mare. E’ un percorso dai lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come una canzone dei <b>Velvet Underground</b>.
Il vento che era venuto giù faceva increspare le onde, intanto che un
flebile sole si faceva largo tra le nuvole nere che schiamazzavano nel
cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata, al pari di quei grigi
villini per le vacanze di cui era attorniata. <strong>Ad un tratto mi si parò davanti</strong>, con la sua bicicletta e lo zaino legato al portapacchi, <strong>uno che veniva da un’altra era</strong>. Arrancava lentamente, senza una meta da raggiungere, quel <strong>figlio dei fiori</strong>.
Come il vento, andava dove credeva. Lo superai, osservandolo dallo
specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi sembrò che avesse la faccia
serena. <b>1967 </b>a<b> San Francisco</b>. Andava in scena la rivoluzione. Ventimila anime che inseguivano un sogno comune si erano<b> </b>riunite al <strong>Golden</strong><b> Gate Park</b>, in quella che fu definita<strong> l’estate dell’amore</strong>, per ascoltare gratuitamente i <b>Grateful Dead </b>e i <b>Jefferson Airplane</b>. In città erano giunti da <b>New York</b>,<b> Jack Kerouac</b>,<b> Alle</b><strong>n</strong> <b>Ginsberg </b>e<b> Gregory Corso</b> appena uscito dal carcere, per unirsi al poeta e letterato <b>Kenneth Rexroth</b>. Gli <b>hippy</b> prendevano allucinogeni e si decoravano i capelli con i fiori, mentre a <b>Berkeley</b> i <strong>movimenti studenteschi</strong> si scontravano con la <strong>polizia</strong> reclamando <strong>diritti civili</strong>. Nella vicina <b>Oakland</b> dei duri, quali erano <b>Eldridge Cleaver</b>,<b> Huey Newton </b>e<b> Bobby Seale</b>, fondarono l’organizzazione radicale delle <b>Pantere Nere.</b><br />
<strong>”<i>Guardate cosa sta accadendo fuori nella strada: è la
rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Hey, sto danzando giù nella
strada, è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Non è
sorprendente tutta la gente che incontro? E’ la rivoluzione, dobbiamo
fare la rivoluzione. Una generazione è invecchiata, una generazione ha
trovato la sua anima” </i></strong>(<em>Volunteers – </em>Jefferson Airplane). <b><br />
</b>La prima volta che i<strong> Jefferson Airplane</strong> cantarono questa canzone fu nella radura di <strong>Woodstock </strong>il 21 agosto <strong>1969</strong>, davanti a <strong>500.000 persone</strong>, con rabbia e passione. Nel novembre dello stesso anno venne pubblicato “<strong>Volunteers”</strong>, un disco che è anche un <strong>manifesto politico</strong>, apertamente sovversivo. <strong><em>We Can’t Be Together</em> </strong>apre l’album e spara subito a zero contro le<strong> repressioni anti-libertarie</strong> dell’<strong>America</strong> di <strong>Nixon </strong>e di <strong>Kissinger</strong>. I<strong> Jefferson Airplane,</strong>
per non disgregare il messaggio politico, cercarono di unire
coerentemente parole e musica, in questo aiutati dalla presenza di
ospiti illustri. In <strong><em>The Farm</em> Jerry Garcia</strong> suona la <em>pedal steel</em>, creando un’atmosfera prettamente rurale.<em><strong> Wooden Ships</strong></em>, regalata dal duo <strong>Crosby </strong>e<strong> Stills,</strong> presenti entrambi, è sinistra nel suo incedere e parecchio inquietante. <strong>Jorma Kaukonen</strong> incrocia la chitarra con quella di <strong>Jerry Garcia </strong>in<em><strong> Hey Fredrick</strong></em>, mentre<strong> Grace Slick</strong> canta con profonda emozione. L’incedere country di <em><strong>A Song for</strong> <strong>All Season</strong></em> sembra anticipare di qualche anno <strong><em>Sweet Virginia </em></strong>dei <strong>Rolling Stones</strong>, forse per la presenza nel disco del pianista <strong>Nicky Hopkins</strong>, poi alla corte delle <em><strong>pietre rotolanti</strong></em>, che ricama e caratterizza le canzoni con il suo distintivo suono. Questo disco, comunque sia, suggella la <strong>comunanza d’intenti</strong> e quel <strong>senso di fratellanza</strong> che avevano in quegli anni tutti i musicisti della <strong>Baia</strong>. <strong>“Volunteers”</strong> è la fine di un’epoca ed è come una <strong>capsula del tempo</strong>.
La si può schiudere e tornare ai giorni in cui era bello sperare che la
musica potesse cambiare il mondo. Viaggiando, fatti di <strong>benzedrina</strong>, su camion che ti avevano raccattato nella notte da qualche parte in mezzo al deserto.<br />
<strong>“</strong><em><strong>Questa generazione non ha mete da
raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e
per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Su, venite,
stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la
rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I
volontari d’Amerika I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” </strong></em>(<em>Volunteers</em> – Jefferson Airplane).<em><br />
</em><strong>Andai all’edicola e comprai un quotidiano</strong>. Poi mi diressi all’<strong>ufficio di collocamento</strong> e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano, aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le <strong>pagine politiche</strong> del giornale. Sempre la stessa tiritera, <strong>bugie su bugie</strong>. Tirai dritto e andai alla <strong>pagina della musica</strong>. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di <strong>Leonard Cohen</strong> e mi chiesi <strong>perché certi giornalisti dovevano campare alla grande</strong>,
pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie…
mentre altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano
vivere nel limbo. La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro <strong>figli del vento</strong>, <strong>nati senza la lingua a pennello</strong>. Sentii puzza di merda nell’aria. Allora pensai a <strong>Luisa</strong> e solo a lei.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;"> Bartolo Federico</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-17320116252532045582018-12-18T04:06:00.002-08:002018-12-18T04:06:44.550-08:00Dannato Stasera Non Piangere. <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3K0qEY0sInSVxM5RKs9H-lUs1uXONpR1Z5CzlWiTwyGVYGsyeVh28aO0fyR2sQKGNqM-77WLoiPcDhMlHDeLNV2_QbPRzcGNlbK6S01NsyFSu6bvHGi1igfZpKuKcoM3ikqbnYSrwl_o/s1600/dannato-non-piangere-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3K0qEY0sInSVxM5RKs9H-lUs1uXONpR1Z5CzlWiTwyGVYGsyeVh28aO0fyR2sQKGNqM-77WLoiPcDhMlHDeLNV2_QbPRzcGNlbK6S01NsyFSu6bvHGi1igfZpKuKcoM3ikqbnYSrwl_o/s640/dannato-non-piangere-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><span style="font-size: 12pt;"> Il <strong>bar Cosimo</strong><em> </em>all’ora di pranzo era pieno di <strong>impiegati</strong>, indaffarati a mangiare <strong>insalate</strong>, e qualche <strong>arancino al ragù</strong>. <strong>Vite ordinarie</strong> quelle, con le loro<strong> preoccupazioni</strong> e le proprie <strong>ansie</strong>.<strong> Persone normali</strong>, con <strong>progetti</strong>, <strong>speranze</strong> e, probabilmente, qualche <strong>sogno</strong> cucito chissà dove. <strong>Avevo cercato riparo dai miei silenzi, e dai miei blues</strong>, standomene <strong>assorto davanti a un bicchiere di vino rosso</strong>. Troppi punti deboli, troppe lacune si erano aperte dentro di me. <strong>Girai gli occhi e incrociai lo sguardo di una ragazza</strong> col seno grosso che si toccava i capelli. <strong>Lei mi guardò ammiccando con un piccolo sorriso</strong>.
Non era brutta, ma di sicuro non era il mio tipo. Troppo muscolosa e
con le spalle larghe per i miei gusti. Guardai attraverso il vetro del
bar e, chissà perché, cercai quelle risposte che non arrivano mai. Un <strong>ragazzino</strong> con un cappello alla <strong>Mingus</strong> entrò ridendo. Capivo di non avere più <strong>risentimenti verso nessuno,</strong> ma di essere ancora in qualche mod<strong>o vulnerabile</strong>, come quando ero giovane. <strong>La vita è fatta di incontri alle volte insignificanti</strong>, altre volte così <strong>devastanti</strong> che ti cambiano per sempre… e mi rividi spostarmi per quelle<strong> strade buie e silenziose</strong>, con i<strong> cartelli arrugginiti</strong> e <strong>sbattuti dal vento</strong>. Quelle strade abbandonate, circondate da<strong> immondizia</strong> e <strong>puzza di piscio</strong>, che ci si smarriva non appena svoltavi l’angolo. <strong>Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza</strong>, <strong>altri alla dannazione</strong>. Dal pacchetto di sigarette tirai fuori una <strong>Benson &Hudges</strong>
che strinsi tra le dita, ma non accesi. Avevo sempre cercato di fare
del mio meglio. Tuttavia i giudizi che mi davo un tempo, mi sembravano
meno spietati di quelli di adesso. In compenso non mi preoccupavo più di
come andavano le cose. <strong>Mi incuriosivo solo dei miei continui cambiament</strong>i. <em><strong>“Nessuno è innocente, nessuno. Ficcatelo bene in testa”</strong></em>. Senza motivo, mi erano tornate in mente le <strong>parole</strong> urlatemi da <strong>Gilda</strong> in quel <strong>pomeriggio da cani</strong>. Lo avevo imparato a mie spese che, quando le situazioni prendono una brutta piega, è inutile che uno cerchi di spiegare. <strong>Noi uomini, prendiamo ciò che ci fa più comodo</strong>. Siamo abituati ad usarci perché dopo un po’<strong> l’amore finisce</strong> e, in seguito, anche l’<strong>odio</strong> che nutriamo. <strong>Un altro esule entrò nel bar</strong>.
Camminando di sbieco e ordinando una birra, si accomodò. Era una
giornata di quelle che non si sa perché, ti senti scoglionato, annoiato,
irritato, ma sapevo che avrei fatto bene a restarmene sobrio. <em><strong>“C’è un casino dappertutto”</strong> </em>mormorò ad un tratto, l<strong>’uomo</strong> che si era seduto proprio dietro di me. <strong><em>“ci si sente come in prigione”</em></strong>, continuò… ed era <strong>come se mi stesse leggendo nei pensieri</strong>. Mi girai lentamente e <strong>lo guardai per un lungo istante dritto negli occhi</strong>, come a volergli scrutare fin dentro l’anima. <strong><em>“Non lo so, e non è che m’importi molto”</em></strong> risposi, mentre <strong>un cellulare iniziò a suonare una musichetta del cazzo</strong>. Non avevo <strong>fame</strong>, né <strong>freddo</strong>, né <strong>sonno</strong>, niente. <strong>Non sentivo niente</strong>. Vidi il cielo annuvolarsi e mi chiesi <strong>fino a che punto dovevo precipitare, prima di fermarmi</strong>. Mi aggiravo per le strade portandomi appresso <strong>un oscurità così densa, che potevo tinteggiare le pareti di un palazzo</strong>. In quel silenzio, <strong>l’autoradio della macchina sparava raffiche di</strong> <strong>sax,</strong> tanto forti da impedirmi di sentire le mie stesse urla. <strong>Amavo il suono del sassofono</strong>, era come se ascoltassi il respiro profondo di certe anime dilaniate che facevano musica nella tempesta. <strong>John Coltrane</strong> è una luce negli occhi, una sensazione fantastica, tremendamente rara. <em><strong>In The Dark You Can Love This Place</strong></em> mi ha sussurrato una notte </span><strong style="line-height: 22.4px;">Barzin</strong>, <span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">distogliendo accuratamente lo sguardo</span><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. <strong>Ho trattenuto le lacrime,</strong> per non farmi inondare fin dentro le orecchie, e capire quanto ero ridotto male. <strong>Gilda</strong> quando c’eravamo incontrati, <strong>mi aveva guardato da dietro il fumo di una sigaretta</strong>, e questo bastò per farmi perdere l’orientamento. Era come se una voce mi dicesse che <strong>era lei che stavo cercando</strong>… ma ora che c’è l’avevo di fronte, non sapevo che fare, e le dissi soltanto: <em><strong>“</strong></em></span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"><em>ciao bambina”</em></strong>, con una voce greve e lenta<span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">… e <strong>subito dopo iniziò a diluviare</strong>. E piovve per un bel pezzo. Poi rimasi in silenzio, inquieto come un sospiro. Ma <strong>queste cose mi erano successe in un’altra vita</strong>. Come spesso accade i nostri destini si erano separati, e niente e nessuno avrebbe potuto farmi tornare sui miei passi. </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Ho canticchiato un blues</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> mentre
salivo le scale di casa, dove non mi aspettava più nessuno. Con gli
occhi spalancati nella penombra, ho acceso lo stereo, fumando, e
cercando di non farmi prendere dallo sconforto.<strong> Erano passati anni, secoli, mesi, giorni, ore, minuti, da quando ci eravamo lasciati</strong>,
ma certe cose, non si erano ancora sbiadite. Il telefono gettato sul
pavimento prese a suonare, lo guardai ma non risposi. Lei di sicuro non
mi stava cercando. Ho acceso la lampada che faceva una luce fioca, per
cercare nello scaffale un disco che non trovai di </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Blind Blake</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, uno dei padri fondatori del blues. Un </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">viaggiatore misterioso</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> di cui non si sa praticamente nulla. Di quest’uomo solitario è rimasta </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">un’unica foto</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. Eppure negli <strong>anni venti</strong> era una <strong><em>star</em> della musica</strong>. Suonava un <strong>blues tecnico</strong> e riusciva a tracciare con la sua chitarra un <strong><em>crossover</em></strong> ante litteram, che amalgamava lo stile <strong>ragtime</strong>, con il <strong>blues</strong> e il <strong>jazz</strong>. Anche il burbero reverendo </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Gary Davis</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> lo omaggiò. Lui così avaro di complimenti verso gli altri musicisti. <strong>I morti hanno sempre gli occhi tristi</strong>. Anche </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Nick </strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">li
aveva quando è spirato per un tumore all’esofago. Per come era fatto,
avrebbe preferito di gran lunga una pallottola dritta in testa che
quell’animale dentro a divorarlo. Aveva appreso sin da subito di essere
spacciato e di non avere via d’uscita… e non deve essere stato facile</span>.<strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Il diavolo poi ci mette sempre lo zampino</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> e sembra che goda. Anche quando chiedi: <em><strong>“</strong></em></span><em><strong>quanto tempo mi resta dottore?”</strong></em><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">
Lui sogghigna. Alla fine, all’ultimo istante, avrebbe voluto alzarsi da
quel cazzo di letto che lo inchiodava e camminare, camminare. <strong>Prima di tirare le cuoia avrebbe voluto bestemmiare, imprecare</strong>.
Andarsene in giro senza meta, come faceva quando cercava di raccattare i
cocci della sua pazza vita… ma si sentiva debole e stordito, ed <strong>aveva </strong></span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">una paura fottuta</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. Siamo tutti strambi noi uomini. Mi alzai e mi versai un bicchiere di <strong>Chivas</strong>. <strong>Il whisky andò giù morbido</strong>. Mi ricordai di quando <strong>lei era seduta sul divano e sfogliava distrattamente una rivista</strong>. Aveva recuperato il pacchetto delle sigarette e si era accesa una merda di <strong>MS</strong>. A guardarla <strong>nel suo jeans attillato aveva un bel culo, ma anche delle belle tette</strong>. Per tutto il giorno aveva sapientemente evitato il mio sguardo. Forse era un modo per non farsi venire qualche rimorso. <strong>Suonai qualcosa con la chitarra per ritrovare il coraggio</strong>.
Aveva due splendidi occhi ed eravamo diventati tutt’uno. Non c’era
spazio per nient’altro. Lo dico adesso che non posso più ingannare
nessuno, tantomeno me stesso. </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">È stato questo che alla fine ci ha fregato</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">.
Avevo smesso di dare importanza ai suoi misteri, come lei ai miei. Non
potevamo continuare ancora ad ingannarci. Me ne sono tornato
nell’oscurità, </span>come un blues greve di<strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Mark Lanegan.</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Le armi e i duri non mi sono mai piaciuti. Neanche i mercenari e certi sbirri. <strong>C’è gente che legge troppi libri, altri nemmeno uno</strong>.
La vita alle volte è crudele, e si comporta come un romanzo da due
soldi. Sarò un romantico, ma esiste un altro modo per stare su questa
terra. Ne sono certo. In quello mio, non ci sono né vincitori, né vinti.
Perché capita ad ognuno di noi che qualche porta si chiuda, e anche se
questo ci lascia quel retrogusto amaro di nullità, si può sempre
ricominciare, da qualche altra parte. Sempre. </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">La cattiva stella prima o poi tramonta</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. Bisogna solo sapere aspettare. Certo, <strong>ci vuole una infinita pazienza, ma ne vale la pena</strong>. L’ho appreso dal <strong>blues</strong> questo, che non vive nel mondo della luna. Pur con una gamba di legno </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Furry Lewis</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> se ne andava in giro per il <strong>sud del Mississippi</strong>, aggregandosi al fianco di <strong>imbroglioni e truffatori</strong>, che seguivano le <strong>carovane</strong> dei </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">minstrels</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> e dei </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">medicine show</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">.
Aveva perso la gamba in un incidente ferroviario, ma tutto questo non
era riuscito a fermare la sua vivacità, la sua voglia di vivere. Suonò
insieme a </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Gus Cannon</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> e </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Will Shade</strong>,<span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> per le strade di <strong>Memphis</strong>, entrando anche a far parte della</span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Memphis Jug Band</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">… ma di musica non sempre si campa, e allora inizia a lavorare come <strong>spazzino</strong>, e lo farà per oltre quarant’anni. Per non gettare del tutto il suo talento, alla sera suona nei <strong>battelli a vapore</strong> che attraversano il <strong>grande Fiume</strong>, e al mattino va a ripulire le strade della sua città. Suonare a questo </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">songsterr</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, gli ha reso più sopportabile la sua dura esistenza. L’ha fatto anche </span><em><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Night Moves </strong></em><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">con me. Una canzone che conserva il sapore di tante cose che ho perso lungo il tragitto.<strong> Ho pensato a Lei ascoltandola</strong>. Ai suoi seni, al suo desiderio, alle sue speranze, alla sua avidità. <strong>Me ne sono rimasto seduto sul divano</strong>,
mentre fuori aveva preso a piovere. Ha piovuto per un bel pezzo. Mi
sono fatto del caffè e fumato qualche sigaretta nella piccola cucina. <strong>Al lavoro l’indomani</strong>,
ci sarei andato anche a costo di strascicarmi per strada a tentoni. È
solo quando non hai più una cosa, che te ne accorgi di quanto era
importante. <strong>Misi un disco di </strong></span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">rock duro, grintoso</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, di quelli che sparano <strong>raffiche di </strong></span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">chitarra a mitraglia</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. Tanto per stordirmi un po’. La mattina uscì presto di casa.<strong> Era un’alba fresca e senza particolari pretese</strong>.
Prima di andare via, ho lasciato tutte le luci dell’appartamento
accese. Così da darmi la sensazione al mio rientro, di non essere solo. A
quell’ora del mattino le strade erano deserte. <strong>Un barbone dormiva dentro l’atrio del portone</strong>. Cercai di non disturbarlo. In strada camminavo veloce e con le mani infilate nella tasca della giacca. </span><em><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">La</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Folie </strong></em><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">cantavano gli </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Strarnglers</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> nel <strong>1981</strong>. <strong>“</strong></span><em style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"><strong>Combien
de crimes ont ete commis. Contre les mensonges et soi disant les lois
du coeur. Combien sont la a cause de la folie. Parce qu’il ont la folie”</strong>. </em><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Mia <strong>zia Marianne</strong> <strong>sentiva le voci, e vedeva cose inesistenti</strong>.
Alle volte diceva che erano sui muri, altre sul pavimento, qualche
volta non ti riconosceva nemmeno, perché eri tu la cosa strana. Se ne
stava per ore seduta immobile sulla sedia. Ogni tanto rideva e si
toccava i capelli, e si stringeva i seni, fino a farsi male. Beveva vino
rosso a litri, e fumava all’inverosimile. </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Troppe notti difficili</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">.
Alle volte avevo paura, una paura tremenda, che potessi uccidermi… ma
forse c’era molto suggestione in me. Ogni tanto tornava normale e
passavamo dei bei momenti. Poi anche quegli attimi svanirono, e la
dovettero rinchiudere in un manicomio. </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">John Trudell </strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">è un indiano </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Sioux</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">. Quando venne nominato portavoce dell’</span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">American</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Indian Movement</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, si rese protagonista di un g<strong>esto di protesta contro le autorità americane</strong>, per le atrocità commesse nei confronti dei <strong>nativi americani</strong>. Sui gradini del </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">J. Edgar Hoover Building</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> di <strong>Washington</strong> <strong>bruciò la bandiera a stelle e strisce</strong>. Dodici ore più tardi, sua <strong>moglie</strong>, i suoi <strong>tre figli</strong>, e sua <strong>suocera</strong>, <strong>morirono in un incendio</strong> nella riserva di </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Paiute Shoshone</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> in <strong>Nevada</strong>. La cosa resterà <strong>senza colpevoli</strong>, anche per il rifiuto dell’<strong>FBI</strong> di indagare sul caso. <strong>John Trudell </strong>inizia a comporre <strong>poesie</strong> e, nel <strong>1985</strong>, quando incontra </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Jesse Ed Davis</strong><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, un<strong> indiano Kiowa</strong> che suona con </span><strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Clapton</strong>,<strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Dylan</strong>,<strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> Lennon </strong>e <strong style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Jackson Browne</strong>,<span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> le sue poesie diventano musica. “<strong>A.K.A. Graffiti Man” </strong></span><span style="font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">è un <strong>grido di dolore</strong>, un <strong>blues profondo</strong>, un <strong>vento di guerra</strong>. Ci sono cose che nessuno può uccidere… ma il cuore degli uomini è la cosa più difficile da vedere. <strong>Dannato stasera non piangere</strong>.</span></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-51596259059788281602018-11-25T23:11:00.000-08:002018-11-25T23:11:09.869-08:00Eternamente qui<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjP_OQxGZdfRmGKHUR0TU5tkNhbBFMVO_7dTudAqGBVPIs82XN6ip7RXhjJrvAYR1-3Th1ous1cYlBDHHpXMPPT-O9DxOnFPLneq5U73QTrseSRVWpD7Ns8tVGl1g7yceCLQKEXLrU-2AI/s1600/underground-bartolo1-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjP_OQxGZdfRmGKHUR0TU5tkNhbBFMVO_7dTudAqGBVPIs82XN6ip7RXhjJrvAYR1-3Th1ous1cYlBDHHpXMPPT-O9DxOnFPLneq5U73QTrseSRVWpD7Ns8tVGl1g7yceCLQKEXLrU-2AI/s640/underground-bartolo1-768x445.jpg" width="640" /></a><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong> Quando al mattino mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana</strong>,
le previsioni del tempo davano un peggioramento nella serata, con vere
bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero e la
sciarpetta di seta in fantasia <em>cachemire</em> che era stata di mio nonno, m’infilai gli occhiali e nel momento in cui<strong> Frankie Lee Sims</strong> aveva cominciato a cantare <strong><em>Raggedy And Dirty</em></strong>, spensi lo stereo dall’interruttore della luce. <strong>Una diavoleria escogitata da Sal</strong>,
quando ancora frequentava il regno dei vivi. Scesi le scale
dell’appartamento e, una volta in strada insieme a quella nuova
indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore,
m’incamminai. <strong>Il rumore delle macchine fece presto a prendere il sopravvento sui miei pensieri</strong>.
Osservai i passanti infagottati in quegli enormi piumini da neve che
procedevano silenziosi con il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e
mi parevano come spettri. Pensai che la mia casa era davvero così piena
di musica, da potermi considerare quasi come un suo ospite. Il vento
fischiava rude, ma la città pareva la solita. <strong>Mi diressi verso l’entrata della metropolitana</strong>.
Ci nutriamo di convinzioni banali e misere ma nello stesso tempo
essenziali per tirare avanti… e ci scordiamo di quei brividi che ci
hanno reso la vita un po’ meno amara. Scesi i gradini della metro e <strong>afferrai per un soffio il treno della linea A</strong>. Ognuno di noi ha le sue rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. <strong>Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce?</strong>
Qual era stata la ferita che non si era più rimarginata e lo aveva
fatto cadere insieme ai suoi demoni, nelle profondità più nere di noi
stessi. <strong>Un eroe ribelle e drogato</strong> che ha attraversato
la storia del rock, lasciando un segno profondo. Lui più di tanti
funamboli rompicoglioni della sei corde, è da considerarsi <strong>un vero uomo di blues</strong>. Ma com’è successo per tanti altri rinnegati del rock, dal cuore puro e furibondo, è stato dimenticato in fretta. <strong>Sparito per sempre sotto un cumulo di polvere e macerie</strong>. Se chiudo gli occhi e come se lo vedessi ancora con quell’aria goffa e smarrita, fermarsi e intonare un paludoso blues di <strong>Charley Patton</strong>. L’esordio folgorante di <strong>“Fire Of Love”</strong> (<strong>1981</strong>) con la sigla <strong>The Gun Club</strong>, è un disco di <strong>canzoni</strong>
che hanno dentro quella fiamma che brucia, e che non si placa. Che ti
arrivano come un pugno in pieno viso, perché hanno il piglio della<strong> ribellione</strong> e dell’<strong>anticonformismo</strong>. Perfette
per uomini che si sentono soffocati da un mondo che ti afferra e ti
rovescia, sul lato opposto dei tuoi sogni. Zeppe di quel vento ululante
che ti fa ghiacciare il cuore nella notte, e di <strong>quel blues ancestrale che ha popolato le strade del Mississippi</strong>. Un disco che resta una pietra miliare, e che ebbe la forza di aprire le porte a tanti <strong>punk</strong> verso la<em><strong> “musica del diavolo”</strong></em>.
Allora il resto del mondo però non contava niente. Il rock mi tranciava
la pelle, l’anima, in quella disperazione mattutina dopo una notte
balorda e disperata. Fu però con <strong>“Miami”</strong> del <strong>1982</strong> che <strong>Lee Pierce</strong> conquistò una visibilità più ampia. <strong>Un disco notturno e denso di emozioni</strong>,
spudorato per quella spontaneità ad esporsi nei suoi sentimenti, senza
alcuna barriera di protezione. Che ad ascoltarlo oggi a distanza di tre
decadi, ti mette paura, tanta è l’intensità di quella <strong>sventagliata di rock viscerale</strong>, che sorregge il suo<strong> canto tormentato e lirico</strong>. C’è lo spirito di <strong>Hank Williams</strong> che aleggia nelle canzoni, mentre <strong>Jeffrey </strong>si avvicina allo spirito <strong>anarchico</strong> e <strong>medianico</strong> di <strong>Jim Morrison</strong>. <strong>Chris Stein</strong> è il produttore di questo lavoro un ex membro dei <strong>Blondie,</strong> gruppo da <strong>Jeffrey</strong> molto amato per via della cantante <strong>Deborah Harry</strong>, anche lei qui presente. <strong>Chris</strong> con la sua produzione tende soprattutto a far risaltare la sua voce, e quel <strong>canto sferragliante e infettato di <em>voodoo</em></strong>, fumo e sporco fino al midollo del rock’n’roll selvaggio dei migliori <strong>Creedence Clerwatwer Revival</strong>. In<strong> “Miami”</strong> ci sono canzoni di <strong>un uomo che nonostante tutto riesce a sopportare ancora il dolore</strong>.
Anche se la droga e l’alcool stanno diventando fin troppo importanti
nella sua vita ma, in fondo è la storia che lo insegna, è sempre dai
sobborghi che sono arrivate le <em><strong>star</strong></em> del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento.<br />
<strong><em>“</em><em>Don’t let her take her love to town They will
never fill her hear. She needs a passion like her fathers used to be I
know because I’m like the train shooting down the main line. I know
because. I’m the Indian wind along the telegraph lines. She’s like
heroin to me. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She
can’t miss a vein”</em> </strong>(<strong><em>She’s Like Heroin To Me</em></strong>).<br />
Durante una pausa per le registrazioni del disco <strong>Jeffrey</strong> si accese uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani e un jeans sdrucito. D<strong>alla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato sa fare</strong>. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. <em><strong>“Pioggia e freddo intenso”</strong></em> avevano recitato quelli del <strong>bollettino meteorologico</strong>. Quasi una metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, ché <strong>le parole alle volte non servono a nulla</strong>.
Nelle sue visioni la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo pregava di
proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. <strong>La vide camminare verso di lui</strong>.
Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso
afferrò la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di
accordi. Su quegli stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova
canzone. Tutti i presenti si commossero ad ascoltarlo mentre
bisbigliava i versi di <em><strong>Mother Of Earth</strong></em> ancora avvolti dentro una melodia traballante.<br />
<strong><em>“</em></strong><strong><em>Sono andato giù nel fiume della
tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho
sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho
provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono
chiusi su questa grande terra</em></strong><strong style="line-height: 22.4px;">“</strong><strong style="line-height: 1.4em;"><em> </em></strong><span style="line-height: 1.4em;">(</span><strong><em style="line-height: 1.4em;">Mother Of Earth</em></strong><span style="line-height: 1.4em;">)</span>. </span><br />
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><span style="line-height: 1.4em;"><strong>Era il blues che risuonava dentro di lui</strong>, e sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni: anche quando una<em> lap steel</em> s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà sempre<strong> il blues demoniaco e disperato della sua anima</strong> che
tirerà pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note,
combinazioni, si possono ottenere da una chitarra? E quante melodie
vengono fuori dagli stessi accordi? Ma<strong> i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali</strong>. Perché parlano degli esseri umani, e dei loro bisogni. Perché <strong>anche i solitari vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo</strong>. Un viaggio quello di <strong>Jeffrey</strong> colmo di una malinconia indelebile ma, i sentimenti che proviamo sono più potenti delle parole. “</span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>Torna da me amore</em></strong><em style="line-height: 1.4em;">”. “<strong>Sono qui, sono stanco di queste lacrime”</strong></em>.<span style="line-height: 1.4em;">
Quando sussurra con l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro
il microfono, capisci quanto era fragile e vulnerabile. Le sue
canzoni risuonano ancora oggi impetuose per quei selvaggi che hanno il
diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. <strong>Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento</strong>. Poi <strong>un bel giorno decidono di morire</strong>, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. <strong>Anche per mia madre è andata così</strong>. Avrei voluto incontrare <strong>Jeffrey</strong> per potergli dire che<strong> nella vita tutti noi bariamo</strong>, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. <strong>Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca</strong>,
logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. La destinazione è
per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni
avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza.
Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e
se si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti
nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di
vista. <strong>A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo</strong>.
Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata
qualunque del metrò scesi e, camminando senza meta per la città, <strong>mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte e non si fidava più di nessuno</strong>.
Andando in giro mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo
d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. <strong>Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità</strong>. Nelle maggior parte dei <strong>negozi</strong>, stavano appesi i cartelli con la scritta <strong><em>“Affittasi/Vendesi”</em></strong>. <strong>Una donna di mezza età mi chiese dei soldi</strong>. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. <strong>La vita però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre</strong>. Qualcuno
dice che se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è
che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi
distruggere. <strong>Davanti al municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi</strong>, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle persone. <strong>Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato, erano spenti e bui</strong>.
Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento.
Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo. <strong>Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto girò la testa</strong>, e adocchiandomi mi disse: <em><strong>“</strong></em></span><em><strong>non è che abbia una grande pensione figliolo</strong></em><span style="line-height: 1.4em;"><em><strong>”</strong></em>. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. <strong>È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti</strong>. Dei
gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa
l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo
affranto per tutto quello che stava accadendo. Alle volte capita che ci
ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia
chitarra ma, siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho
lasciata in pace.<strong> Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti</strong>.
Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come
ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia
funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà, se ci fossi
salito, a quale stazione sarei sceso? Perché <strong>alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti</strong>.
È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i
rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E’ vero
comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si
trovano sul proprio pianerottolo. <strong>E’ l’anno 2018 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri</strong>,
che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia,
ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli </span><strong style="line-height: 1.4em;">X</strong>,<span style="line-height: 1.4em;"> la banda di </span><strong style="line-height: 1.4em;">John Doe </strong>e<strong style="line-height: 1.4em;"> Exene Cervenka</strong><span style="line-height: 1.4em;">. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del </span><strong style="line-height: 1.4em;">1980 </strong><strong><span style="line-height: 1.4em;">“</span>Los Angeles</strong><span style="line-height: 1.4em;"><strong>”</strong>, l’album prodotto da </span><strong style="line-height: 1.4em;">Ray Manzarek,</strong><span style="line-height: 1.4em;"> l’ex tastierista dei </span><strong style="line-height: 1.4em;">Doors</strong><span style="line-height: 1.4em;">. E’ in questi solchi che riaccade <strong>il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia</strong>, che fu prerogativa di </span><strong style="line-height: 1.4em;">Dylan</strong>,<strong style="line-height: 1.4em;"> Jim Morrison</strong>,<strong style="line-height: 1.4em;"> Patti Smith</strong>,<strong style="line-height: 1.4em;"> Lou Reed</strong>,<strong style="line-height: 1.4em;"> Jimi Hendrix</strong><span style="line-height: 1.4em;">. <strong>“Los Angeles</strong><strong>”</strong></span><span style="line-height: 1.4em;"> è un <strong>viaggio nell’incubo urbano</strong>, nell’<strong>emarginazione sociale</strong>, nella <strong>crisi dei valori umani</strong>… ma è anche la grande <strong>voglia di non arrendersi</strong>, avendo chiara la consapevolezza che<strong> il momento più duro, è sempre quello del risveglio</strong>. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di <strong>Manzarek</strong>
si presta a colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la
chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui, oltre alla <strong>forza dirompente del punk</strong>, ci sono quei duetti bellissimi tra </span><strong style="line-height: 1.4em;">John </strong><span style="line-height: 1.4em;">ed</span><strong style="line-height: 1.4em;"> Exene</strong><span style="line-height: 1.4em;"> che cantano <strong>nove canzoni malvagie e feroci</strong>, fino a raschiarsi le corde vocali, <strong>fino a cadere sanguinanti in fondo alla notte</strong>. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto<strong> le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere</strong>. <strong>Procediamo curiosi nella terra di nessuno</strong>
cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a
sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno
ci spiega. <strong>Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza</strong>. In quella sfrontatezza c’era molta sincerità. <strong>Quello che non capiva</strong>,<strong> il punk lo intuiva</strong>. Poi, come in una sorta di <strong>autoindulgenza</strong>
non sapendo barare, se n’è tornato in quelle strade buie e solitarie,
dove è difficile giungere. Quando la musica è finita ho rimesso a posto
il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la
cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una doccia e mi sono
rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio… ma mi era venuta voglia.
<strong>Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a nessuno</strong>.</span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong></strong></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><span style="line-height: 1.4em;"></span></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-89540632347154107412018-10-02T07:01:00.004-07:002018-10-02T07:01:48.750-07:00Cacciatori Di Stelle<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguzwiFUiEVJ3WEVoxUlMJZjOtOcwMat7hP9wHoxLPAMTtxv4DNorsGnG_RRODF7ej7k-ku0vAoN5or6xyTxmBezjpgusVPbrE1h3OFAN8JjFgrmy67D5qUyZY3MMkcGWpn_4RL0pufO9Y/s1600/cacciatore-di-stelle.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="543" data-original-width="768" height="452" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguzwiFUiEVJ3WEVoxUlMJZjOtOcwMat7hP9wHoxLPAMTtxv4DNorsGnG_RRODF7ej7k-ku0vAoN5or6xyTxmBezjpgusVPbrE1h3OFAN8JjFgrmy67D5qUyZY3MMkcGWpn_4RL0pufO9Y/s640/cacciatore-di-stelle.jpg" width="640" /></a><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>È difficile vivere dall’altro lato della strada</strong>.
Il mondo si dissolve in fretta a guardarlo da quella parte. Che tu te
ne stia appollaiato dentro un bar, o sotto un sole caldissimo, o una
pioggia incensante, ti senti <strong>sperduto in quell’overdose di solitudine in cui ti sei cacciato</strong>.
Con quel vestito da senzatetto e quell’aria malinconica che ti pervade
la faccia, ti senti un perfetto idiota, mentre cerchi di limitare i
danni. Chi è sensibile alle sfumature lo sa bene, che la musica
trionferà sempre su tutto. Buttò giù del whiskey nel vuoto delle sue
budella, mentre <strong>Ray Davies</strong> cantava <em><strong>No One Listen</strong></em>. Seduto nella piccola cucina di casa cercava un modo per venire fuori da quel grigiore che </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">negli ultimi tempi </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">aveva avvolto la sua vita. <strong>Era un tipo come c’è ne sono tanti altri nel mondo</strong>.<strong> Un uomo pieno di grinze e ragnatele </strong>che viveva con assillo e furia la sua esistenza. <em><strong>“Quando invecchi</strong></em> gli aveva detto suo padre <em><strong>ti restano i ricordi”</strong></em>…
ma non te ne fai niente dei ricordi pensò. Solo seghe. L’unica cosa che
conta è non perdere il tuo tempo. Perché alla fine si muore. Come tutti
d’altronde. Non c’è altro. Rimise nuovamente la stessa canzone,
tornando indietro con il telecomando del CD. Dalla finestra filtrava una
pallida luce. Si chiese da che parte doveva andare, perché <strong>Ray Davies</strong> in quel momento cantava<b><em> Imaginary Man</em></b>: <strong><em>“</em><i>I
saw my reflection in the glass Watched as the world went flashing past.
I knew the face but could not tell. Why I couldn’t recognise myself”</i></strong>. Lo aveva imparato da solo che <strong>ci vuole sempre una botta di culo</strong> <strong>per non finire annientati</strong> sotto i colpi di questo mondo marcio, barcollante, ostile… ma chi erano mai – e poi mai – questi <strong>gerarchi</strong> detentori del <strong>pensiero unico</strong>, per decidere le sorti di<strong> popoli</strong> interi?. E’ la storia che rappresentano che li inchioda. Nutrono immenso <strong>disprezzo</strong> per tutti i <strong>lavoratori</strong>, che si trovano nel livello più basso del mondo. Hanno un <strong>odio profondo</strong> per gli<strong> anarchici</strong>, gli<strong> ultimi</strong>, e i <strong>guastafeste</strong>, che non vogliono collaborare per i loro fini. <b>Woody Guthrie</b> lo spiegò che la vita è una lotta, dalla culla alla tomba. <strong>Come non era mai accaduto prima questi gerarchi sono davvero lontani dalla vita</strong>, e dai suoi bisogni elementari. <strong>Cinici</strong>, <strong>spietati</strong>,<strong> violenti</strong>. Con il dito premuto sul grilletto, non si fanno alcuno scrupolo a pisciarci in testa. Il loro intento è solo quello di <strong>sopprimere i sogni di migliaia di uomini e donne</strong>.
Gente che non sa ascoltare la capriola di una canzone, che risuona
dall’altra parte della strada. Il suo volto divenne duro e freddo. <b>Woody</b>,
cercò di spiegargli che cosa stava accadendo con parole semplici e
dirette Era questa la sua grande virtù. Si riempì nuovamente il
bicchiere. La vita all’improvviso può diventare un incubo, una vendetta
infinita. <em><strong>“</strong><b>Questo è il modo in cui finisce questo mondo del cazzo non con un BOOM, ma con un gemito”</b></em>. Lo sentii dire a <b>Dennis Hopper</b> in <strong>“</strong><b>Apocalypse Now”</b>. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Siamo come <strong>cacciatori di stelle</strong> mentre cerchiamo in tutti i modi di scovare nuove canzoni, per cibare lo spirito e la carne. <strong>Abbiamo dentro un demone che ci possiede</strong>. Lo stesso che aveva <strong>Harry Smith</strong> un <strong>antropologo</strong>, bizzarro e barbuto. Un <strong>collezionista di 78 giri</strong> bramoso di scovare pezzi rari della <strong>musica americana</strong>… ò con la sua <strong>collezione di dischi</strong>, che la <strong>Folkways</strong>, un’etichetta dedita alla <strong>folk music</strong>, pubblica <strong>“Anthology Of American Music”.</strong> Una specie di <strong>bibbia</strong> per tutti quegli uomini che se ne vanno in giro fumando in silenzio, e dormendo per strada. Un <strong>cofanetto</strong> diviso in<strong> tre volumi</strong> che parla delle <strong>gesta di persone sperdute</strong>, semplici, avvolte dentro una nuvola di polvere. Sempre ubriache di pessimo whiskey. <strong>Musica inquietante</strong>, piena zeppa di <strong>fruscii</strong>, di <strong>fantasmi</strong> che si affacciano a ogni nota scorticata da un banjo, o da una chitarra scordata. <strong>Sangue, sofferenza, e follia. Musica populista vestita di stracci</strong>, che però ha l’affanno dell’<strong>uomo comune</strong>, del <strong>disoccupato</strong>, del <strong>migrante</strong>, di chi non sa più dove andare. Raccoglie dentro di sé <strong>immagini</strong> e <strong>speranze</strong>, <strong>rimpianti</strong>… ma anche entusiasmo. <strong>I
politici alla pari di quei finti progressisti che blaterano dagli
schermi televisivi, fanno solo finta di conoscere questo lato della vita</strong>. Sono dei<strong> buffoni, avidi e smaniosi</strong>.
Quanto di più lontano esista da questa musica. Il loro abbraccio è
mortale per qualunque cosa che trotterella nella polvere, e si
raggomitola per terra. <strong><em>“Forgive me, I’m still a sad creature of little faith. We are such creatures of little faith”</em></strong>. (<strong>Ray Davies</strong>). </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Finì di bere e si versò dell’altro whiskey. Poi <strong>si mise a guardare le copertine dei suoi vecchi vinili</strong>. Ogni disco raccontava una parte della sua vita. <strong>Era stato sposato con Emma</strong>, ma la cosa non aveva funzionato. Dopo un primo periodo in cui sembrava che le cose tra loro filassero al meglio, <strong>erano arrivati all’improvviso i primi litigi</strong>. Man mano che le cose deterioravano, si arrivò a vere <strong>esplosioni di violenza fisica</strong> da parte di entrambi. Questa cosa lui la odiava profondamente. Alla fine non si parlarono più… e manco si guardavano.<strong> Lei andò via una mattina di ottobre, serena e pacifica</strong>. Fuori ad aspettarla c’era il suo <strong>collega d’ufficio</strong>, con cui aveva intrecciato una <strong>nuova relazione</strong>. Quella sera lui <strong>si cucinò del pesce bollito</strong>, con delle patate al prezzemolo per contorno. Poi accese lo stereo e mise un vecchio vinile dei <strong>Mott The Hoople</strong>: <em><strong>“Now
it’s a mighty long way down the dusty trail. And the sun burns hot on
the cold steel rails. ‘N I look like a bum’n I crawl like a snail. All
the way from Memphis”</strong></em>. All’una e trenta della notte si scolò una bottiglia di vino rosso, e ascoltò innumerevoli volte <strong><em>Walk On The Wild Side</em></strong>.
Bisogna rientrare nella propria vita in qualche modo. Perché se era
rimasto qualcosa era meglio andarlo a prendere il più presto possibile,
prima che finisse per essere divorato dalla sua stessa inquietudine. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>L’influenza del blues del Delta sul rock’n’roll, è davvero indelebile e profonda</strong>. I musicisti rock hanno preso qualsiasi cosa da quelle canzoni, e da quel modo di suonare. <strong>Charley Patton</strong> aveva uno smisurato amore per la musica. Anche se <strong>suo padre lo puniva ferocemente</strong>, lui se ne andava in giro continuando ostinatamente a suonare il suo blues, agghiacciante e viscerale. <strong>Sembra semplice ma il blues è musica complessa</strong>. Puoi anche imparare lo stile <em>slide</em> in maniera impeccabile… ma per fare sentire vero quel suono pieno di <strong>sfumature, di coraggio e incertezza</strong>, devi possedere anche tu quell’<strong>ambiguità</strong>
di cui questa musica è piena zeppa. Accidenti a questo sole del cazzo
che acceca la vista e rende ubriachi senza aver bevuto un solo goccio. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>E’ davvero difficile essere liberi in questo mondo</strong>. Si può morire spiritualmente molte volte, ma la carne rimane viva bramosa di libidine, come il rock’n’roll. <strong>Continuavano a piacergli le puttane</strong>,
le altre donne le trovava noiose e incongruenti. Solo una piccola
illusione momentanea. Rimase seduto al bar a bere e fumare.
Tamburellando con le dita sul tavolo cercò una nuova melodia, per quella
canzone che stava scrivendo. Una canzone per bastardi senza cuore che
attraversano la strada per rifugiarsi tra le ombre. <strong>Come lui… cacciatori di stelle</strong>.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><b> Bartolo Federico</b></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-69680513836696874252018-09-18T06:59:00.002-07:002018-09-18T06:59:50.990-07:00I cuori sono come i fiori<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP-9YsJTVKAGwV7mtOhVbS5Sa9IJNdKtSrEl2HXwa2_bLQ5YPZKXGVfBtmpkdf8N6XBn3u9puccRvyJfhDoh781wIOjVfPqdPhXFaJPotF7GfH7IChIL6pPqgMsNeMBkaUZgpcakrKXmE/s1600/cuori-e-fiori-bartolo.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="543" data-original-width="768" height="452" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgP-9YsJTVKAGwV7mtOhVbS5Sa9IJNdKtSrEl2HXwa2_bLQ5YPZKXGVfBtmpkdf8N6XBn3u9puccRvyJfhDoh781wIOjVfPqdPhXFaJPotF7GfH7IChIL6pPqgMsNeMBkaUZgpcakrKXmE/s640/cuori-e-fiori-bartolo.jpg" width="640" /></a><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong> Dormire negli ultimi tempi è diventato un vero tormento</strong>, al punto che il sonno mi sembra una discesa negli inferi. <strong>Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi</strong>. Al risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili, claudicanti e senza sole, di <strong>Nikki Sudden</strong> e <strong>Dave Kusworth</strong>, o del <strong>Johnny Thunders</strong> fragile e drogato, di <strong>“Hurt Me”</strong>. Il <strong>medico</strong> mi ha guardato con una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. <strong><em>“</em><em>Non
se ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa.
Il suo comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto
stretta osservazione”</em></strong>. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli <strong>antidepressivi</strong>
da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il sole che
stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in cucina
pensavo a queste cose, quando il telefono prese a squillare facendomi
trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad <strong>una signorina dai toni suadenti</strong>, che mi ha illustrato l’ennesima <strong>vantaggiosa offerta per luce e gas</strong>.
Malgrado la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle
attenzione. Siamo stati lì a conversare come due vecchi amici che non si
sentivano da un pezzo. Dopo un po’ mi sono alzato barcollando e, con la
cornetta attaccata all’orecchio, ho azionato lo stereo. <strong><em>Autumn Stone</em></strong> degli <strong>Small Faces</strong>, l’ho ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. <em><strong>“Ero
nel nulla, finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia
attraverso l’essere buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un
luogo difficile da trovare, quel che tu sei sempre stata, è la verità.
Cerco una porta aperta, dove mi posso mettere seduto e giocare in pace
con te. Il domani cambia l’odierno verde dei prati, ieri è deceduto, ma
non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei arrivata tu. La più
dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato un suono che
vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me”</strong></em>. Verso mezzogiorno mi sono deciso a uscire. <strong>Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con gli occhiali neri e un bastone bianco</strong>, e subito dopo anche <strong>Gianni</strong>, uno che assomiglia in maniera impressionante a <strong>Lemmy </strong>dei<strong> Motörhead</strong>. Un tempo anche lui era un musicista ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e <strong>adesso vive come un vagabondo tra i binari della ferrovia</strong>.
Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno sapeva, ma
che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava
pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non
mi sentivo ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia
restava alto. <strong>L’arteria principale della città come sempre era intasata di macchine</strong>, e l’aria era talmente maleodorante di gas di scarico che mi è venuto il mal di testa. <strong>Nessuno di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario</strong>. Nessuno di noi possiede l’<strong>alba</strong>, il <strong>cielo</strong>, la <strong>pioggia</strong>.
Mentre cammino per le strade senza meta, una piccola ombra mi protegge
dal sole, e penso che, nonostante tutti i miei casini, sono ancora in
piedi. <strong>In questo periodo rispolvero sempre più spesso i miei vecchi dischi</strong>,
dal computer non scarico più files musicali, perché ad un certo punto
mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla la
musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. <strong>James Moore</strong> in arte <strong>Slim Harpo</strong>, è stato l’esponente di punta dello <strong>swamp blues</strong>. A soli quindici anni resta <strong>orfano</strong>, ed è costretto ad abbandonare la<strong> scuola</strong> per mantenere il resto della famiglia. Si impiega come <strong>scaricatore di porto</strong>, e dopo come <strong>manovale</strong>… ma appena finito il lavoro <strong>suona per strada le canzoni che scrive</strong>, accompagnandosi con l’<strong>armonica</strong> e la <strong>chitarra</strong> che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce <strong>Lightinin’ Slim </strong>che lo porta dal noto produttore <strong>Jay D. Miller</strong>. Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo e lo lascia in disparte… fin quando <strong>Slim Harpo</strong> non gli fa ascoltare quel suo nuovo brano dalla ritmica martellante e devastante… <em><strong>I’m A King Bee</strong></em>. La canzone diventa un grande successo che viene bissato da <em><strong>Rainin’ In My Heart</strong></em>, un <strong>blues lento e ipnotico</strong>, che ti fa sentire il fruscio delle paludi della <strong>Louisiana</strong>. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i suoi due volti musicali. <strong>Il primo lato del disco è terminato</strong>.
Mi alzo dal divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla
seconda canzone, per evitare il graffio che ferisce profondamente la
prima traccia. <strong>Muddy Waters</strong>, <strong>Kinks</strong>, <strong>Yardbirds</strong>, e <strong>Rolling Stones</strong>, anche quelli fantasmagorici di <strong>“Exile On Main Street”</strong>, attinsero dal repertorio di canzoni straordinarie di <strong>Slim Harpo</strong>.
Alle volte c’è come una fossa dentro di noi che ci fa vacillare. Così
guardo la mia ombra riflessa sul muro della stanza e non so perché, mi
viene di sorriderle. <strong>Fuori nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il palmo della mia mano</strong>.
Lo so che il dolore man mano sbiadisce e poi, all’improvviso, finisce.
Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola tra le
dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il
pensiero che mi attraversa viene scosso da <strong>quel rantolo rauco che arriva dallo stereo acceso</strong>. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di <strong>J&B</strong>, la prendo e mi verso quel che rimane in un bicchiere. <strong>Da quando sono rimasto solo sono diventato un casalingo esperto</strong>, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco le <strong>coperte</strong> sopra le <strong>lenzuola</strong>, lavo i <strong>pavimenti</strong> con l’<strong>aceto</strong>, stendo il <strong>bucato</strong>, pulisco i <strong>vetri</strong> asciugandoli con la <strong>carta di giornale</strong>, e ascolto la <strong>radio</strong> mentre sbatto i <strong>tappeti</strong>. Sul tavolo del salone c’è una mia <strong>vecchia foto</strong>, di quando avevo diciotto anni. <strong>Ho i capelli lunghi, porto i Ray-Ban</strong> <strong>e come sempre ho un aria smarrita</strong>. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi così di primo acchito. <strong>E’ un blues sporco e aggressivo</strong>, aspro e irruento, un blues che partendo dal <strong>Mississippi</strong> si è formato per la strada, nei bordelli di <strong>Chicago</strong>, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile. E’ un blues oscuro e genuino quello che suona <strong>Hound Dog Taylor </strong>con i suoi degni compari, gli <strong>Houserockers</strong>, diretto discendente del suo maestro <strong>Elmore James</strong>. Con il suo stile <strong>bottleneck</strong> esuberante e distorto, <strong>Hound Dog Taylor </strong>manda in visibilio il pubblico nei suoi <strong>concerti non stop</strong>, che gli fanno conquistare fama e credibilità nella difficile <em><strong>“Città del vento”</strong></em>. E’ un selvaggio seduto in quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. <strong>Il volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un <em>drive</em> che è una meraviglia del demonio</strong>. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un <strong>amante delle donne</strong>, tanto che un suo amico gli affibbiò quel <strong>soprannome da cane segugio</strong>.
Lui sì che prendeva la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva
spiaccicandola sul manico della sua chitarra, con la mano sinistra e con
quel collo di bottiglia che ci strofinava sopra per evocare gli <strong>spiriti del Delta</strong> e di quel degenerato di <strong>Robert Johnson</strong>. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso è calato il silenzio. <strong>E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori</strong>, perché è in questo ambiente che ci si illude di <strong>muoversi per non arrivare mai</strong>. La mattina, dopo aver rassettato la casa, me ne sono andato all’<strong>ufficio postale</strong> per pagare le <strong>bollette</strong>. Durante il tragitto mi ha fermato una <strong>chiromante</strong>, che ha voluto per forza leggermi la mano. Con un certo imbarazzo gli ho teso il palmo. <em><strong>“Mi sembri ubriaco”</strong></em> dice guardandomi dritto negli occhi. <em><strong>“No, non lo sono”</strong></em>, gli urlo quasi. <em><strong>“Il tuo amore ritornerà”</strong></em>.
Adesso sì che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a
ballare. Infilo una mano in tasca, e le lascio tutti gli spicci che
possiedo. <strong>Quando arrivo alla posta la gente è in fila fino a fuori dalla porta</strong>…
ma dal momento che le bollette sono già scadute, mi armo di santa
pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco della mia incapacità di
adattarmi.<strong> Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare</strong>. La <strong>gente</strong> che mi sta intorno è scoglionata e anche nevrastenica. <strong><em>“Dal governo</em></strong> si lamentano alcuni uomini, <em><strong>ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio per tanti”</strong></em>. Un <strong>vecchietto</strong>, quando arriva il suo turno, chiede all’<strong>impiegato</strong> se gli può <strong>scrivere un indirizzo sulla busta</strong>, ma il tizio lo respinge in malo modo… ed è così che mi stacco dalla fila e <strong>prendo a sbattere le mani sullo specchio che ci divide e lo protegge</strong>.
Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda cuccia, che ho delle
cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo, di persone come
lui. <strong>Il tizio mi guarda terrorizzato, </strong>restando fermo e silente sulla sua comoda poltroncina. <em><strong>“Lo so che non ci puoi sopportare</strong></em> gli continuo a gridare, <strong><em>ma neanche noi sopportiamo individui come te</em></strong>“. Poi mi rimetto in fila, mentre un silenzio raggelante scende giù. <strong>Illegale</strong> non vuol dire che non sia giusto.<strong> Weldon “Juke Boy” Bonner</strong>, amava la strada. Con la sua <strong>chitarra</strong> dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con l’<strong>armonica</strong> per sottolineare il suo tormento, <strong>il suo blues mise in scena la lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti</strong>, ma anche della sua stessa sopravvivenza. <strong><em>“Ricordo
che vivevo sulla costa occidentale francese. Avevo solo diciassette
anni quando una ragazza mi toccò per la prima volta il cuore. Nonostante
io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai belli come lo sei tu.
Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il mondo è in bianco e
nero”</em></strong> (<em>Where The Rivers End</em> – Jacobites). <strong>Hai sempre paura di ciò che non conosci</strong>… <strong>e il buio fa paura a molti</strong>.<strong> Come la poesia</strong>. Noi uomini <strong>marciamo su questa terra come fossimo al supermercato</strong> e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa dell’<strong>eternità</strong>, rincorrendo la <strong>giovinezza</strong>… ma in fin dei conti, <strong>cos’è ‘sta giovinezza?</strong> Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe <strong>sconvolgente</strong>, <strong>nuovo</strong>, <strong>rivoluzionario</strong>. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo ma, invece, <strong>guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci</strong>. Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che<strong> nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte</strong>,
dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì,
tutti i trucchi per ammaliarci. Mi sedetti sul divano e alzai gli occhi
verso lo specchio. <strong>Una volta scendevo al fiume con Maria</strong>, <strong>ed è lì che ci siamo amati</strong>. Ma adesso quel fiume si è inaridito, perché<strong> i cuori sono come i fiori</strong>.</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-37844398108887997402018-07-30T20:39:00.000-07:002018-07-30T20:39:34.529-07:00Highway 61 Revisited<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzWXj05frfVbC7Z6ePkOMe8FTa7yCGzVaIcrylCZUbgd2GVtIBnzrZay7oln1R1gfdQq6dHZYEjU5HrmZbZ_vWE1WE86F9wSmyvozE-hIsMdK1ZqMpRhFdmnrVrJQGoKAjabtnuTWuPVs/s1600/miagolando-blues-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjzWXj05frfVbC7Z6ePkOMe8FTa7yCGzVaIcrylCZUbgd2GVtIBnzrZay7oln1R1gfdQq6dHZYEjU5HrmZbZ_vWE1WE86F9wSmyvozE-hIsMdK1ZqMpRhFdmnrVrJQGoKAjabtnuTWuPVs/s640/miagolando-blues-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Passai una notte insonne nella stanza di quel motel</strong>.
Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La
mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di
nuvole basse e grigie coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per
non annoiami infilai nello stereo della macchina <strong>“</strong><b>Blues From Laurel Canyon</b><strong>”</strong>, il primo album americano di <b>John Mayall</b>. Un disco<b> </b>influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel <strong>1969</strong>, anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di <b>Mick Taylor</b>, il basso di<b> Stephen Thompson, </b>e le percussioni di<b> Colin Allen</b>… ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei <b>Canned Heat</b>, perfetto
per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la
fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da <strong>chopper</strong> con a bordo <b>Dennis</b>,<b> Jack</b>, <b>Peter </b>e tutto poteva ancora accadere<i>. </i>Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. <strong>Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre</strong>. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. <strong>Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto</strong>,
come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro
per lasciare qualche traccia di me. Nella tarda mattinata finalmente le
nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della
partenza, alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor <strong>Alfredo</strong>
comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli quello
che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e
generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno.
Quel gesto mi colpì molto. I “<b><i>travellin’ men”</i></b>, così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da <strong>operai ferroviari</strong>, <strong>braccianti agricoli</strong>, <strong>giocatori</strong>, <strong>prostitute</strong>, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un’unica direzione…<b> Chicago</b>. Dal <strong>1920</strong> al <strong>1950</strong> cinque milioni di neri migrarono dagli <strong>Stati del Sud</strong>, <em><strong>verso la “città del vento”</strong></em>. Io
non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il
mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre,
guardando a destra e a sinistra, su e giù. <strong>Un vagabondo per orgoglio</strong>. Dopo che <strong>Peter Green</strong> lasciò i <strong>Bluesbreakers </strong>di<strong> John Mayall</strong> portandosi appresso anche il bassista <strong>John Mc Vie</strong>, reclutato il chitarrista <em>slide</em> <strong>Jeremy Spencer </strong>e il batterista <strong>Mick Fleetwood</strong>, nel <strong>1967</strong> diede origine ai <strong>Fleetwood Mac</strong>.<strong> “Peter Green’s Fleetwood Mac”</strong>, fu registrato nel <strong>1968</strong> in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico…<strong> </strong>pronto ad esplodere. In questo disco si omaggia <strong>Elmore James</strong>, <strong>Howling Wolf</strong>, e <strong>Robert Johnson</strong>. Ma quando<strong> Peter Green</strong> è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino. <strong>La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare</strong>.
Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo,
tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per
rimettermi a sognare. È un netto cambiamento quello che avvenne nei <strong>Fleetwood Mac</strong> con la pubblicazione nel <strong>1970</strong> di<strong> “Then Play On”</strong>. <strong>Peter Green</strong> inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica, come nella migliore <strong>tradizione psichedelica</strong>,
si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada.
Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla.
Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene
spezzato… <strong>il blues torna a viaggiare libero</strong> e diventa
un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se
non in un fremito, o in un dubbio. C’erano un sacco di strade che
portavano a <strong>Chicago</strong>, tutte dai numeri dispari. La <strong>45</strong>, la <strong>51</strong>, la <strong>23</strong>, la <strong>13</strong>, la <strong>49</strong>. La <strong>61 </strong>è la più famosa per via di quel disco di <strong>Bob Dylan</strong>, ed è anche il luogo dove <strong>Robert Johnson</strong> strinse il <strong>patto con il diavolo</strong>.
Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate
come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana
del mondo. <strong>Big Joe Williams</strong> dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare <strong>“Blues On Highway 49” </strong>è come avere di fronte una <strong>cartina stradale del delta</strong>, dove però si scorgono nitidi i <strong>vagabondi</strong> che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile <strong><em>bottleneck</em></strong>, per miagolare il loro blues nella notte. <strong>In Italia accadono sempre cose strane</strong>. Un paese dai mille <strong>segreti di Stato</strong>, dove si può <strong>ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte</strong>… e tutti sono <strong>assolti</strong>. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre e solo alla povera gente. La corporazione degli <strong>industriali</strong> appoggiati dalle <strong>multinazionali</strong>, hanno assoldato quel <strong>presentatore</strong> della <strong>Ruota Della Fortuna</strong>, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. <strong>Operai</strong>, <strong>studenti</strong>, <strong>pensionati</strong>, <strong>precari</strong>, <strong>esodati</strong>, <strong>gay</strong>… una filiera di <strong>deboli</strong>, di <strong>condannati</strong>, che rompono le palle scioperando e protestando. <strong>Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidient</strong>i… ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Quegli <strong>artisti</strong> o presunti tali, quei <strong>progressisti</strong>, che si ribellavano veementemente allo strapotere del <strong><em>“bullo di Arcore”</em></strong> e si stracciavano le vesti nei vari <strong><em>talk</em> televisivi</strong>. Quei <strong>cantautori</strong>, <strong>comici</strong>, <strong>registi</strong>, <strong>attori</strong>… tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. <strong>Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno</strong>,
grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti? Il loro
silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah
dimenticavo l’ipocrisia. La cantavano gli <strong>hobo</strong> sui treni merci questa canzone. <strong>“</strong><em><strong>Non
m’importa se piove o gela, starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se
dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di
puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si, ci puoi scommettere che
lo sono”</strong>. </em>Con quel sole che scaldava l’abitacolo della
macchina, mi sentii ozioso ma a mio agio e mi fermai in uno spiazzale.
Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa
fretta. In questo momento dei <strong>poveri disgraziati</strong> stavano sicuramente su qualche <strong>carretta del mare</strong>
per cercare di arrivare in una terra che non li voleva. Potevo essere
in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti,
un <strong>prigioniero</strong>. Quella <strong>guerra sociale</strong>
stava sterminando milioni di famiglie… e nessuno faceva niente. Chissà
perché? Mi sentivo arrabbiato… ma anche sconsolato. Così decisi di
andarmene al diavolo… ma a modo mio. Con una grande scossa di musica.
Quando ai <strong>Derek And The Dominos</strong> si aggiunse la chitarra di <strong>Duane Allman</strong>, il più grande <em>sliderman</em> di tutti i tempi, le cose per la band di <strong>Eric Clapton</strong>, <strong>Bobby Whitlock</strong>, <strong>Carl Radle</strong> e <strong>Jim Gordon</strong> presero un’altra piega. Negli studi del <strong>Criteria</strong> di <strong>Miami</strong>, nel <strong>1970</strong> si registrò <strong>“Layla And The Other Assorted Love Songs”</strong>, uno dei dischi fondamentali del <strong>rock blues</strong>. Certo che <strong>portarsi i ricordi dappresso può far davvero male</strong>.
Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che
scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva
essere una sensazione meravigliosa starsene lì ad ascoltare quei
musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. <strong>Tutti correvano sulla stessa strada</strong>. E’ stata questa l’alchimia. <strong>Canzoni che rimangono nella memoria</strong>, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di <em><strong>Layla</strong></em> ad <strong>Eric Clapton</strong>… ma quella fu un intuizione di <strong>Duane Allman</strong>. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero. Se un nero ammazzava un altro nero, <em><strong>“Jim Crow”</strong></em> telefonava alla <strong>polizia</strong>, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei <strong>campi di cotone</strong>.
La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai
attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e
infilai <strong>“Blue Matter” </strong>dei <strong>Savoy Brown</strong>.
Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del
motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere… miagolando
il blues.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico </span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-22799565672113077332018-07-17T22:36:00.001-07:002018-07-17T22:36:14.859-07:00 Buddy Holly: “Blue Days, Black Nights”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiHeOEJGYsDth88KU3qUmb5G0HfB5olNwYMsQGJY9_xOKzARF8rH8tu4EjIHxbl0wLGQMMRr66sP6h5WE0X-riUp-L0QPGYfFU5ndkcuiGfwCosTkPQuEfCsBM8THOa4hDc8c15YdKxZ8g/s1600/buddy-holly-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiHeOEJGYsDth88KU3qUmb5G0HfB5olNwYMsQGJY9_xOKzARF8rH8tu4EjIHxbl0wLGQMMRr66sP6h5WE0X-riUp-L0QPGYfFU5ndkcuiGfwCosTkPQuEfCsBM8THOa4hDc8c15YdKxZ8g/s640/buddy-holly-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt;">Quel tizio aveva lo sguardo vago e il naso rosso ma il tono della sua voce era forte e sicuro. <em><strong>“Noi
uomini sterminiamo tutto ciò che c’è di bello e di buono in questo
mondo, e tutti siamo colpevoli allo stesso modo. Nessuno è innocente”</strong></em>.
Si accese un sigaro e si versò un bicchiere di vino, guardandosi la
punta delle scarpe. Per un breve attimo oscillò in avanti quasi volesse
cadere, ma fortunatamente si riprese subito. La <strong>festa delle seconde nozze di un mio vecchio amico,</strong>
si stava rivelando più piacevole del previsto. Ci ero andato
controvoglia perché ero in una fase in cui non me la sentivo di stare
tra la gente, e solo il pensiero di rincontrare vecchie conoscenze per
poi finire a rivangare i bei tempi che furono, mi metteva un’assoluta
tristezza… ma <strong>Ale me l’ero ritrovato sempre nei momenti più difficili</strong>, e non mi andava di deluderlo. Così su quel prato inglese di quell’<strong>albergo</strong> di una famosa <strong>località turistica siciliana</strong>, bevendo vino bianco ghiacciato, mi ritrovai a conversare con quell’uomo che con esattezza non sapevo neanche chi fosse. <em><strong>“Ho paura</strong></em>, s’interruppe per portarsi il calice alle labbra, si schiarì la gola e proseguì, <em><strong>“ho
paura che non resterà più nulla su questa terra di meritevole. Stanno
spazzando via tutto con inaudita ferocia e violenza, stanno creando un
mondo che è una pattumiera a cielo aperto. Il guaio è che a nessuno
sembra importargliene. Di questo passo dove andremo a finire?</strong></em> <em><strong>Ho l’impressione</strong></em>, proseguì avvicinando il sigaro che teneva in mano e poi allontanandolo come per focalizzarlo, <em><strong>che
finiremo male, molto male. Quest’universo è amministrato da gente
incapace che ha sempre pensato al proprio profitto, e mai al bene
comune. Ciarlatani, saltimbanchi, che hanno in mano il destino degli
esseri umani. E’ veramente incredibile tutto questo”</strong></em>.
Quello sconosciuto era davvero un fiume in piena, s’infiammava e
trasudava passione da tutti i pori. Restammo a parlare fin quando <strong>due bambini giocando a rincorrersi mi franarono sulle gambe</strong>. Li osservai rialzarsi lesti da terra e correre via. Chissà perché <strong>pensai alla solitudine degli uomini</strong>.
Quella solitudine che ci perseguita e ci rende amara la vita. Che ci
riempie di dubbi e, man mano che avanza, sgretola le nostre piccole
certezze. Come fanno <strong>certi blues tristi e dolorosi che ti divorano dentro sin dal primo ascolto</strong>, per non lasciarti mai più. <strong>La mattina dopo mi svegliai all’alba</strong>
che ero completamente sudato e senza aver dormito a sufficienza. Era
una giornata afosa per cui mi ficcai velocemente sotto la doccia, prima
di prendere il caffè. Sotto il getto dell’acqua ripensai alla serata
trascorsa, tutto sommato considerai che mi ero rilassato… una cosa che
ultimamente mi capitava di rado. <strong>Mi asciugai in fretta e scesi in cucina</strong>. Mentre preparavo la caffettiera accesi la radiolina, che suonò incredibilmente <strong><em>Peggy Sue</em></strong>.
Un brivido mi percorse il corpo, quasi come fosse una scossa elettrica.
Una canzone che difficilmente oggi senti per radio. Una canzone che
fece conoscere al mondo le stella di<strong> Buddy Holly</strong>. Che da <strong>quando è morto, il rock non è più lo stesso</strong>. Questo lo ha detto un protagonista del film <strong>“American Graffiti”</strong>, pellicola che diresse <strong>George Lucas</strong> nel <strong>1973</strong>… un omaggio alla Sua giovinezza e al rock’n’roll. <strong>Buddy Holly</strong> nasce a <strong>Lubbock</strong> in <strong>Texas</strong>, nel <strong>1936</strong>. È un ragazzino precoce con la musica. A quattro anni prende <strong>lezioni di violino</strong>, e a cinque partecipa ad un <strong>concorso per canterini</strong>, dove vince un <strong>premio di cinque dollari</strong>. A dodici anni si <strong>compra la sua prima chitarra</strong>, dopo aver suonato il <strong>pianoforte</strong>. Andava ancora a scuola quando con il suo inseparabile amico <strong>Bob Montgomery</strong>, cominciò a suonare alle<strong> feste scolastiche</strong> o in casa di amici. La <strong>KDAV</strong> di <strong>Lubbock</strong> era una <strong>radio country</strong> locale che organizzava <strong>concerti</strong> nei suoi studi e al<strong> Cotton Club</strong>, una delle sale da ballo più importanti della zona. <strong>Hi-Pockets Duncan</strong> faceva il <strong>disc-jockey</strong> in quella radio, e divenne il primo <em>manager</em> di <strong>Buddy Holly</strong>. Nel </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">1954</strong><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;">,</span> <span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">ogni domenica pomeriggio</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Buddy</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Bob Montgomery</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;"> e il bassista </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Larry Welborn</strong><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">, suonano alla <strong>KDAV</strong> nel programma radiofonico <strong>“Sunday Party”</strong>, mentre alla sera aprono gli spettacoli che si tengono al <strong>Cotton Club</strong>. E’ davvero difficile dire di conoscersi. <strong>Chissà quante vite racchiudiamo in ognuno di noi</strong>,
che attendono solo di essere vissute… e le cicatrici che ci portiamo
appresso, sono come dei marchi a fuoco per la nostra coscienza. <strong>Rassettai il soggiorno, e mi misi a scartabellare vecchi scritti di mio padre</strong>… che è un modo per continuare a parlarci. Bisogna sempre guardarsi indietro, per capire da dove si viene. <strong>Holly è il suo gruppo suonavano e provavano nuove canzoni chiusi nel garage sul retro di casa sua</strong>, e fu verso il <strong>1955</strong> che il batterista <strong>Jerry Allison</strong> cominciò a frequentare<strong> Buddy</strong>. La musica di <strong>Holly</strong> sta navigando verso un’altra direzione… e la presenza di <strong>Elvis Presley</strong> sul mercato discografico favorirà questo cambiamento. <strong>Elvis</strong> aveva appena inciso per la <strong>Sun Records</strong>, quando arrivò a <strong>Lubbock</strong> per una data al <strong>Cotton Club</strong>, invitato dall’emittente <strong>KDAV</strong>… da lì i due s’incontrarono. Il giorno dopo quello <em>show</em>, <strong>Buddy</strong> aprirà il concerto che <strong>Elvis</strong> terrà per l’inaugurazione del salone della <strong>concessionaria Pontiac</strong>. Il <strong>rock’n’roll</strong> è stato solo un’illusione di libertà. E’ servito a <strong>contenere le pulsioni di milioni di adolescenti</strong>
e ammansirli dentro un recinto, concedendo solo qualche salvacondotto,
tanto per non inasprire troppo gli animi. Ha camuffato con furbizia
comportamenti inoffensivi, facendoli passare per ribelli. Non ha
infranto nulla. <strong>Chi ha spezzato le regole lo ha fatto da solo, e per se stesso</strong>. Il <strong>rock’n’roll</strong> non c’entra con quelle ragioni. Ascoltavano tanta musica<strong> Buddy</strong> e i suoi amici. <strong>Elvis</strong>, ma anche i <strong>Drifters</strong> e <strong>Ray Charles</strong>, musicisti che seguivano tutte le sere attraverso una <strong>radio</strong> che trasmetteva da <strong>Shereveport</strong>, località vicina a <strong>Lubbock</strong>. <strong>Non era per niente rivoluzionario Holly nell’aspetto</strong>, a differenza degli altri <em>rockers</em> degli <strong>anni cinquanta</strong>… anzi, <strong>sembrava uno studente riservato e impacciato</strong>, con quei <strong>grandi occhiali</strong> che gli ornavano il volto… ma musicalmente stava avanti a tutti. Un cantautore che <strong>sapeva mescolare con estrema sensibilità tutti i generi musicali </strong>che lo avevano influenzato, creando un suono riconoscibilissimo. Fu tra i primi ad utilizzare in studio la tecnica dell’<strong>overdubbing</strong>, (sovraincisione) ed a lanciare la chitarra <strong>Fender Stratocaster</strong> nel mondo del rock. In <strong>“Pulp Fiction”</strong>, il film di <strong>Quentin Tarantino</strong>, nel locale <strong>“Jack Rabbit Slim”</strong> (che è anche il titolo di un disco di <strong>Steve Forbert</strong>) a tema <strong>anni cinquanta</strong>, l’attore <strong>Steve Buscemi è un cameriere travestito da Holly</strong>. Quando quella mattina la <strong>signora Stella</strong> mi vide passare, mi salutò con un cenno degli occhi. Se ne stava sotto la grondaia al fresco del suo <strong>chiosco</strong>, e <strong>combatteva l’afa di un agosto opprimente</strong>, sventagliandosi noiosamente un po’ d’aria. Suo <strong>marito</strong>,<strong><em>“l’americano”</em></strong>, come lo chiamavamo nel quartiere, era seduto accanto a lei, e sorseggiava una <strong>granita di limone</strong>. Quell’uomo aveva sempre l’aria del cazzo, con quei baffi irti sembrava che non cambiasse mai d’espressione. <strong><em>“Caramelle dolci, cocco, panini”</em></strong> vociò lei rauca. <strong>La conoscevo sin da bambino e gli ero affezionato</strong>. Ci ero cresciuto giocando sul marciapiede di quella strada. Al <strong>Fair Park Coliseum</strong> di <strong>Lubbock</strong>, nel <strong>1955</strong>, <strong>Bill Haley and His Cometes</strong> e <strong>Jimmy Rodgers Snow</strong>, tennero un concerto. Ad aprire quell’evento ci pensarono <strong>Buddy</strong> e i suoi amici. Quella sera era presente l’impresario di <strong>Nashville</strong> <strong>Eddie Crandall</strong> che rimase folgorato da quei ragazzi, tanto da chiedere a <strong>Dave Stone</strong>, il proprietario della radio <strong>KDAV</strong>, l’acetato di <strong>quattro loro brani</strong>. Canzoni che tramite <strong>Crandall</strong> arrivarono a <strong>Paul Cohen</strong> della casa discografica <strong>Decca</strong>, che volle subito <strong>Buddy </strong>sotto contratto, anche se da solista. Fu <strong>Bob Montgomery</strong> a convincere <strong>Buddy</strong> ad andare a <strong>Nashville</strong>, perché lui non ne voleva sapere di lasciare gli altri a casa. Quella <strong><em>session</em></strong> per la<strong> Decca</strong>, incisa il ventisei gennaio del <strong>1956</strong> allo studio <strong>Bradley’s Barn</strong>, produsse il suo primo singolo<strong> “Blue Days, Black Nights”</strong>, mentre sul retro ci sistemarono <strong>“Love Me”</strong>. La seconda seduta venne realizzata un paio di mesi dopo, il ventidue luglio del <strong>1956</strong>: questa volta<strong> Buddy</strong> incise con la batteria, e a suonarla c’era il suo amico <strong>Jerry Allison</strong>. Da questa <em>session</em> non escono dischi, anzi c’è da parte di <strong>Cohen</strong> una qualche sorta di ripensamento sulle qualità artistiche di <strong>Buddy</strong>… ma si sa che <strong>Nashville</strong> è un <strong>ambiente musicalmente conservatore</strong> dove si suona da sempre il <strong>country</strong>, e trovare musicisti adeguati alla musica di <strong>Holly</strong> che è uno <strong>sperimentatore</strong>, risulta davvero difficile. Quel giorno tra l’altro incisero anche <strong>“That’ll Be The Day”</strong>, che sarà il primo grande successo di <strong>Buddy</strong> e dei suoi <strong>Crickets</strong>. Avevo circa sette anni quando un <strong>parente</strong> tornando da un suo soggiorno in <strong>Svezia</strong>, portò in regalo a mia <strong>madre</strong> dei quarantacinque giri di <strong>Elvis Presley</strong>. Erano tempi in cui le famiglie italiane se ne stavano riunite in religioso silenzio, ascoltando e registrando le canzoni del <strong>Festival di Sanremo</strong> con dei piccoli <strong>apparecchi a cassetta</strong>, appoggiati all’altoparlante della <strong>televisione</strong>. Io invece me ne stavo sotto la branda del mio letto con il <strong>mangiadischi</strong>, ad ascoltare quei <strong>dischetti neri</strong>,
fino a quando non si scaricavano le pile. Quelle canzoni stavano
cantando del mio sogno e fu allora, ne sono certo, che quel tremito
interiore s’impadronì di me. Adesso è <strong>come se avessi appoggiato un occhio su una foto sbiadita dal tempo</strong>,
che m’imbottisce di nostalgia. Il rock’n’ roll è stato il desiderio di
essere liberi, una voglia irrefrenabile di fuga, di spazio… ma anche
della paura che questa nuova condizione implica. Così <strong>gli sconfitti, i solitari, nell’immaginario del rock diventano eroi</strong>, perché in qualche modo credono di avere una <strong>superiorità morale</strong> rispetto al resto del mondo. Ma il rock è una visione, e come tutte le visioni ha dei confini su cui muoversi, e <strong>i confini indicano sempre delle limitazioni</strong>… e quindi il controllo da parte di qualcuno. <strong>Il rock nel tempo non è riuscito più a comunicare e crescere</strong>. L’<strong>industria</strong> che gli gira intorno è riuscita ad omologarlo e a fargli perdere l’orientamento. A novembre del <strong>1956</strong>, <strong>Buddy Holly</strong> tiene l’ultima registrazione per la <strong>Decca</strong>. Vi suonano solo<em><strong> session men</strong></em>, e a <strong>Natale</strong> dello stesso anno viene pubblicato il singolo <strong>“Modern Don Juan”</strong>, con sul retro <strong>“You Are My One Desire”</strong>. <strong>Buddy Holly</strong> comincia a viaggiare verso altri contesti, e prende a collaborare con <strong>Norman Petty</strong>, che a <strong>Clovis</strong>, <strong>New Mexico</strong>, ha uno studio di registrazione. <strong>Petty è un musicista di successo</strong>, ha lanciato nelle classifiche di vendita due brani, <strong>“Almost Paradise”</strong> e <strong>“Mood Indigo”</strong>, e fa pagare il costo del suo studio non ad ore, ma a canzone. <strong>Holly</strong> registra qui nuovi brani da proporre alla <strong>Decca</strong>, che però non gli rinnova il contratto. <strong>“That’ll Be The Day”</strong> viene nuovamente registrata in questo studio il venticinque febbraio <strong>1957</strong>, ed è la versione che andrà in classifica. Qui si forma anche il<strong> nucleo storico</strong> dei <strong>Crickets</strong>, che oltre a <strong>Buddy Holly</strong>, vede <strong>Niki Sullivan</strong> alla chitarra, <strong>Allison</strong> alla batteria, e <strong>Welborn</strong> al basso. Saranno poi le <strong>sussidiarie</strong> della <strong>Decca</strong>, <strong>Brunnswick</strong> e <strong>Coral</strong>, a distribuire quei dischi.<strong> La sera al rientro mi sentivo particolarmente stanco</strong>,
accesi una spirale d’incenso su un piattino per tentare di allontanare
le zanzare, e mi coricai tirando il lenzuolo fin sulla testa. <strong>Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza</strong>… <strong>altri condannati alla dannazione</strong>. Ma conviene sempre non fidarsi di nessuno, se non si vuole crepare prima dei propri giorni. <strong>Rimasi immobile nel letto con gli occhi sbarrati </strong>e,
contando le pecorelle, cercai di prendere sonno. Quella sera però non
riuscivo a dormire nonostante la spossatezza… allora mi alzai e sul
balcone mi accesi una sigaretta. Ne aspirai qualche boccone e la gettai
via con disgusto. Guardai il tubo del neon del terrazzino che era
assaltato da minuscoli insetti, e tornai a coricarmi, lasciando la
finestra spalancata. Alle volte ci sentiamo indifesi tutti infilati
negli stessi sogni, tutti uguali, tutti soli. <strong>Mi chiesi se era <em>Peggy Sue</em> che mi mancava</strong>. Il ventisette maggio del 1957, a nome <strong>Crickets</strong>, <strong>“That’ll Be The Day”</strong> fa il botto e arriva al <strong>numero uno</strong> delle <strong>classifiche inglesi</strong>, e si piazza<strong> terza in quelle americane</strong>. L’<strong>attività concertistica</strong> del gruppo subisce un’impennata notevole, mentre nelle studio di <strong>Norman Petty</strong>, si continua a lavorare a nuove canzoni. Tra il ventinove giugno e il primo luglio, <strong>Buddy</strong> registra a suo nome <em><strong>Peggy Sue</strong></em> e, dopo qualche mese dalla sua pubblicazione, parte in <em>tour</em> insieme a <strong>Chuck Berry</strong>, <strong>Drifters</strong>, <strong>Paul Anka</strong>, <strong>Eddie Cochran</strong> e <strong>Fats Domino</strong>. La paga è di mille dollari alla settimana. I <strong>Crickets</strong> e <strong>Buddy</strong> partirono poi per un<em> tour</em> di venticinque giorni in <strong>Inghilterra</strong>, dove avevano ben <strong>quattro singoli in classifica</strong>. Qui partecipano ad una trasmissione della <strong>BBC</strong> chiamata <strong>Off The Record</strong> e, subito dopo, fanno ritorno negli <strong>States</strong>, dove invece prendono parte ad un<em> tour</em> guidato dal disc-jockey <strong>Alan Freed</strong>, chiamato <strong>The Big Beat</strong>, insieme a <strong>Jerry Lee Lewis</strong> e <strong>Chuck Berry</strong>. E’ nell’agosto del <strong>1958 </strong>che<strong> Buddy Holly</strong> sposa <strong>Maria Elena Santiago</strong> che ha conosciuto a <strong>New York</strong>. In questo periodo di cambiamento cerca di diversificare anche il suo repertorio, e invita il sassofonista <strong>King Curtis</strong> a registrare un suo pezzo, <strong>“Reminiscing”</strong>.
Esistono cose davvero malvagie nel mondo che non smetteranno mai di
riprodursi… ma come il sole che ogni giorno continua a sorgere e
tramontare, anche <strong>l’amore non si ferma mai ed è incontenibile</strong>. Continua a scavare e a scalciarci dentro come un bambino nel grembo. <em><strong>“Cos’è stato il rock’n’roll se non quell’illusione di restare per sempre giovani, per sempre innocenti?”</strong></em>
Due strofe e un ritornello che è un modo come un altro per non perdere
la propria identità, per riconoscersi in qualcosa prima di finire in
quel mondo, che è l’ingresso nella vita dei grandi. Dopo l’ultimo <em>tour</em> con<strong> Frankie Avalon</strong>, il grande <strong>Dion And The Belmonts</strong> e <strong>Bobby Darin</strong>, <strong>Buddy</strong> scioglie i <strong>Crickets</strong> e si trasferisce a <strong>New York</strong>, andando ad abitare al <strong>Greenwich Village</strong>. Qui, con l’orchestra di <strong>Dick Jacobs</strong>, incide il ventuno ottobre del <strong>1958</strong> un brano di <strong>Paul Anka</strong>, <strong>“It Doesn’t Matter Anymore”</strong>. Sono quindici mesi che<strong> Holly</strong> si divide tra<em> tours</em> e sala d’incisione. A <strong>New York</strong>
finalmente trova il tempo di rilassarsi e incide a casa sua delle
canzoni solo per chitarra e voce, pezzi finiti in cui collabora anche
sua moglie. Il 2 febbraio del <strong>1959</strong> <strong>Buddy Holly</strong> ha ventidue anni e, insieme a <strong>Dion And The Belmonts</strong>, <strong>Frankie Sardo</strong>,<strong> Ritchie Valens</strong> e <strong>The Big Bopper</strong> (<strong>J.P. Richardson</strong>), si trova al <strong>Surf Ballroom</strong> di <strong>Clear Lake</strong>, nello stato dello <strong>Iowa</strong>. Finito lo spettacolo, per evitare un lungo trasferimento in macchina, e dato che all’indomani devono suonare a <strong>Moohead</strong> nel <strong>Minnesota</strong>, <strong>Holly</strong>, <strong>Valens</strong> e <strong>Big Bopper</strong> affittano un aereo, un <strong>Beech Bonanza</strong> pilotato da <strong>Roger Peterson</strong>. Nella notte decollano ma l’aereo precipita poco dopo, a cinque miglia dall’<strong>aeroporto</strong> di <strong>Mason City</strong>. Muoiono tutti, e verrà accertato che è successo per <strong>un tragico errore del pilota</strong>, che ha inserito il volo strumentale senza saperlo usare del tutto. <strong>“It Doesen’t Matter Anymore”</strong>, pubblicata il cinque gennaio del <strong>1959</strong>, diventerà il più grande successo di <strong>Buddy Holly</strong>. La brace della Sua sigaretta brillava nel buio. <strong>Quando me la ritrovai dentro casa non mi ricordai se avessi nutrito qualche speranza di rivederla</strong>. Attraversai il salone e mi si parò di fronte. Aveva un’aria smarrita. <em><strong>“Vuoi fumare?”</strong></em>, mi chiese nervosa. Una semplice domanda, a cui non seppi rispondere. Era diventata misteriosa.<strong><em> “L’ho sempre saputo che sarei tornata da te”</em></strong>.
Mi sentivo bruciare le guance e, prima che ruzzolassi nel buio di me
stesso, versai due bicchierini di brandy e mi sedetti sulla panca del
terrazzino. La guardai con attenzione. <strong>Era bella con i jeans sbiaditi e quella camicetta attillata </strong>che gli faceva quasi esplodere il seno. <em><strong>“Perché sei tornata?”</strong></em> gli chiesi… e guardai il cielo nero, chiuso, piatto, sopra la mia testa, in attesa della sua risposta. <em><strong>“Perché è solo qui che ho le mie certezze”</strong></em>. Nonostante fossero le dieci di sera il caldo era ancora soffocante. <strong>Scrutai i suoi grandi occhi castani e mi parve gracile</strong>.
Se ne stava in piedi in un atteggiamento mite, che era anche questo una
sorpresa. Avevo sempre avuto un debole per le donne sagaci e tristi. <em><strong>“E’ l’amore</strong></em>, disse, <strong><em>che mi ha portato fin qui, nient’altro”</em></strong>. Non c’era alcuna aggressività in lei, lo notai alle prime luci dell’alba mentre dormiva tranquilla arrotolata nel lenzuolo. <strong>E’ un labirinto l’amore che c’inghiotte nelle sue spire e che ci salva da noi stessi</strong>. Mi alzai e preparai il caffè. Lo bevvi da solo in silenzio a sorsi molto lenti. Poi accesi la radiolina. <em><strong>“Peggy Sue I love You”</strong></em>.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; line-height: 1.4em;">Bartolo Federico</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-75354483567161921512018-04-12T21:25:00.001-07:002018-04-12T21:25:39.792-07:00Bourbon Blue<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgarAAOcC5EIpQU0_9PZ7Zx73aSg9_H7GpZQtIDBDkVFO9O4CxOXzgVYHOiym9XWJkeNT1vr_jKk9ClqkywHEg-8GpojQPs3GUeFgkO5ZcJvaVfnxf24OAwN8WKFQCTkkJ-MmdF6nx6ffo/s1600/fallimenti-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgarAAOcC5EIpQU0_9PZ7Zx73aSg9_H7GpZQtIDBDkVFO9O4CxOXzgVYHOiym9XWJkeNT1vr_jKk9ClqkywHEg-8GpojQPs3GUeFgkO5ZcJvaVfnxf24OAwN8WKFQCTkkJ-MmdF6nx6ffo/s640/fallimenti-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Guidavo sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote</strong>.
Quel paesaggio, se da un lato alimentava una sensazione d’intensa
malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro
appoggiato sul cruscotto ed una mano sul volante, <strong>procedevo fumacchiando una Camel</strong>. Accesi la radio e inserii <strong>“Undead”</strong>, anno <b>1968, </b>un <em>set</em> dal vivo dei <b>Ten Years After</b>, gruppo inglese in auge dalla metà degli <strong>anni sessanta</strong>. Il chitarrista e anche <em>leader</em> della band, </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">Alvin Lee</b>,<b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;"> </b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">per tecnica, velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re della sei corde <strong>Jim Hendrix</strong>… ma la storia del rock è ingrata e, come spesso accade, i <strong>Ten Years After</strong>
sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La musica riempì
l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare via la
cicca e <strong>sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano</strong>.
Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far
fischiare le gomme sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di
scotch che tenevo nel cruscotto e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre
avuto l’impressione che l’alcool potesse ripulirmi dentro, e spegnere
quel tormento che mi portavo appresso da ormai molto tempo. <strong>Avevo smesso di bere</strong>,
almeno in un certo modo, anche se l’alcool restava una tentazione molto
forte. Il motore adesso tirava che era una bellezza, scrollai il capo
e mi abbandonai alla musica. <strong>C’è un nugolo di ragazzi in fondo al viottolo</strong>. Sto lì, in mezzo alla stradina con il labbro gonfio e i pugni serrati. <strong>La lite è terminata ma è stata furibonda</strong>.
Qualcuno adesso piange, altri scappano. Continuo a stare fermo, e fisso
l’uomo di fronte a me. Lui prova a fare un passo in avanti, ma con un
gesto rapido mi chino e prendo da terra una grossa pietra appuntita. Si
ferma e intuisce che non ho paura. Il sole è alle mie spalle. <strong>Ha il viso tumefatto ed è una maschera di sangue per i colpi che ha preso</strong>.
Bestemmiando mi urla che, prima o poi, con me regolerà il conto… ma i
conti vanno regolati subito, se no stai bluffando. Per uscire dal
viottolo cammino all’indietro. Qualcuno mi dà una pacca sulle spalle,
sono stanco, esausto, scappo e vado a rifugiarmi sotto un albero di
limoni con cui disinfetto anche le ferite. <strong>Mi sdraio a faccia in giù sull’erba secca</strong>.
L’odore della terra è cosi forte che mi sconquassa le narici. Mi
addormento. Giravamo sempre in gruppo da ragazzi. Se qualcuno si
allontanava, aspettavamo che riapparisse nel tempo stabilito. Una volta
scaduto, si andava tutti insieme a cercarlo. <strong>La regola era che nessuno doveva rimanere indietro da solo</strong>. Quel pedofilo aveva afferrato dalle spalle <strong>Lillo</strong>
che, per il terrore, non riusciva neppure a gridare. E lo stava
trascinando dentro casa, che era proprio in fondo alla stradina.
Arrivammo appena in tempo per tirarlo via da li. <strong>La libertà è sempre stata nelle cose semplici</strong>. Come un viaggio in moto stile </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Dennis Hopper </b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">e </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Peter Fonda</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> nel film <strong>“</strong></span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Easy Rider”</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">. Nell’ascoltare un disco di musica rock, fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. <strong>La libertà si può trovare in mille cose</strong>.
Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le persone, marciscono e
ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei ragazzi. Lo stesso
buon senso che animò il gesto di </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Tommie Smith</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">, un atleta di colore nato a </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Clarksville</b>,<b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> Mississippi</b>,<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> la terra del blues. <strong>Tommie</strong> vinse la<strong> medaglia d’oro</strong> sui <strong>200 m</strong> nella finale olimpica di <strong>Città del Messico</strong> con il tempo di 19”83… fu lui il primo uomo a scendere sotto la soglia dei 20”. <strong>Smith</strong> vinse quella medaglia anche per conquistare quell’<strong>America</strong> che lo bistrattava e che invece lui amava. Quell’<strong>America bigotta e razzista </strong>che lo applaudiva ipocritamente e che avrebbe preferito di gran lunga darlo in pasto al <strong>ku klux klan</strong>. Quell’<strong>America</strong> gli voltò le spalle nel momento esatto in cui scese i gradini del podio.<strong> Tommie Smith</strong> durante la premiazione, insieme al suo connazionale<strong> John Carlos</strong>, arrivato terzo, ascoltarono l’inno nazionale scalzi, chinando il capo e sollevando il <strong>pugno in aria avvolto in un guanto nero</strong>. Quell’azione cosi plateale fu a sostegno del movimento chiamato <strong>Olympic Project for Human Rights</strong>.
La federazione statunitense li sospese dalla squadra con effetto
immediato e furono espulsi dal villaggio olimpico. Una volta a casa
ricevettero anche minacce di morte e furono licenziati dal lavoro. <strong>L’America del non senso aveva vinto</strong>. C’è stato un tempo in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un baleno. <strong>Allora non mi veniva difficile innamorarmi</strong>…
il problema, semmai, era crescere, restare insieme, capirsi, ma anche
comprendere se stessi. Quello sì che era difficile. A me sgomentava il
dover sempre e comunque vestire gli stessi panni per tutta la vita. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Perché mi sarebbe piaciuto una mattina alzarmi ed essere </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Keith Richard</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">, in un’altra </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Robert Johnson</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">,
e via di questo passo… e invece, sempre la stessa faccia sempre la
stessa esistenza, a volte grigia a volte piena. Un esistenza che se ne
andava per i fatti suoi, ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia
furiosa. Quando i <strong>Ten Years After</strong> salirono sul palco di <strong>Woodstock</strong>, mandarono letteralmente in delirio il pubblico suonando una versione stratosferica del loro <em>hit</em> </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><i>I’m goin’home</i></b>.<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. <strong>Alex mi stava aspettando al riparo dentro l’androne del portone di casa</strong>.
Posteggiai l’auto di fronte all’ingresso e in un baleno saltò dentro
dandomi un lieve bacio sulla guancia. Stavamo riprovando a stare
insieme, cercando di raccogliere i cocci sparpagliati della nostra
esistenza e, per la prima volta, entrambi attraversavamo sentieri
sconosciuti. <strong>Da qualche parte bisognava pur ripartire</strong>. E
noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del
dialogo e del dolore delle parole… ma cosa sarebbe la vita senza
passioni, mi chiesi mentre guidavo. Sono queste che in un modo o
nell’altro ci tengono in piedi anche quando tutto precipita. </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Cyril Davies</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> era un <strong>armonicista</strong> innamorato profondamente della musica nera. Aveva cominciato dedicandosi alla <strong>musica Jazz</strong> suonando il banjo durante gli <strong>anni cinquanta</strong>, per poi passare ad una sorta di miscellanea musicale molto affine a quella delle<strong> jug band americane</strong> chiamata <strong>skiffle</strong>.
Non potendo mantenersi solo con la musica, lavora anche come
tappezziere. Ma il blues quando ti entra in circolo t’infetta fin dentro
l’anima ed è per questo che<strong> Cyril</strong> impara a suonare l’armonica blues ascoltando i dischi del suo eroe, </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Sonny Boy</b> <b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Williamson</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">. Nel <strong>1961</strong> insieme ad </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Alexis Korner</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> forma i </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Blues </b><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Incorporated</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">,</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> dove militeranno musicisti del calibro di </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Jeff Beck</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">, </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Nicky Hopkins </b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">e il cantante </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Long John Baldry</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">, tutti personaggi che avranno un ruolo primario nell’ambito del cosiddetto <strong>blues revival</strong>. Questo movimento si andò affermando nella metà degli <strong>anni sessanta </strong>e <strong>Cyril Davies</strong>
ne fu il precursore… ma proprio quando la scena musicale cominciò a
catturare l’attenzione del mondo, morì stroncato dalla leucemia. Un
rovescio di pioggia sul parabrezza mi riportò alla realtà. <strong>Alex guardava la strada avvolta in un cupo silenzio</strong>.
Le presi la mano gelida e la strinsi forte. Lei si girò mostrandomi un
sorriso smunto. Poi, con calma, molto lentamente, iniziò a parlare,
raccontandomi di quando bambina andava dai nonni al mare. <strong>Parlò per tutto il tragitto ed io l’ascoltai senza mai interrompere</strong>.
Quando finì misi un blues di quelli che mi hanno accompagnato
l’esistenza e le parlai di quel giorno nel viottolo e della mia paura.
Di quella fottuta paura che ancora adesso mi porto appresso… e per la
prima volta lo confidai. Se quell’uomo avesse fatto un altro passo in
avanti l’avrei ucciso.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Bartolo Federico </span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-59632858139860333852018-04-02T22:53:00.004-07:002018-04-02T22:53:39.243-07:00Sperduto nel diluvio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyhEW21gLce24Pgoliv5wDDnoEpjArdjCMP72n9ASHgHd0AdyCT8AkAA3LGw_mHm7lJnH5d7BG5H363SnQ0t4C4fqnqj3_14mfBA3KNBUFTc7DgNe-nxwBhkeqfgUMWstCsZBpk9Y7wbI/s1600/sperduto-nel-diluvio-bartolo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="543" data-original-width="768" height="452" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgyhEW21gLce24Pgoliv5wDDnoEpjArdjCMP72n9ASHgHd0AdyCT8AkAA3LGw_mHm7lJnH5d7BG5H363SnQ0t4C4fqnqj3_14mfBA3KNBUFTc7DgNe-nxwBhkeqfgUMWstCsZBpk9Y7wbI/s640/sperduto-nel-diluvio-bartolo.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>L’ultima luce del giorno se la inghiottì un mare che pareva di vetro</strong>.
Nell’oscurità che atterrava a rilento cercò una soluzione, intanto che
la luna si impossessava del cielo. In quella città in perenne movimento
nessuno poteva sentirsi al sicuro, neanche lui. Come inseguito da una
melodia irresistibile, si spostava di continuo, nascondendosi con le
altre creature che brulicavano nell’ombra. Accese la radio tenendola a
basso volume.<br />
<i><strong>Una pupa al silicone assieme al gorilla del suo boss mi ha
detto che avevo ciò che serve, disse: ”ti accenderò io ragazzo mio con
qualcosa di forte se mi suoni quella canzone dal ritmo funky”.</strong><br />
</i>(<em>Blinded By The Light</em> – Bruce Springsteen).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Scese
dall’auto e prese a camminare come faceva tutte le notti. Gli piaceva
guardare i marciapiedi e le luci delle vetrine e gli piacevano quelle
solitudini che arrancavano per le strade. Sentì la rivoltella con
l’impugnatura di gomma che gli premeva sullo stomaco. <strong>Non si era mai fidato delle pistole automatiche, aveva paura che si inceppassero</strong>.
Sempre solo come un cane bastardo, considerò… ma i silenzi a volte
fanno un po’ di bene, specie quando i ricordi si induriscono e non hanno
più gusto a pensarli. Tutto in un colpo s’invecchia.<br />
<strong>”</strong><i><strong>Beh, saltai, girai in tondo, sputai in
aria, caddi in terra. Gli domandai quale fosse la strada del ritorno a
casa. Disse:prendi la destra al lampione vai sempre dritto finché è
notte, e poi, ragazzo, sei solo”.</strong> </i>(<em>Blinded By The Light</em> – Bruce Springsteen).<b><br />
</b></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Da bambino con suo padre ci passava un sacco di tempo. Lui amava raccontargli <strong>le storie di quei musicisti del Mississippi che avevano viaggiato sulle strade impolverate</strong>.
Storie che conosceva bene, essendo stato un appassionato di blues, ma
anche un bravo chitarrista. Nel soggiorno, seduto su quel vecchio divano
di velluto scolorito, prima gli cantava qualcosa, poi si accendeva un
sigaro e, riempiendosi il bicchiere di uno strano miscuglio alcolico,
con voce bassa prendeva a parlare. Per lui quei minuti e quelle ore,
passati insieme a suo padre, erano stati momenti preziosi che aveva
cancellato dalla mente dopo che questi morì. <strong>Una sera si era addormentato e non si era più risvegliato</strong>. Da allora <strong>Rocco</strong> con quella pena nel cuore si inasprii e, aspettando l’occasione che non arriva mai, s’incamminò sulle cattive strade.<br />
<i><strong>“E non rimane altro che del sangue dove cade il corpo, cioè
niente che si può vendere, solo cianfrusaglie all’orizzonte, un vero
saluto da bandito. E dissi ”hey ragazzo! Credi che sia olio, è sangue
”mi chiedo a cosa pensasse quando è incappato in quella tempesta:o era
solo sperduto nel diluvio?”</strong> </i>(<em>Lost In The Flood </em>– Bruce Springsteen)</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<div>
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Il 12 novembre del <strong>1909</strong> a <strong>Houston</strong> nel <strong>Mississippi</strong> nacque <strong>“</strong><b>Booker</b> <strong>“</strong><b>Taliaferro” Washington White</b>, il primo di cinque fratelli. <b>Bukka,</b> come fu soprannominato, fu la <strong>raffigurazione vivente del dolore</strong>.
Un uomo sensibile, lacerato nell’animo dalla vita durissima che
condusse. Le sue vicende umane rispecchiarono in pieno la sua musica. <strong>Suonava un blues feroce, viscerale, capace di strapparti la carne di dosso e ridurti il cuore a pezzetti</strong>. Cantando con voce possente ed emozionale, ti scuoteva i sensi. Il suo fu <strong>il blues della solitudine</strong>,
della fatica di vivere, del freddo interiore, di quelle anime che hanno
sempre vissuto nella penombra bluastra del silenzio, agitandosi
nell’anticamera dell’inferno. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Dal padre <strong>John</strong>, un <strong>manovale delle ferrovie</strong>, ma anche <strong>musicista part-time</strong>, impara a suonare la chitarra e, nello stesso tempo, un <strong>pastore</strong> della <strong>chiesa battista</strong> gli insegna a cantare… ma non c’è spazio per la musica, la pancia è vuota e bisogna lavorare. A <strong>14 anni</strong> trova occupazione in una <strong>segheria</strong> e si trasferisce da suo zio <strong>Alec Johnson</strong>, a <strong>Grenada</strong>. Ma quel lavoro è davvero troppo duro per un ragazzino anche se ben messo fisicamente. Così, con la sua chitarra fa fagotto e s<strong>e ne va via errando per il Delta del Mississippi</strong>,
mantenendosi suonando i suoi blues ancora acerbi. In uno di quei giorni
fortunati che ad ogni uomo almeno una volta il buon Dio concede di
avere, incappa in<strong> Charlie Patton</strong> che lo prende sotto la sua tutela. Un incontro che al giovane <strong>Bukka</strong> lascerà un segno indelebile dentro l’anima e nello stile musicale.<br />
<strong>”</strong><i><strong>la mia pelle era come cuoio e il mio
sorriso di diamante sembrava quello di un cobra. Sono nato triste e
consunto ma ho bruciato le tappe”</strong>.</i> (<em>It’s Hard To Be A Saint In The City</em> – Bruce Springsteen)</span></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div>
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Era
invecchiato senza accorgersene. Camminava ogni notte per la città per
rifiatare almeno un po’. In periferia dove era nato, le luci non erano
uguali a quelle del centro. <strong>Le ciminiere delle fabbriche avevano scurito i muri delle case e c‘era melma e puzza di piscio dappertutto</strong>.
Il cielo, poi, era grigio come se vi fosse stata applicata una
pellicola che l’offuscava. Si rese conto che lo avevano relegato a
vivere in una grossa fogna, ad annerirsi sotto un sole artificiale.<br />
<strong>“<i>Ero il re dei vicoli, potevo parlare un po’ sboccato</i>.</strong><i><strong>
Ero il principe dei poveri incoronato là, fra i mendicanti, ero il vero
profeta dei magnaccia, tenevo tutto sotto controllo. Un giocatore da
bassifondi che poteva perdere solo la sua fortuna.”</strong> </i>(<em>It’s Hard To Be A Saint In The City</em> – Bruce Springsteen).<br />
<strong>Del quartiere era diventato il boss</strong>. Con la galera
aveva anche conquistato il rispetto della paura, ma certamente non
quello degli uomini. Gli anni passati dentro quelle quattro mura, però,
lo avevano reciso come il gambo di una rosa, indebolendolo invece di
temprarlo. Non sapeva perché era successo, ma era andata così. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><strong>Bukka White</strong> solo con la musica non riesce proprio a sbarcare il lunario, per cui si vede costretto ad andare a lavorare nei<strong> campi di cotone</strong>…
ma il richiamo del blues resta sempre forte dentro di lui e, non appena
possibile, scappa per andare a suonare nelle bettole o nelle feste.
Così ben presto riprende il cammino. Intorno agli <strong>anni trenta</strong> arriva a <strong>Memphis</strong> dove riesce a farsi apprezzare dalla <strong>comunità nera</strong>. Qui viene notato da un figlio di puttana come ce ne sono tanti sparsi per il mondo, un certo <strong>Ralph Limbo</strong>, un<em> talent scout</em> che possedeva un negozio di dischi e che, con la promessa di lauti guadagni, gli fa incidere dei pezzi per la <strong>Victor</strong> sotto il nome di <strong>Washington White</strong>… brani che restano per lo più inediti. La <strong>grande depressione</strong> rende la vita difficile a chiunque e <strong>Bukka White</strong> deve darsi da fare se non vuol morire di stenti. Per questo motivo fa i lavori più disparati, dal <strong>lattaio</strong> allo <strong>strillone</strong>, dallo <strong>sguattero</strong> allo <strong>spazzino</strong>, fino a diventare un <strong>giocatore professionista di baseball</strong> nel campionato di colore e tentando anche una carriera nel <strong>pugilato</strong>… ma <strong>il diavolo è girovago e non ti dà il tempo di fermars</strong>i. Si sposta ad <strong>Aberdeen</strong> e, finalmente, riesce a liberarsi del contratto con la<strong> Victor</strong> che non gli ha fruttato un centesimo. Succede però che, durante la solita lite, <strong>Bukka spara ad un uomo e lo uccide</strong>. Fugge ma viene presto catturato e mandato in prigione. Dopo poco tempo, tuttavia, riesce a evadere e a rifugiarsi a <strong>Chicago</strong>, dove incide anche alcuni brani: </span><em><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Shake em on down </b></em>e<em><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> Pinebluff Arkansas</b></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">. Nuovamente catturato, è <strong>condannato a sette anni di lavori forzati</strong> e viene inviato nella peggiore delle galere, la più dura, la più violenta, quella </span><b style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Parchaman Farm</b><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> in <strong>Mississippi</strong>, che solo ad evocarne il nome mette terrore.</span><i style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><br />
<strong>“Giudice dammi la vita stamane a Parchman Farm. Non voglio
odiare così, ma ho lasciato mia moglie nel dolore. Oh, buona moglie, ciò
che hai fatto è tutto andato. Ma spero che un giorno potrai udire il
mio canto solitario. Ascoltate. Non voglio dire nulla di male se volete
far bene, meglio star fuori da Parchman Farm. Cominciamo a lavorare al
mattino, proprio all’alba, fino al tramonto. Questo accade quando il
lavoro è finito, io sto a Parchman Farm, ma vorrei tornare indietro a
casa dove spero un giorno di sopraggiungere”</strong>. </i><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;">(<em> Parchman Farm Blues</em> – Bukka White).</span></div>
</div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
<div>
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Doveva stare attento alla<strong> polizia</strong>,
non voleva finire nuovamente dentro. Quella era l’unica cosa che gli
faceva davvero paura, non avrebbe resistito più di un giorno questa
volta. Ogni uomo è un anello del mondo, ma lui cos’era? Forse solo un
bersaglio che passeggiava nell’oscuro della notte.<br />
<strong>“<i>la notte era buia, ma il marciapiede illuminato e foderato
della luce di vita notturna. Dalla finestra di un appartamento una radio
suonava a pieno volume. Girato l’angolo, tutto ammutoliva
improvvisamente. Entrai così nella decima avenue fuori gioco, la decima
avenue fuori gioco. Sono solo, completamente solo. E tu, ragazzo,
dovresti diventare un personaggio, sono solo, assolutamente solo, e non
riesco ad andare a casa”. </i></strong>(<em>Tenth Avenue Freeze Out</em> – Bruce Springsteen)<i>.</i><br />
Si era costruito una reputazione nel peggiore dei modi, con la violenza e
i soprusi, scegliendo la parte sbagliata del mondo… ma, se non altro,
sapevi chi era. Non come i nostri governanti. <strong>Si era rifugiato nell’oscurità e poteva contare solo su se stesso</strong>.
Come una bestia feroce si mimetizzava in modo perfetto, pronto a
colpire la sua preda ma, adesso, ondeggiava nella risacca, come una
foglia già caduta lentamente giù da un albero. Adesso aveva occhi che
ballavano di nostalgia.</span></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><i><strong>“E’ solamente uno l’errore che ho fatto. Restare in Mississippi un giorno di troppo”</strong>. </i>(Traditional).<br />
La prigione di <strong>Parchaman</strong>, che è pari ad un campo di concentramento, è il regno della violenza e della crudeltà. <strong>Bukka White</strong>
ci trascorre due anni ed è attraverso la musica che riesce in qualche
modo a lenire quelle atroci sofferenze. Si esibisce per gli altri
detenuti cantando e suonando i suoi blues che sono divenuti aspri e
durissimi, perché esprimono tutto il dolore e lo sconforto della sua
anima. In quel periodo registra insieme al musicologo <b>Alan Lomax</b>, inviato nel terribile penitenziario, alcuni brani per la <strong>Biblioteca del Congresso</strong>. Poco dopo quell’evento, viene liberato. <strong>Bukka</strong>, però, è ferito, traumatizzato dai suoi spettri che sono la <strong>prigionia</strong>, l’<strong>alcool</strong> e l’o<strong>ssessione della morte</strong>. Adattarsi alla libertà, in queste condizioni psicologiche, non gli è per niente facile.<br />
<strong><em>“Mi sento strano, Signore, credo che morirò. Mi sento
strano, Signore, credo che morirò. Beh, non mi importa di morire, ma non
sopporto di dover lasciare i miei bambini in lacrime. Guardo lassù quel
terreno per la sepoltura. Guardo lassù quel terreno per la sepoltura.
Sembra molto solitario, Signore, quando il sole tramonta”</em></strong><i>.</i> (<em>Fixin’To Die</em> – Bukka White).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Una
brezza che pareva venisse dall’inferno, lo investi in pieno viso mentre
camminava a testa bassa, là in fondo alla notte. Era molto tardi e la
strada era silenziosa come un cimitero. Salì in macchina e il motore al
primo giro di chiave rombò. Accese la radio ed alzò il volume:<br />
<strong><em>”E guido un auto rubata in una notte buia. E dico a me
stesso che andrà tutto bene. Ma corro nella notte e viaggio col timore
di sparire nell’oscurità”</em></strong>. (<em>Stolen Car</em> – Bruce Springsteen).<br />
Si sentiva come se gli avesse fatto schifo, all’esistenza. Non aveva
niente di cui parlare, perché non gli capitava più nulla che lo
interessasse. Avrebbe voluto uscire da quel <em>business</em>, ne aveva abbastanza di quella vita, ma come fare? <strong>Alla fine ne sarebbe valsa la pena?</strong>
Se lo chiedeva intanto che l’auto sfilava lenta nelle strade deserte.
Occorreva ritrovare il coraggio perduto, ripartire dalle stradine
laterali. Aveva come la percezione che tutte le cose che aveva tenuto
dentro, per tutto quel tempo, fossero uscite all’improvviso e si fossero
messe tutte insieme a parlargli… ma, questa volta, voleva capire fino
in fondo quello che avevano da raccontargli.<br />
<strong><em>“Ti decidi e scegli l’occasione da sfruttare.</em> Guidi fin
dove la strada termina e inizia il deserto. Fuori, in strada, guidi
fino a che fa giorno. Impari a dormire di notte con il prezzo che pagh”</strong>.<br />
(The Price You Pay – Bruce Springsteen).</span></div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
<div>
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Dopo Il servizio militare Bukka White torna a Memphis</strong>, dove vive insieme a un suo secondo cugino, un certo <strong>Riley B.King</strong> (in seguito sarà conosciuto col nome di<b> B.B. King</b>),
il quale apprende molto dalle vicissitudini umane di quel parente assai
sfortunato ma, come succede a tutti i diseredati del mondo, <strong>Bukka</strong> scompare dalla circolazione. Nel <strong>1963</strong>, un appassionato di blues, il virtuoso chitarrista <b>John Fahey</b>, riscopre questo enorme talento. A dirla tutta, l’anno precedente, fu il giovane <b>Bob Dylan</b>, incidendo <strong><em>Fixin’ To Die Blues</em></strong> nel suo disco d’esordio, a riaprire la passione per questo dimenticato randagio. Un contratto per la <strong>Arhoolie</strong> di <strong>Cris Strachwitz</strong> e varie esibizioni nei <strong>folk club</strong>
fanno crescere l’interesse per il suo blues… ma lui resta un uomo
dolorante, la vita lo ha enormemente devastato e quel terrore profondo
per tutto quello che ha visto e subito è troppo difficile da cancellare.
Le sue canzoni restano un patrimonio per chiunque voglia conoscere l’<strong>autenticità del blues di strada</strong>. Canzoni che sono alla pari di quelle di <b>Robert Johnson</b>,<b> Charlie Patton</b>,<b> Tommy Johnson </b>o <b>Blind Willie</b> <b>Mc Tell</b>.
Canzoni dimenticate dai più, che provengono dal profondo del cuore di
un uomo arrivato in cima a tutto quello che di brutto può capitare.
Riscoprirle significa toccare il suo dolore e quello di un intero popolo
esule. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><em><strong>“Ricordati, Rocco,”</strong> </em>concluse suo padre: <em><strong>“quando
la tua pena non ti risponde più, quando si scivola, si sbanda, bisogna
ritornare lì dove tutto ha avuto inizio, dove tutto ricomincia, anche
solo per piangere”.<br />
</strong></em></span><i style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><strong>“Tutti
hanno un segreto, Sonny, qualcosa che non possono affrontare. Alcuni
passano la vita cercando di mantenerlo. Se lo portano dietro a ogni
passo che fanno, finché un giorno lo abbandonano, lo abbandonano o si
lasciano trascinare a fondo, dove nessuno fa domande o ti guarda in
faccia troppo a lungo, nel buio ai margini della città”.</strong> </i><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><em>(Darkness On The Edge Of Town</em> -Bruce Springsteen) </span></div>
<div>
<span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> </span></div>
<div>
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> </span><span style="font-weight: normal;">Bartolo Federico</span></span><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"></span></div>
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</div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-18830733633144825652018-03-25T23:40:00.003-07:002018-03-25T23:40:51.522-07:00Sangue zingaro<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkpG3Yq7h8JYnw1kMut9w-qEORBIV68ytw_LpCfZMn4ROX6ucKGsNXLmCE5-F1ywLPyluaTN4QBKv9YlLdghqbh7YgBD-igYLCUqeicb6cllv6os6XEEzJIhCiWdlbT67EVPTXNmgTT08/s1600/sangue-zingaro-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkpG3Yq7h8JYnw1kMut9w-qEORBIV68ytw_LpCfZMn4ROX6ucKGsNXLmCE5-F1ywLPyluaTN4QBKv9YlLdghqbh7YgBD-igYLCUqeicb6cllv6os6XEEzJIhCiWdlbT67EVPTXNmgTT08/s640/sangue-zingaro-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Sua madre gli raccontò che quando nacque pioveva a dirotto</strong> da giorni e che <strong>Ft Worth</strong>
– nello stato della stella solitaria – era diventata un’immensa
pozzanghera. Le doglie le presero in anticipo di un mese e, siccome lui
era<strong> il primo figlio</strong>, fu assalita dal panico. A quel tempo la zona in cui abitavano era abbastanza isolata e distante dall’<strong>ospedale</strong>. Suo <strong>marito</strong>
era fuori per lavoro e non sarebbe rientrato prima di un paio di
giorni. Tentò di chiamare aiuto per telefono, ma le linee erano
interrotte per le forti piogge. Non sapeva che fare. Nonostante tutto
cercò di vincere l’angoscia e di non farsi soggiogare dagli eventi. <b>Robert Lockwood</b> era un tipo strambo, veniva da <strong>Chicago</strong> e viveva nella casetta di fronte. Come tutti i musicisti <strong>dormiva di giorno e alla sera suonava nei locali sparsi nei dintorni</strong>. Un tipo gentile, però. Quelle poche volte che si erano incrociati per la strada l’aveva salutata sorridendole… <strong>ma lei non si fidava dei neri vagabondi che suonavano il blues</strong>. Si raccontavano strane storie su di loro, si diceva che avevano <strong>il diavolo in corpo</strong>
e che erano assai pericolosi, bevevano come spugne e violentavano le
donne, specie se bianche. Adesso quell’uomo bussava alla sua porta
perché l’aveva sentita urlare e lei non aveva alternative. Quando aprì
l’uscio, la pioggia veniva giù impetuosa, accompagnata da un vento
gelido. <strong>Robert</strong>, avvolto in un impermeabile, era inzuppato come un pulcino.<em><strong> “Tutto bene, signora?” </strong></em>le
disse sorridendole… ma lei non fece in tempo a rispondere che svenne.
Quando riaprì gli occhi era distesa sul letto, l’uomo aveva già
preparato l’occorrente per il <strong>parto</strong> e le rideva
benevolo. Lo osservò, si senti sicura e le parve, da come si muoveva,
che sapesse il fatto suo. Dopo un’ora di travaglio e di dolore per le
contrazioni, <strong>Mason</strong>, prima usci di testa, poi con le spalle e nacque.<strong> Mr. Lockwood</strong> tagliò il cordone ombelicale, lo alzò in aria come <strong>Mosè</strong> e lo diede alla signora <strong>Ruffner</strong>. Fu in quel frangente che, ancora umido, <strong>il blues gli si attaccò addosso</strong>. A volte non si può barare con il proprio destino. Il piccolo <strong>Mason</strong> crebbe a casa di<strong> Mr. Lockwood</strong>. Ci andava ogni giorno dopo la scuola e ci restava tutto il tempo possibile. Dopo quella notte <strong>Robert</strong> era diventato uno di famiglia ed è in quella casa che il <strong>“<i>Flaco</i>”</strong> imparò i primi rudimenti della chitarra e i suoi segreti, conobbe i vari maestri del blues: <b>T-Bone Walker</b>,<b> BB King</b>,<b> Jimmy Reed</b>,<b> Robert Johnson</b>,<b> Elmore James</b>,<b> Chuck Berry</b>,<b> Howling Wolf</b>,<b> John Lee Hooker</b>,<b> Otis</b><b>Rush</b>,<b> Lightnin Hopkins</b> e s’innamorò perdutamente di quel treno di fuoco che era la musica di <b><u>J</u>imi Hendrix</b>. <strong>Mason</strong> era un talento e presto sotto l’aspetto tecnico superò il suo Maestro. Di questo <strong>Mr. Lockwood</strong> ne fu orgoglioso. Oltre ad ascoltare e suonare il blues, <strong>Mason</strong>
guardava il mondo con gli occhi della poesia e, per un ragazzo che si
aggrovigliava nell’animo, fu naturale accostarsi al genio lirico di <strong>Bob Dylan</strong> e del poeta <b>Arthur Rimbaud</b>, ambedue anime inquiete, sovversive e vagabonde che gli fornirono gli spunti necessari per iniziare a scrivere le sue canzoni.<br />
<em><strong>”</strong></em><i><strong>N</strong><b>on parler</b></i><b><i>ò,</i><i> non penser</i><i>ò</i><i> a niente: Ma l</i><i>’amore</i><i> infinito mi salir</i><i>à</i><i> nell</i><i>’anima</i><i> e andr</i><i>ò</i><i> lontano, molto lontano, come uno zingaro nella natura, felice come con una</i></b><b> </b><i><b>donna</b>.</i> (<i>Sensazione</i> – Marzo <strong>1870</strong>).<br />
Ma anche <b>Baudelaire </b>e il conte <b>Lautr</b><b>èamont</b><b> </b>furono importanti nel suo bagaglio culturale. Aveva tracciato quella <strong>analogia tra il blues e la poesia francese</strong> perché reputava che entrambi lenissero il dolore pur biascicando tristezze.<strong> La vecchia strada era piena di polvere che il vento gli sbatacchiava sul viso</strong>. Il sole fece brillare il suo dente d’oro con le iniziali incise. Fu allora che<strong> New Orleans</strong> gli comparve all’orizzonte. Arrotolò i sogni dentro un <em>joint</em>, accese l’autoradio che trasmetteva <strong><em>Truck Stop Girl</em></strong> e spinse sull’acceleratore.<br />
<strong><em>“Portami lungo New Orleans, non tenermi qui, devo suonare il
blues a Bourbon Street, e scacciare suonando questa tristezza
solitaria. Scommetto che i joints stanno piovendo a New Orleans. Se io
rotolo e fumo, bambina, non ho bisogno di dormire. Si dice che le
ragazze pi</em><em>ù</em><em> carine sono in Texas, so che tu sei fuori da questo mondo, ma devo andare a New Orleans e trovare una ragazza creola</em></strong><em><strong>”</strong>. </em>(<em>Down to New Orleans</em>).<br />
Il caldo umido fu rotto da una pioggia a scroscio che gli sembrò un battimani e <strong>Bourbon Street</strong> si spopolò alla svelta. <strong>Mason</strong>
rimise la chitarra nella custodia riparandosi sotto una pensilina.
Aveva scritto diverse canzoni, ma non trovava nessun musicista che
avesse voglia di mettersi in gioco con materiale nuovo. Tutti quelli che
aveva incrociato desideravano suonare solo <em>cover</em> di <strong>Sly And the Family Stone</strong>.
Quando non si ha fretta ci si perde facilmente per la strada… ma questo
non era il suo caso. Irrequieto e curioso inseguiva le parole come se
gli cadessero dal cielo ed era necessario afferrarle prima che
sparissero. Intanto che fremeva di vederle in faccia una ad una quelle
anime della notte ammucchiate giù nel fondo. <strong>Se vuoi una cosa con tutto te stesso, prova e riprova a volte finisce che la ottieni</strong>. Ora aveva una sua band, <b>The Blues Rockers</b>, che aveva scelto con estrema pazienza. Voleva essere certo che i musicisti fossero in grado di catturare quel <em>groove</em> che rincorreva da quando <strong>Mr. Lockwood</strong> gli mise in braccio la sua <b>Gibson Les Paul</b><i>.</i> Non faceva altro che ripeterglielo <strong><em>“trova il groove Mason, il groove”</em></strong>. Cosi, insieme a <b>Chris Clifton</b> alla chitarra, <strong>Mike Stockton</strong> al basso e <b>Willie Cole</b> alla batteria, ogni sera per <strong>200 sere all’anno</strong> si esibisce al <b>Club 544</b> in arroventati <em>set</em>. La mano corre veloce lungo il manico della sua scuoiata <strong>Stratocaster</strong>,
entra ed esce dalla canzone con fraseggi melodici fulminei impasta
perfettamente il blues con il rock’n’roll e canta con una voce
liquefatta alla <strong>Dylan</strong>. La sua innata simpatia gli fa conquistare il pubblico, che ogni notte è sempre più numeroso ed ha il sostegno di <b>Memphis Slim </b>e<b> John</b> <b>Lee Hooker</b>. Alla fine del giro si ritrova sotto il palco musicisti del calibro di <b>Bruce Springsteen</b>,<b> Jimmy Page</b>,<b> Robbie Robertson</b>,<b> Carlos Santana</b>,<b> Stevie Ray Vaughan </b>e<b> Billy Gibbons </b>degli<b> ZZ Top</b>, tutti a vedere il <em><strong>“</strong><strong>nuovo Santo”</strong></em> in città. Quelle canzoni finalmente ottengono un contratto discografico con la <strong>CBS</strong> e un produttore, <b>Rick Derringer</b>.<b><i> </i></b>Giù
nei quartieri di periferia hanno spento le luci e i rinnegati vanno a
zonzo come fossero gli ultimi romantici con in tasca piccoli diavoli blu
da donare alla <strong>rosa di Tralee</strong>, che vestita di bianco è avvinghiata nelle braccia del <strong>Gitano</strong>. Danza, danza, danza la <strong><em>“Serenata”</em></strong> lungo le strade prima che la notte venga su, prima che la notte l’inghiotta per sempre. <strong>Riviste e giornali prestigiosi lo applaudono</strong>. Salta sul treno dei desideri andando in<em> tour</em> con <strong>Jimmy Page</strong>, ma tenendo i piedi ben piantati in terra. <strong>Da viaggiatore solitario sa bene che tutto può svanire in un attimo</strong>… e allora cerca di difendere la sua anima, di seguire la sua strada senza precipitare. Le vendite del disco<strong> “Mason Ruffner”</strong> sono esigue, appena <strong>settemila copie</strong>, ma non si scoraggia. Ha i giusti anticorpi per affrontare la situazione. <strong>Gli uomini di blues hanno la pelle dura</strong>. Durante il<em> tour</em> con <strong>Page</strong>, scrive nuove canzoni e, suonandole, si rende conto che ha del buon materiale, occorre solo metterlo bene a fuoco. La <strong>CBS</strong> gli offre un’altra <em>chance</em>. Questa volta il produttore che lo affianca è un<strong><em> rocker</em> gallese</strong> che conosce la materia. <b>Nick Lowe</b> sa come mischiare rock’n’roll e blues nelle giuste dosi e giocare sulla semplicità che è quasi sempre la carta vincente. La <strong>Stratocaster</strong> di <strong>Mason</strong> viene posta in primo piano, esaltata, rinvigorita e vengono fuori quelle<strong> influenze cajun</strong> che ha assimilato in <strong>Bourbon Street</strong>. Cosi <strong>“Runnin” </strong>diventa un piatto fumante di <strong>gumbo</strong> offerto da <b>Dr. John</b> attraverso <b>Stevie Wonder</b>, cantata alla <b>John Hiatt</b>. <b><i>Gypsy Blood</i></b>, che è anche la<strong><em> title track</em></strong> del film <strong>“Steel Magnolias”</strong>, è magnetica e diretta. Una di quelle canzoni che chiunque pagherebbe per scriverla. Colpisce con<em> licks</em> e <em>riffs</em> che sono una prelibatezza ed è Bibbia per tutti quelli cresciuti nei bassifondi del rock.<br />
“<i><b>Dio sa che sono nato zingaro,il mio cuore non ti pu</b></i><b><i>ò</i><i>rubare,cieco ho messo la mano sulla mia valigia viaggiando con la mente </i><i>è</i></b><i><b> quel sangue ,quel sangue zingaro che mi porta lontano dall’amore ” </b></i>(<em>Gypsy Blood</em>)<i>.</i><br />
Da uomo libero che non ha smesso di andare, vedere e sentire, compone canzoni che sono un attestato all’indipendenza: <b><i>Dancing on top of the world</i></b> e <b><i>Fightin</i></b><b><i>’</i></b><b><i> Back</i></b> parlano chiaro sui suoi propositi. <b><i>Distant Thunder</i></b> è una ballata carica d’amore e poesia, con sullo sfondo <strong>Bob Dylan</strong> e tutte quelle solitudini piene d‘amore e dignità che vagano libere sotto i cieli del mondo. La copertina di <strong>“</strong><b>Gypsy Blood”</b> ritrae <strong>Mason Ruffner</strong> come se fosse il <strong>Brando</strong> di <strong>“Fronte del Porto”</strong> o il <strong>James Dean</strong> di <strong>“Gioventù Bruciata” </strong>e
alla fine il disco fa breccia nei cuori di chi ha giocato d’azzardo
tutto quello che aveva ed ha preso la strada dell’inquietudine.
Luccicando sotto la luna come una moneta nuova, gettando via gl’incubi
rimasti a dondolare nel cielo. Dopo l’uscita del disco <strong>Mason</strong> va in<em> tour</em> come spalla agli <b>U2</b> e <b>Crosby Stills & Nash</b>. Viene chiamato da <b>Daniel Lanois</b> per lavorare nel suo disco d’esordio <strong>“Acadie” </strong>e corona il sogno di una vita suonando per sua maestà <strong>Bob Dylan</strong> in <strong>“Oh Mercy”</strong>, disco da queste parti molto amato. Nello stesso anno apre i concerti di <b>Ringo Starr</b>. Poi stacca la spina e fugge via. Il rettifilo era infinito. <strong>Superò una fila di autocarri colorati e rallentò</strong>.
All’incrocio vide le strade bianche di polvere correre parallele, non
ci pensò due volte a svoltare. Percorse diverse miglia, poi si fermò in
una <strong>pompa di benzina</strong>, comprò delle birre e ne stappò una. Non provava nostalgia o rimpianti, voleva tornare a casa perché <strong>adesso si trattava di decidere che direzione prendere</strong>. Dopo un periodo di tregua, abbastanza lungo da farsi dimenticare, ritorna con un album indipendente,<strong> “Evolution”</strong> che è un <em>mix</em> dei due precedenti, con la novità che lo si può ascoltare anche in versione acustica. <strong>“Evolution”</strong> contiene una canzone, <b><i>Angel Love</i></b>, di cui <b>Carlos Santana</b> si innamora e <strong>Mason</strong> riparte in <em>tour </em>ma,
come tutti i cani sciolti, dopo un po’ ritorna a vagare per le sue
strade secondarie dove il caldo e l’afa ammazzerebbero chiunque si
avventuri, dove il cielo è una cascata di stelle e la terra risplende in
tutta la sua nuda bellezza. Scrive ancora canzoni che si rifanno alla <strong>tradizione dei padri secolari del blues</strong> e a <strong>Memphis</strong> incide un nuovo album dal titolo emblematico,<strong> “You Can’t Win”</strong>, con una band, a suo dire, la migliore che abbia mai avuto. Ad oggi è la sua ultima fatica discografica.<br />
<strong>“</strong><i><strong>T</strong><b>ienimi la tua luce
addosso,vengo a casa, la mia anima urla ,il mio cuore mugola ho visto le
ali della pazzia ,tutto da lavare via, ma cose cosi’ qui non accadono</b></i><b>“. </b>(<i>Keep on your light one for me</i>)<i>.</i><b><i><br />
</i></b>Le luci dei lampioni sono spente e nell’oscurità qualcuno
barcolla. I fuggiaschi hanno vestiti a coda di rondine. E’ quel buco nel
cielo, è la follia che ci fa andare avanti sin da quando giovani e
incoscienti ci spingiamo nel baratro dei sentimenti. <strong>Stavamo seduti su una panchina sulla riva del Mississippi</strong>, in
faccia aveva stampato quel sorriso che gli ballonzolava. Quel sorriso
adolescenziale animava chiunque lo incontrasse, era contagioso e
rilassante. Nonostante il mondo lo ignorasse come musicista,<strong> lui era felice</strong> per come erano andate le cose ed era sempre pronto a cantare e suonare, sera dopo sera, dando il massimo di sé. <strong>Me lo disse mentre guardavamo il Mississippi scorrere lento</strong>. Solo una cosa aveva nascosto nel ripostiglio dell’anima, e questo lo aveva preservato da tutto:<strong> l’innocenza</strong>. L’innocenza di quando, bambino, guardava il mondo meravigliandosi.<strong><em> “Ancora oggi, che di strada ne ho percorsa tanta, mi sento così”</em></strong>.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico </span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXnVd-hDfGRpKnQd_LbZiURWygl9Y8DPXmVa1fo3lLloBdWaGVpbg-DvdJRcLhhgNkgVgk25all-3gRFFrKHDYINbGcJyA-U1LWeFqQ8oXwlFSPgMo5oZ8xH3koNbHvx2srJcBrWU8VfQ/s1600/sangue-zingaro-bartolo-interno1-giusto.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1086" data-original-width="768" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXnVd-hDfGRpKnQd_LbZiURWygl9Y8DPXmVa1fo3lLloBdWaGVpbg-DvdJRcLhhgNkgVgk25all-3gRFFrKHDYINbGcJyA-U1LWeFqQ8oXwlFSPgMo5oZ8xH3koNbHvx2srJcBrWU8VfQ/s640/sangue-zingaro-bartolo-interno1-giusto.jpg" width="452" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><br /></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-50711527321608043322018-03-11T23:06:00.002-07:002018-03-11T23:06:48.162-07:00Facciadiluna<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<strong><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjoG-QsJwtNuG_JYziscoyp6oC2sdnBwdnjr0_1oZ8mKmOs82cUcUmouGXWnIpFHI3p7LxCIZQyr-bvste3EUMVE8DssGzlatbSWld0r6AZhUdkZ6NDvCKgt6p-mGMGYyB-d53yQnp5zE/s1600/facciadiluna-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjoG-QsJwtNuG_JYziscoyp6oC2sdnBwdnjr0_1oZ8mKmOs82cUcUmouGXWnIpFHI3p7LxCIZQyr-bvste3EUMVE8DssGzlatbSWld0r6AZhUdkZ6NDvCKgt6p-mGMGYyB-d53yQnp5zE/s640/facciadiluna-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></strong></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Cucito con le ombre della notte, scrutava la strada che si dipanava davanti ai suoi occhi</strong>. La luce del quadrante della radio illuminava di arancione l’abitacolo, e <strong>Facciadiluna</strong>
pensò a dove potersi rifugiare. Tornare indietro non gli era più
possibile, era finito sotto tiro e quella pausa di sospensione per
l’evento finale lo aveva del tutto inghiottito in un respiro profondo.<strong> Alle volte la vita è davvero complicata</strong>, pur rompendosi in brandelli quel faro di luce pare che resti sempre acceso sulle nostre piccole miserie. <strong>La radio stava per trasmettere musica per i perdenti</strong>, così annunciò lo <em>speaker</em> che prosegui dichiarando che quella notte era a tutti loro dedicata. <strong>Facciadiluna</strong> strizzò gli occhi per non farsi sopraffare dal sonno e accelerò leggermente. <em><strong>“</strong></em><b><i><span lang="EN-US">If you ever change your mind. About leavin’, leavin’ me behind. Oh, oh, bring it to me. Bring your sweet lovin’. </span></i></b><b><i>Bring it on home to me, oh yeah”</i></b>. Aveva cercato in tutti i modi di tenere lontano il buio, ma il buio era arrivato ringhiando. Forse<i> </i>occorre
davvero avere molta attenzione e parsimonia per estinguere una vita.
Molta di più di quella che le circostanze casuali ci mettono per
appiccarne la scintilla. <strong><em>“</em></strong><b><i>E cos’hai alla
fine del giorno? Cos’hai da portar via? Una bottiglia di whisky e un
nuovo set di bugie persiane alla finestra e un dolore dietro agli occhi”</i>. </b>L’aveva
ritrovato per caso quel vecchio portafoglio, come in una caccia al
tesoro, rovistando nella stanza, era saltato fuori e insieme a questo <strong>quella lettera d’amore mai spedita</strong>.
Ci aveva infilato le mani tastando dentro quel rigonfiamento ed era
venuta alla luce ingiallita e spiegazzata. Se la passò tra le mani come
un mazzo di carte finché il suo viso non diventò bianco come le pareti
della stanza. Eccola lì, quasi fosse stata la cosa più importante del
mondo. Indietreggiò alla maniera di un ubriaco, inciampando sul tappeto,
e gli parve di sentirsi come se l’avesse finita di scriverla in
quell’attimo. <em><strong>“</strong></em><b><i>Un Romeo pazzo d’amore
canta una serenata dalla strada. Lasciando tutti malinconici con la
canzone d’amore che ha fatto. Trova un lampione fa qualche passo fuori
dall’ombra dice qualcosa del tipo:”Tu ed io, piccola, che ne dici?” </i></b>Concentrato in quei pensieri prese in pieno la buca sbattendo il muso sul manubrio. <strong>Accostò sul ciglio della carreggiata e controllò che l’auto non avesse subito danni</strong>.
La sorte questa volta era stata indulgente. Risalì in macchina e
ragionò che era molto meglio togliersi dalla strada perché stava
rischiando più del dovuto. Anche se intorno non vi è anima viva, quando
te la svigni la prudenza non è mai troppa. La camera dell’<strong>hotel Imperial</strong>
era come quella di tante pensioni a buon mercato sparse per il mondo.
Un letto di legno con la formica marrone scorticata e annerita dal
tempo. Una lampadina sotto un paralume di lamierino e un armadio di
legno lo stesso colore del letto. Si accomodò sulla sedia e si accese
una sigaretta. Poi si tolse il cappello.<b><i> “Non mi serve la tua
compassione chi fugge dice che le strade non sono più per i sognatori I
cacciatori di taglie e i fantasmi che vendono ricordi vogliono anche
loro una possibilità”</i></b>.<b><i> </i></b></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Dischiuse gli occhi in preda agli incubi che era ancora in quella stanza orribile con la luce della lampada accesa. <strong>L’aveva sognata che lo accoltellava</strong>,
aveva visto le sue mani e la lama del coltello trafiggerlo. Il suo
vestito si era macchiato del sangue che davanti usciva copioso dal suo
ventre. <strong>Lei continuava a fissarlo con quegli occhi freddi aspettando solo di sferragli il colpo di grazia</strong>.
Erano stati insieme molte volte, avevano fatto l’amore in maniera
selvaggia, e anche feroce, fino a perdersi… ma la paura gioca brutti
scherzi e riesce a trasformare due amanti in perfetti estranei. <strong>Quello era il suo unico amore, un amore alla rovescia</strong>. Era una solitudine senza fine, la loro. <strong><em>“Melanie
Jane non proverà dolore. Triste triste. Occhi tristi, viso triste.
Triste triste a casa tua. Pensavo di sapere tutto quel che c’era da
sapere E io ti amo ancora. Ti amo ancora”. </em></strong>Dopo un po’
l’amore, come molte altre cose, finisce di ardere, rimuginò azionando la
manovella dello sciacquone del bagno e guardando l’acqua scendere giù
nel buco nero. Prima di rimettersi a letto, inghiottì un lungo sorso di<em> bourbon</em>
dalla fiaschetta. L’alcol era la sua cintura di sicurezza, il suo
antidoto per il panico. Solo che andando avanti in quel modo alla fine
la sua mente si era annebbiata e non sapeva più come distinguere i sogni
dalla realtà. <strong><em>“</em><em>A volte sono sopraffatto. quando ci
ripenso facevamo l’amore sull’erba verde dietro lo stadio con te, mia
ragazza dagli occhi castani. Tu, mia ragazza dagli occhi castani”</em></strong>.<strong><em> </em></strong></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Restò
riverso sul letto in preda alla confusione senza arrivare in alcun
modo a fare chiarezza dentro di sé. La radiolina accesa sembrava che gli
stesse parlando e tastandogli il polso con il sax di <strong>John</strong> <strong>Coltrane</strong> che suonava <strong><em>Violets for Your Furs</em></strong>.
All’improvviso ti aggrappi ad una speranza, ad una nuova possibilità di
salvezza. Non tutti lo sanno ma, mentre si affonda, si continua a
nuotare muovendo spasmodicamente i piedi e spostandosi dal nulla verso
il nulla. È banale dirlo, ma nasciamo come moriamo, sempre soli. <strong>La roba doveva arrivare lunedì notte</strong>, ma un imprevisto fece rimandare la consegna. <strong>Gino Il Verme</strong>
lo avverti dopo due giorni dall’arrivo del carico, inviandogli un
messaggio sul telefonino con cui gli indicava anche l’ora e il luogo
dell’appuntamento. Il giorno convenuto si preparò di buon’ora ed uscì da
casa prima del solito. Aveva come un presentimento e gli era venuta
voglia di farsi un giro in città. <strong>Non aveva paura per quello che avrebbero dovuto fare, non aveva nessuna paura delle sue azioni</strong>. Erano altre le cose che lo annientavano, che lo lasciavano annichilito e senza speranza. <strong>Continuava a correre, correre, senza fermarsi</strong>.
Era quello il suo vero problema: raccogliere i cocci. Quel gesto lo
avrebbe semplicemente distrutto. Come una vecchia pendola con il
quadrante rotto ma con i meccanismi intatti, seguitava a girare nel
vuoto. Lo <em>speaker</em> con voce gentile presentò un nuovo brano e un ondata di gelo lo percorse. <em><strong>“Sono l’</strong><strong>innocente
spettatore Mi sono in un certo modo bloccato tra l’incudine e il
martello E sono giù nella mia fortuna, sì sono in basso nella mia
fortuna… Beh io sono giù sulla mia fortuna mi sto nascondendo in
Honduras sono un uomo disperato Invia avvocati, armi e denaro la merda
ha colpito il ventilatore”</strong></em>.<strong> </strong></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Stavano nascosti da tutte le parti i <strong>piedipiatti</strong> quella notte. <strong>Avevano circondato il porto e acceso i fari e loro erano finiti in trappola come dei babbei</strong>… ma qualcuno di certo aveva parlato, era tutto sbarrato tranne quella via di fuga che in pochi conoscevano, <strong>un tunnel sotto la banchina del porto</strong>. Gli agenti spararono in aria qualche colpo di pistola, ma l<strong>a banda era composta da gente dura e spietata</strong>,
abituata a ben altro per lasciarsi intimorire da quattro botti esplosi
al cielo come alla veglia del santo patrono. Stava quasi per incanalarsi
per poi sparire nel cunicolo, quando l’agente gli urlò da dietro <em><strong>“non ti muovere, sei sotto tiro, fermati cane rognoso!”</strong></em>.
Tenendo le mani larghe si girò lentamente. Poi per un lungo istante si
guardarono in faccia. Cosa poteva fare adesso? Dove poteva scappare con
quella luce negli occhi che lo accecava e la canna della pistola che lo
mirava? Tornare dentro sarebbe stato peggio di morire e allora era
meglio prendersi un colpo di rivoltella dritto in mezzo agli occhi,
ragionò con distacco. <strong><em>“</em><em>Dici ancora le tue preghiere
tesoro mio? Vai ancora a dormire la sera? Pregando che domani tutto
andrà bene. Ma i domani si mettono in fila In fila uno dopo l’altro Ti
svegli e stai morendo Non sai nemmeno per che cosa”</em></strong>. Gli
bastò quell’occhiata per capire che quel gonzo era un pivello e che
probabilmente quella sera era la sua prima volta. Il rischio che
correva, però, era alto. <strong>Il tipo avrebbe potuto fare fuoco per un nonnulla</strong>…
ma proprio di questo non è che gliene importasse molto. Se lo era
chiesto spesso per quale ragione i suoi pensieri non erano mai stati
lucidi. Di sicuro lo avrebbero aiutato a sentire meglio quella presa,
agguantarlo e spingerlo verso il baratro. O forse era sempre stato solo
un morto che camminava dentro la vita! <strong>Con un balzo improvviso disarmò il poliziotto</strong>, gli sferrò un colpo sulla nuca, ma solo per stordirlo e avere il tempo di scappare. Non voleva fargli troppo male, <strong>era solo un ragazzino che aveva visto troppi telefilm alla tv</strong> e di certo a casa c’era qualcuno in ansia che lo stava aspettando. Alle <strong>dodici e dieci</strong> della notte sgattaiolava nel buio e in quel momento alla sua stazione radio preferita ascoltavano: <strong><em>Lonesome Dark-Eyed Beauty</em></strong>. <strong><em>“Ad
una solitaria bellezza con gli occhi scuri, su una strada lontana. Mi
sono svegliato tardi da un sogno l’altra notte e volevo dirti… quando ti
senti sola, quando le pareti si rompono intorno a te, quando hai
bisogno di qualcuno che ti aiuti a guarire il dolore dentro il tuo
dolore”</em></strong>.<strong><em> </em></strong></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Lei si era girata per andarsene quando aveva capito di che pasta era fatto. Lui l’afferrò da dietro le spalle, ma era come <strong>un gesto di preghiera, di supplica, affinché non andasse via</strong>. Un tentativo di <strong>tenere con sé l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo</strong>. Erano due strade che si erano incrociate e per un po’ diventate una cosa sola… ma <strong>quella maledetta paura li aveva separati</strong>. Quella paura di non farcela, di dovere giustificare sempre tutto e tutti, si era trasformata in rabbia e, man mano, in odio. <strong><em>“Stava piovendo fin dall’inizio</em></strong><strong><em>
ed io ero lì che morivo di sete… così sono entrato e la tua antica
maledizione ferisce… ma quel che è peggio è questo dolore. Non posso
restare qui, è chiaro che proprio non ci riesco”</em></strong>.<strong><em> </em></strong></span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Riempì il bicchiere fino a tre quarti. La radio a pile sempre accesa sul comodino borbottava un blues di <strong>John Lee Hooker</strong>. L’avevano visto insieme quel film di <strong>Jean-Luc Godard</strong>, <strong>“Fino All’Ultimo Respiro”</strong><em>,</em> uno dei titoli mitici della <strong><em>Nouvelle Vogue</em></strong>. Gli era sembrato di assomigliare a <strong>Michel Poiccard</strong>, il protagonista. Un pazzo che per sopravvivere si era tuffato nella notte mescolando realtà e sogni. <strong>Una vita che aveva un doppio fondo</strong>, di chi vuol vivere senza limiti e si spinge sempre oltre, fino ad azzerarsi. Proprio come era successo a lui. <strong><em>“Lampioni
brillano lungo le strade, un inquietante pomeriggio viola di ladri e di
sbirri che sempre ti fermano e ti chiedono che cosa stai facendo”. </em></strong>Pensavano che fosse stato <strong>Facciadiluna</strong> a fare quella <strong>soffiata alla polizia</strong>… l’unico della banda a non essere stato arrestato quella notte al porto. <strong>Adesso gli davano la caccia amici e nemici</strong>,
tutti insieme… ma da quando quel giorno lei lo aveva lasciato lì da
solo a guardarla andare via, il resto non contava più nulla. </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Faceva strada con la radio accesa e la musica di <strong>Eddie Cochran</strong>
a palla. Dopo la curva a gomito guardò la linea bianca di mezzeria.
Abbassò il finestrino ed accese una sigaretta. Nella brezza gentile
sentì l’odore del suo corpo perforargli le narici. <strong>Ormai lei era un’ossessione</strong>, forse era questo il motivo del suo ritardo ad agire. <strong><em>“</em><em>I’m
gonna raise a fuss, I’m gonna raise a holler. About a workin’ all
summer just to try to earn a dollar. Every time I call my baby, and try
to get a date. My boss says, “No dice son, you gotta work late”
Sometimes I wonder what I’m a gonna do. But there ain’t no cure for the
summertime blues”</em></strong>. Sul rettilineo il <strong>posto di blocco</strong> della <strong>polizia</strong> era ben visibile. <strong>Facciadiluna</strong> scrutò il cartello per capire dove si trovasse.<strong> Era nuovamente pronto a colpire senza esitazione</strong>. Proseguì a rilento fino a che non arrivò a cento metri da loro. <strong>Quando gli intimarono di fermarsi afferrò la pistola e, brillando di pioggia, diede gas</strong>. Gli<strong> agenti</strong> non ebbero alcuna esitazione e <strong>spararono diverse raffiche di mitra</strong>. L’auto sbandò a destra e poi a sinistra per schiantarsi dentro un fosso. I due <strong>poliziotti</strong> si avvicinarono guardinghi, schiusero la portiera e con le torce illuminarono l’abitacolo. <strong>Sul quel volto solo un crespo sorriso</strong>. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico</span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-11114430772212068222018-03-08T08:43:00.001-08:002018-03-08T08:43:23.901-08:00Giù Nel Buco<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgxmlCmxXWPQRXUUnTAthPylIQQUI1xUQK9R6zfFPt1AHSkV4lLJaGvA29fRny98hSyN6X-mY0iMCP07RmGhtq6fqlCxqEI3f2NxtzqAVZTm3_odwUKSJLOPetWx5AdCB4R78WUBTOfSfM/s1600/femmefatalesmokes.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="486" data-original-width="340" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgxmlCmxXWPQRXUUnTAthPylIQQUI1xUQK9R6zfFPt1AHSkV4lLJaGvA29fRny98hSyN6X-mY0iMCP07RmGhtq6fqlCxqEI3f2NxtzqAVZTm3_odwUKSJLOPetWx5AdCB4R78WUBTOfSfM/s400/femmefatalesmokes.jpg" width="278" /></a><span style="font-size: medium;">Lei si accese una
stupida sigaretta, di quelle lunghe e sottili. Aspirò un paio di boccate
nervose e gettò il fumo dritto sul mio viso. Le luccicavano gli occhi
per la rabbia. Si avvicinò ancor di più e attaccò: - Sei un piccolo
uomo! Dopo averti dato tutto, levandoti dalla merda, te vieni fuori con
questa storiella che le nostre strade non portano da nessuna parte. Hai
sbagliato i conti! te la farò pagare. E con gli interessi, una volta per
sempre.</span><span style="font-size: medium;">Il
tono duro e minaccioso mi diceva che era nel panico più totale. Vedeva
la sua preda sfuggirgli e questo non poteva tollerarlo. Si dimenava,
urlava, voleva tenere ferme le redini del gioco, come sempre aveva fatto
o come pensava che fosse. La guardai ed anche così infuriata era bella
ed attraente. Ma ero stanco di fingere, di mentire. Come se poi fosse
così facile mentire a se stessi. Da un pezzo l’amore si era corroso il
resto era un dettaglio, uno stupido dettaglio da passarci sopra, da
annientare. Compreso io. </span><span style="font-size: medium;">Probabilmente
avevamo corso per la stessa meta, ma con il passare del tempo le crepe
del nostro rapporto si erano allargate a un punto tale che era finito in
sala di rianimazione, agonizzante.Ad
Emma tutto ciò non interessava. Ne avevamo parlato spesso negli ultimi
tempi ma, abilmente, sapeva far cadere il discorso. Ciò che le premeva
era una cosa sola: il parere del suo entourage. Non poteva presentarsi
ai loro occhi come una donna sconfitta. Proprio lei, brillante avvocato,
sedotta e abbandonata da uno squattrinato, un fallito, un musicista del
cazzo, come usava dirmi quando voleva ferirmi. Nel suo codice non era
ammesso. Ma quella solitudine mi stava uccidendo, dovevo darci un taglio
e provare a salvare quantomeno quel che restava di me. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: medium;">-
Sei un bastardo-, continuò feroce e cinica, - Ma chi credi di essere!
Non avendo nulla da rimproverarmi glielo dissi, con una calma che la
fece andare ancora più in bestia. Avrebbe voluto la battaglia, ma non le
offrivo il fianco; allora mi colpì con un pugno. La guardai e, con
quella stessa calma, le dissi di non farlo mai più. E glielo ripetei due
volte. Ma non mi ascoltava, non l’aveva mai fatto prima, perché avrebbe
dovuto farlo adesso che eravamo alla resa dei conti. Tutto il suo corpo
sprizzava odio e disprezzo; aveva il sangue agli occhi e mi colpì
nuovamente con più violenza. Le diedi uno schiaffo, un solo schiaffo in
pieno viso. Barcollò e cadde battendo la testa sullo spigolo del
mobile. </span><span style="font-size: medium;">Il
mio compagno di cella restò qualche attimo in silenzio poi mi augurò la
buonanotte dicendomi: - Dormi Lee, domani sarà una dura giornata. Mi
avevano trasferito in quel penitenziario dopo aver tentato l’ennesima
fuga. Il trasferimento era una punizione e quello era un carcere di
massima sicurezza, uno dei più duri a cui ero approdato. Ma ero stato
fortunato a finire in cella con Teo perché a volte, raramente ma accade,
si incontrano persone che sin dalla prima occhiata si percepisce che
sono sulla stessa lunghezza d’onda. Con Teo fu proprio cosi. Non appena
varcai la soglia della cella, capii immediatamente che mi sarei potuto
fidare di lui. </span><span style="font-size: medium;">Mi
svegliai di soprassalto mentre la guardia urlava: - Sveglia! Alzatevi!
Mi tirai su e rifeci il letto. Una volta terminato, uscimmo dalla gabbia
e camminammo in fila indiana. Attraversammo il corridoio fino alla sala
colazione. Stavo imparando le regole, perché ogni carcere ha le sue
regole, a cui devi attenerti se vuoi sopravvivere. Lo avevo appreso a
mie spese. Ci sedemmo nel mezzo del refettorio , di fronte a cinque
detenuti che mi osservarono senza mai rivolgermi la parola. Era il
“Consiglio di Amministrazione”, “i fine pena mai”, gli ergastolani. Teo
fece le presentazioni, spiegando il motivo per cui ero dentro; il mio
biglietto da visita alla comunità. Tra l’altro fu anche la prima cosa
che mi chiese quando varcai la porta della cella. </span><span style="font-size: medium;">Teo
era un oriundo francese, medico e professore universitario. Un
intellettuale, un uomo leale e corretto, come se ne trovano pochi che,
un bel giorno, si era convertito all’eco-guerriglia. Fondò un quartetto,
chiamato “i Sabotatori”, un gruppo di visionari romantici decisi a
salvare il mondo dagli scempi ambientali voluti dal governo e
dall’industria. Aveva fatto saltare decine di mostruosità restituendo
alla natura ciò che l’uomo ingordamente le toglieva. Lo catturarono i
federali a St Louis insieme alla sua compagna, anch’essa sua complice,
prima che portasse a termine il progetto più ambizioso: far esplodere la
diga del Glen Canyon, che aveva provocato cambiamenti climatici e
geologici irreversibili in tutta l’Arizona.</span><span style="font-size: medium;">Nei
tre anni passati insieme diventammo amici inseparabili. In quella
prigione, se non ci fosse stato Teo, sarei impazzito. Anche adesso,
mentre guido lentamente su questa vecchia pista di polvere e sudore,
battuta da un venticello tiepido, ho il cuore a brandelli e un immenso
vuoto. Teo continua a mancarmi maledettamente ogni giorno che passa. Mi
mancano le nostre conversazioni, il suo romanticismo squilibrato, la sua
generosità, il suo sorriso semplice e schietto.Nel penitenziario era
amato da tutti. Anche le guardie più “ostiche” lo stimavano. Mai uno
scatto di rabbia o un gesto che potesse offenderle. Non potevi non
volere bene a Teo. Ma a volte i sogni muoiono all’alba. E’ ciò che
successe in quella mattina d’estate. Una debole luce filtrava da sotto
la porta della cella. Mi svegliai agitato, quasi stessi soffocando nel
sonno. Guardai verso la sua branda per chiedergli aiuto, ma non lo vidi.
Appena il tempo di abituare gli occhi alla penombra e lui era lì che
penzolava dal soffitto insieme alla lampadina. Restai nel mio lettino,
accucciato e annichilito, con i brividi di freddo che mi scorticavano le
ossa, incapace di qualsiasi azione. Da quel momento in poi nel carcere
nessuno fu più lo stesso. Su tutti calò una tristezza che non andò mai
più via. Non ricordo altro dei mesi che seguirono la sua scomparsa. Non
sentii più fame, né freddo, né sonno. Ero ridotto uno zombie. E’ come se
il mio cervello si fosse bloccato e avesse cancellato tutto. Fino al
giorno in cui riuscii ad evadere e sparire ero ad un passo dal fare la
sua stessa fine. “I fine pena mai” vennero in mio aiuto. </span><span style="font-size: medium;">Quando
mi resi conto che Emma non si sarebbe più rialzata chiamai la Polizia e
aspettai il loro arrivo, seduto sui gradini del salone. I poliziotti
giunsero a sirene spiegate, entrarono in casa e fecero un veloce
sopralluogo. Dopo, mi ammanettarono e mi portarono al comando. Sbrigate
le formalità di rito, mi interrogarono. Avrebbero voluto una
confessione, dato il blasone della vittima, ma non caddi mai in
contraddizione, perché semplicemente raccontavo la verità. Risposi alle
loro domande, anche le più scabrose, spiegando che era stato un
incidente, un fottuto banale incidente. Lo gridai più volte, ma nessuno
mi ascoltava, proprio come lei. Ero l’ultimo della fila. A chi vuoi che
importi di un musicista del cazzo!La mattina dopo, ormai sfinito, con
gli occhi che cadevano dalle palpebre, firmai il verbale della mia
deposizione e mi chiusi nel silenzio più totale. Non parlai più neanche
al processo. Non ne valeva la pena. Lo sbarramento di fuoco innalzato
dalla famiglia di Emma contro di me avrebbe distrutto chiunque. E cosi
fu.</span>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /><br /><span style="font-size: medium;">Bartolo Federico </span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/1wZZu93VsNA/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/1wZZu93VsNA?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: medium;"> </span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-74902528386898952472018-03-06T11:51:00.003-08:002018-03-06T11:51:57.108-08:00Strade Polverose<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgsBGABb9pnJSlub-xCJ0kS8nSTEFtZp2qX-f86PYyYXWTqAU8QJ400d5OR63nSh6x5HyfPePvUwOlrxjS00gMcbfARSvCykrJXdRHUI4LjyYTViQBUWqJPiuhskyhcS3RAs1FYNBftKKc/s1600/news131259.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="394" data-original-width="700" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgsBGABb9pnJSlub-xCJ0kS8nSTEFtZp2qX-f86PYyYXWTqAU8QJ400d5OR63nSh6x5HyfPePvUwOlrxjS00gMcbfARSvCykrJXdRHUI4LjyYTViQBUWqJPiuhskyhcS3RAs1FYNBftKKc/s640/news131259.jpg" width="640" /></a></div>
<br />
Lentamente riprenderò a scrivere, perchè le strade polverose sono le uniche che posso ancora percorrere. Insieme ai miei amici lupi .<br />
<br />
Bartolo Federico<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/pmVrXpqGRKM/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/pmVrXpqGRKM?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<br />Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-11135721893662169352018-02-25T22:25:00.002-08:002018-02-25T22:25:43.664-08:00La Terra Degli Uccelli<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyOQZLAKylmXJaAzeAh4QQxVXso8u6zo9L51YdwNWO6Y3jJ9jfxn2z2KIs8pn0HghxPVcVYxFw3jFs07e72Sq_1nYybAc_MP7E18HHNg5nH89GZo2wRQo1WIDdPt7YpBzHScwJ1uD4PcE/s1600/la-terra-degli-uccelli-bartolo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="543" data-original-width="768" height="452" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyOQZLAKylmXJaAzeAh4QQxVXso8u6zo9L51YdwNWO6Y3jJ9jfxn2z2KIs8pn0HghxPVcVYxFw3jFs07e72Sq_1nYybAc_MP7E18HHNg5nH89GZo2wRQo1WIDdPt7YpBzHScwJ1uD4PcE/s640/la-terra-degli-uccelli-bartolo.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>La radio che possedevo quando ero ragazzo era un macinino</strong>,
un ferrovecchio, che sputava musica dalla mezzanotte alle sei del
mattino… e spesso era grande musica. Era tramite quell’aggeggio che mi
arrivavano le emozioni più grandi che avessi mai provato. Me le ricordo
ancora quelle ore nel cuore della notte, sdraiato sul mio letto. <strong>Era come se ci facessi l’amore con la musica</strong>. Era lei la mia amica speciale. Mi fu anche chiaro che non sarei mai diventato un<strong> avvocato</strong>, un <strong>dottore</strong>, un <strong>politico</strong>, e neanche un <strong>commercialista</strong>. <strong>La musica aveva intaccato la mia anima</strong>,
accomodandosi in quelle profondità dove nessuno potrà mai arrivare. Mi
ha cambiato per sempre la musica. Adesso sdraiato sul mio letto fisso
delle ombre a forma di palla. Rimango a fissarle con un occhio aperto e
l’altro semichiuso. Il suono di quelle vecchie melodie alle volte sembra
svanire… ma poi come un soffio spinto dal vento, ritornano. Lasciandomi
nell’ombra. <strong>Patti Smith</strong> durante gli <strong>anni sessanta</strong>, ascoltava musica attraverso le<strong> radio Fm</strong> che trasmettevano <strong>Wilson Pickett</strong>, <strong>James Brown</strong>, <strong>Smokey Robinson</strong>,<strong> Otis Redding</strong>… ma come lei stessa ha raccontato furono i <strong>Rolling Stones</strong> la sua più grande influenza musicale, per il fatto che <strong>Mick Jagger</strong>
riuscisse a muoversi sul palco come se fosse un nero. Questo la colpirà
profondamente, tanto che la reazione che ebbe di fronte alla tv
guardandoli per la prima volta, fu quella di bagnarsi le mutandine. Poi
anche <strong>Little Richard</strong>, <strong>Elvis</strong>, <strong>Chuck Berry</strong>, sono stati suoi punti di riferimento, con <strong>Jimi Hendrix</strong> e <strong>Jim Morrison</strong>. Nell’estate del <strong>1970</strong> i <strong>Velvet Underground</strong> si esibirono per l’ultima volta al <strong>Max’s Kansas City</strong>, un locale di<strong> New York</strong>, e <strong>Patti Smith</strong> era tra il pubblico ad assorbire energia. In quel periodo nella <em>grande mela</em>, si mettevano in bella mostra anche due band provenienti da <strong>Detroit</strong>. Due complessi che <strong>si muovevano sui sentieri della passione e dell’azzardo mescolando la musica alla vita</strong>, suonavano un rock violento e trasgressivo, antagonista al potere. <strong>Patti Smith</strong> non sfuggì al fascino animalesco ed eccitante degli <strong>MC5</strong>, e dei dissacratori <strong>Stooges</strong> di <strong>Iggy Pop</strong>.
La loro musica diretta e convulsa, insieme all’approccio selvaggio che
avevano dal vivo, influenzeranno profondamente il suo linguaggio sonoro.
Conoscevo tutti i passaggi, i respiri, le pause di <strong>“Absolute Live”</strong> dei <strong>The Doors</strong>. Anche gli scricchioli, di quel <strong>doppio live</strong> pubblicato nel <strong>1970</strong> che conteneva una serie di concerti che il gruppo aveva tenuto in giro per gli <strong><em>States</em></strong>, fra l’agosto del <strong>1969</strong> e giugno del <strong>1970</strong>. Quel disco si prendeva cura di me, nel freddo e nel buio. Era come se mi sedessi sul lettino dell’analista. <strong>Riusciva a fare uscire il buono e il cattivo, che covavo dentro</strong>. Almeno fin quando mia<strong> madre</strong> non entrava nella stanza urlando perché assordata e stravolta, da quella musica suonata a tutto volume. Facevo un balzo negli <strong>anni sessanta</strong>, la <strong>California</strong>, i <strong><em>figli dei fiori</em></strong>. Quello era un volantino dell’<strong>esistenza emancipata</strong>. Collanine e bracciali. L’allargamento della coscienza, attraverso l’uso di acidi lisergici. La <strong>meditazione</strong>. Le <strong>filosofie orientali</strong>. La <strong>sperimentazione</strong>. La <strong>sessualità</strong>, e la <strong>trasgressione</strong>. Un bisogno vero di liberazione. <strong>Per me Jim Morrison era un sogno</strong>. Una spina nel fianco al sistema, una provocazione continua. Un’immaginazione reale. Un <strong>sicario delle buone maniere</strong>.
Si spingeva e mi spingeva, oltre il muro. Dall’altra parte del mondo.
Adesso lo capisco anche meglio che era il suo delirio a tenermi vivo
come non mai. Perché <strong>quando sei debole ti lasciano solo, e tutto va a rotoli</strong>. Un concerto dei<strong> Doors</strong> era una cerimonia pubblica, un atto sociale, un’azione reale. Arte e vita, tutto messo insieme. <em><strong>“Do You Feel Alright”</strong> </em>urla <strong>Jim</strong> dentro il microfono. La gente gli risponde con gridi d’eccitazione. Ecco che <strong><em>Who Do You Love</em> </strong>parte con i suoi ritmi primitivi. Musica scarna ed emotiva, avvolgente e lirica, spesso anche improvvisata. <strong>Visioni e poesia</strong>. Questo fu il rock dei <strong>Doors</strong>. Nient’altro. <strong>Patti Smith</strong> in uno dei suoi tanti viaggi fatti in <strong>Francia</strong>, si recò al <strong>cimitero parigino</strong> dov’è sepolto<strong> Morrison</strong>. S’immaginava di trovarci energia, ma su quella tomba non c’era altro che sporcizia e fango. Alla fine del <strong>1976</strong> </span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">esce </span><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">“Radio Ethiopia”</strong>,<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> corredato da una bellissima copertina, rigorosamente in bianco e nero. Un disco che è l’evoluzione di <strong>“Horses”</strong>. Perché è solo con questo disco che il gruppo ha un’anima, ed è diventato un vero <em>ensemble</em>. <em><strong>“</strong></em></span><em><strong style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">L’unità è la nostra droga</strong></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><em><strong>”</strong></em> disse <strong>Patti Smith</strong>.
La musica adesso esce allo scoperto libera, fluida, e si fa linguaggio
di strada nell’interpretare i sogni e le speranze, di quella <strong>nuova generazione di ribelli</strong> che scalpitano per le strade di <strong>Londra</strong>… ma è anche una <strong>discesa nell’abisso</strong>,
il veicolo primario per trasmettere messaggi, introdurre idee,
informazioni. Per questo all’interno del disco si trovano una serie di
consigli dati dalla stessa <strong>Smith</strong>, per usare la musica. <strong>“Radio Ethiopia”</strong> brucia parole di fuoco, e <strong>parla una sola lingua universale</strong>… non ha strutture rigide e trasmette rock’n’roll. L’unica alternativa al silenzio delle coscienze. <strong>“Radio Ethiopia”</strong> invia messaggi di rivolta ma, oltre alle parole, in questo disco c’è la <strong>disubbidienza musicale</strong> di <strong>“Metal Music Machine”</strong>, il doppio album di <strong>Lou Reed</strong>. E’ difatti il suo <strong>sperimentalismo sonoro</strong> a guidare in <strong><em>R.E./Abissinia</em></strong>, (dedicata tra l’altro allo scultore <strong>Costantin Brancus</strong>i, e al poeta <strong>Arthur Rimbaud</strong>) il <strong>Patti Smith Group</strong> nell’esplorazione di nuove strade musicali, usando la chitarra <strong>Fender duo-sonic</strong>. La stessa usata da <strong>Jimi Hendrix</strong>. <strong>John Sinclair</strong> era un <strong>poeta</strong>, <strong>scrittore</strong>, <strong>critico</strong>, <strong>musicista</strong>, amico di molti personaggi della <strong>Beat Generation</strong>. Un<strong> rivoluzionario</strong>. Fu lui che aiutò i <strong>MC5</strong> a diventare il <strong>gruppo di punta della rivolta giovanile americana</strong>, alla fine degli<strong> anni sessanta</strong>. Le esibizioni dei <strong>Five</strong> erano una vera <strong>provocazione alla morale e all’ordine costituito</strong>. Come quelle degli <strong>Stooges</strong>, loro illustri concittadini. Un gruppo legato all’impegno sociale i <strong>Five</strong>, dal suono duro e animalesco. La band aveva fatto suo il motto di <strong>Jerry Rubin</strong> un altro sovversivo, (con <strong>Abbie Hoffman</strong> andrà a turbare il sogno di pace, amore e libertà di <strong>Woodstock</strong>) che recitava di non fidarsi di nessuno che avesse più di 30 anni. A <strong>Detroit</strong>
loro città natale questa regola fu messa in pratica rigidamente. Ai
loro concerti non si entrava in nessun modo se avevi più di trent’anni. I
<strong>Five</strong> si erano tirati dentro i <strong>disillusi del sogno americano</strong>, <strong>vecchi beat</strong>, <strong>pantere bianche</strong>, <strong>pacifisti</strong>, <strong>movimenti studenteschi</strong>, <strong>filosofi delle droghe</strong>, <strong>musicisti alternativi</strong>. Li avevano coinvolti tutti quanti, nella loro <strong>dura lotta al potere</strong>. Persino <strong>Allen Ginsberg</strong> era un loro <em>fan</em>. Il loro primo album, il <em>live</em> <strong>“Kick Out The Jams”</strong>, uscito nel <strong>1968</strong>,
vi darà solo un’idea di quello che erano capaci di tirar fuori questi
musicisti. Una prova che a dispetto del tempo che passa resta integra è
forte. <strong>Rock’n’roll selvaggio, per l’anima e il corpo</strong>. Per chi ancora crede che ci sia la possibilità, di avere una vita diversa. Senza idoli confezionati, pronti da consumare. <strong>Musica schietta, suonata con profonda emozione</strong>. La musica degli <strong>Stooges</strong> incarnava la<strong> paura</strong>, l’<strong>angoscia esistenziale</strong>, l’<strong>odio</strong> contro la <strong>borghesia</strong>, e la <strong>vita facile</strong> di tanti <strong><em>teenager</em></strong> bianchi. Era una musica forte, sfrontata, suonata su quei tre accordi che hanno fatto grande il rock’n’roll. Un <strong>suono brutale</strong>, un<strong> urlo demoniaco</strong>, <strong>psicotico</strong>, <strong>lacerante</strong>, nel buio della notte.<strong> Iggy Pop</strong>, il cantante della band, <strong>era un vero figlio di puttana</strong>, un <strong>talento naturale</strong>, che a diciotto anni se n’era andato da casa per <strong>vagabondare in quei luoghi dove si suonava il blues più scellerato</strong>.
Un ragazzo che durante le esibizioni dal vivo aggrediva il pubblico
ruzzolandosi tra la gente, agitandosi, denudandosi, bestemmiando e
sputando. A fargli da spalla i fratelli<strong> Ashenton</strong>, <strong>Ron</strong> alla chitarra, <strong>Scott</strong> alla batteria, e <strong>Dave Alexander</strong> al basso. Il concerto che tennero a <strong>Cincinnati</strong> nel <strong>1970</strong> passò alla storia. <strong>Iggy Pop continuava a sbattersi il microfono dentro la bocca sanguinante</strong>,
poi si lanciò tra la gente che lo aspettava con le braccia alzate. A
torso nudo, le gambe fasciate dai pantaloni di cuoio nero, e il dito
puntato contro un bersaglio immaginario, muoveva la lingua insanguinata.
<strong>Un suicidio <em>live</em> che scandalizzava</strong> chiunque e che ha quasi ucciso <strong>Iggy</strong>. Il loro primo disco <strong>“The Stooges”</strong> è del <strong>1969</strong> e fu inciso in solo quattro giorni, con la produzione di <strong>John Cale</strong>. <strong>“Fun House”</strong> invece è del <strong>1970</strong>. Nel gruppo fece la comparsa il <strong>sax</strong> lacerante e nervoso di <strong>Steven Mackay</strong>. Un disco accecante di rabbia e di energia. Un<strong> suono implacabile</strong> sostenuto dalla voce rauca di<strong> Iggy</strong>, a segnare una delle pagine più belle che il rock’n’roll ci ha regalato. Basta ascoltare <strong><em>L.A.Blues</em></strong>, il brano che chiude il disco, per capire fin dove gli <strong>Stooges</strong> si erano spinti. <strong>Cinque minuti di puro inferno sonoro</strong>, con il sax isterico di <strong>Mackay</strong> che attraversa i territori del <strong>free jazz</strong>, inseguito da <em>riff</em> micidiali di chitarra, mentre <strong>Iggy</strong> <strong>continua a urlare la sua depravazione</strong>. Un’esperienza devastante. <strong>La droga, la follia, la rabbia, rese la musica degli Stooges oscura e ipnotica</strong>. Il tempo di un altro disco con la produzione di <strong>David Bowie</strong> è il sogno se ne va a catafascio. Braccato da quella nuvola nera che lo stava distruggendo, <strong>Iggy decide di sparire</strong>.
Poi lentamente risalirà la china. Certo, per qualche tempo ho pensato
di avere preso la strada sbagliata ma, arrivato al bivio, non ho fatto
nulla per tornare indietro. <strong>Quando ero giovane pensavo che avrei cambiato il corso delle cose, se solo lo avessi voluto. Non è andata così</strong>… ma ci tenevo di più a guardarmi allo specchio, e non vedere qualcun altro. Perché <strong>si paga tutto prima o poi</strong>, e si paga anche per quello che non si vede alla luce del sole. <strong>Certe cose dentro di noi, non vanno mai in prescrizione</strong>. Mi sono tolto la giacca, e ho lasciato vagare i miei pensieri. Dopo <strong>ho acceso la radio</strong>. La notte stava salendo, senza un filo di vento. Una volta volevo diventare una <strong><em>rockstar</em></strong>, poi un <em><strong>bluesman</strong></em>… ma in effetti cercavo solo un po’ di calore. <strong>Il rock’n’roll mi ha svegliato, mi ha guarito, mi ha protetto</strong>.
Mi sono guardato intorno e ho visto tutti quelli che mi hanno superato,
imprecando, spingendo. Non so dove siano finiti. In effetti io <strong>ho solo fatto del mio meglio, per restare integro</strong>. Ho rivolto il mio sguardo alla <em><strong>“terra degli uccelli”</strong></em>, ed ho visto delle piccole stelle brillare. Mi si è stretto il cuore. <strong>I miei eroi sono i nati perdenti… e il mio cuore è nella strada</strong>.</span></div>
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<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Bartolo Federico </span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFCmdzxtlqZJzvnjYTLLHk-OhEFhzx46IOu95Cuir2mWCzSSJO21Xh_SEh0RCqIUc-AJc1FqMzQaVgkcAcW1aSPOWX41sD8glFvRnjUCatsFyDI5rtoTBUfKhKFkuzMrNDDXZrHOs5qs0/s1600/la-terra-degli-uccelli-bartolo-interno1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1086" data-original-width="768" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFCmdzxtlqZJzvnjYTLLHk-OhEFhzx46IOu95Cuir2mWCzSSJO21Xh_SEh0RCqIUc-AJc1FqMzQaVgkcAcW1aSPOWX41sD8glFvRnjUCatsFyDI5rtoTBUfKhKFkuzMrNDDXZrHOs5qs0/s640/la-terra-degli-uccelli-bartolo-interno1.jpg" width="451" /></a></div>
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<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"><br /></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-60673141105571270122018-02-18T23:12:00.002-08:002018-02-18T23:12:45.261-08:00Gli amici del diavolo<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKM2vSS0Do3NLY-X2ZV97JagX0Ih5N3bTWZLBsMk-CX_8WicxpzHqbrp3G9Xu-yoJQXl__Hpgn931LUqC5uy8IwPAAgUmWetVuFuIIyz9kwpln2FBbv00ce2ekWCOHPxX4_QrGmmC4mvk/s1600/gli-amici-del-diavolo-bartolo-anteprima-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKM2vSS0Do3NLY-X2ZV97JagX0Ih5N3bTWZLBsMk-CX_8WicxpzHqbrp3G9Xu-yoJQXl__Hpgn931LUqC5uy8IwPAAgUmWetVuFuIIyz9kwpln2FBbv00ce2ekWCOHPxX4_QrGmmC4mvk/s640/gli-amici-del-diavolo-bartolo-anteprima-768x445.jpg" width="640" /></a><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><em><strong>“Metto
in valigia i miei vestiti ed inizio la mia fuga Sono nei guai, tesoro,
sono in viaggio Non riesco ad essere soddisfatto Ma proprio non riesco a
smettere di provarci.”</strong> </em>(<em>I Can’t Be Satisfied – </em>Muddy Waters).<strong><br />
Guidavo senza sosta con il gomito appoggiato al finestrino</strong>.
L’auto andava che era una meraviglia, intanto che il vento alzava nuvole
di polvere bianchiccia. Bevvi un sorso d’acqua e infilai un cd
nell’autoradio. Non appena la musica venne fuori, mi sentii al sicuro
dentro le canzoni di <strong>Blind Willie McTell</strong>. Nonostante quei blues fossero cantati con toni scuri e ruvidi e all’improvviso si impennassero in falsetti che mi turbavano, <strong>le sue canzoni parlavano di speranza che non capitolava mai</strong>, neppure di fronte alla <strong>sfortuna più nera</strong>, di quella determinazione che occorre sempre per affrontare i periodi più duri cui la vita ci mette al cospetto. <strong>McTell era uno zingaro</strong>, un vero <strong>vagabondo</strong>. Per lui il richiamo della strada era qualcosa di irresistibile. Pur se <strong>cieco</strong>, era sempre in movimento, all’inseguimento di quella cosa che mai nessuno raggiungerà. <em><strong>Hot Shot Wille</strong></em>,<em><strong> Georgia Bill</strong></em>,<em><strong> Pig’n Whistle</strong> </em><strong><em>Red</em> </strong>e<em><strong> Blind Sammie</strong></em> erano i suoi <strong>fantasm</strong>i che utilizzava per incidere e aggirare gli obblighi contrattuali con le <strong>case discografiche</strong> dell’epoca, dato che era anche un <strong>autore prolifico</strong>… ma pur celandosi, il suo stile restava unico e riconoscibilissimo. Nel cielo del mattino, avevo ingranato <strong>la marcia indietro dei ricordi</strong>
e sotto un sole cocente un po’ di nostalgia mi sbucciò gli occhi. La
notte l’avevo trascorsa nel buio di una squallida stanza di un fottuto<strong> motel</strong> che avevo trovato lungo il tragitto. <strong>Un posto senza clienti che costava poco. Buono per chi non si attende più nulla dalla vita</strong>. O per chi non ha più voglia di parlare. Manco con se stesso. Correvo in auto e mi chiedevo come fossero state quelle <strong>strade polverose</strong>, percorse da quell’<strong>esercito di pezzenti</strong> di cui anche il giovane cieco <strong>McTell</strong> faceva parte e che, come tanti altri, percorreva per unirsi agli <strong>spettacoli itineranti</strong> dei <strong><em>medicine show</em></strong>. Era davvero bravo a spostarsi, nonostante il suo <em>handicap</em>. Suonava ovunque capitasse i suoi blues che poi divennero assi portanti del rock. <strong><em>Statesboro Blues </em></strong>ne è un esempio. Gli <strong>Allman Brothers</strong> ne fecero una versione stupefacente. Ma anche <strong><em>Mama,Tain’t Long For Day</em></strong>, <em><strong>Three Women Blues</strong> </em>e<strong><em> Broken Down Engine Blues</em></strong> lasciarono il loro segno indelebile. Era un <strong>esploratore della chitarra dodici corde</strong>. Lo strumento non aveva segreti per lui. Sapeva usare benissimo le <strong>accordature aperte</strong> e il suo repertorio abbracciava svariati stili che andavano dal <strong>ragtime</strong>, al <strong>folk</strong>, alla <strong>ballata popolare </strong>e, come gran parte dei <strong>musicisti girovaghi</strong> di quel tempo, sapeva adattarsi alle richieste del pubblico.<strong> Il cielo sulla mia testa mi sembrò una prateria</strong>
con tutte quelle piccole nuvole a pecorella che giocavano a
rincorrersi…. e m’immaginai per un attimo che goduria sia stata per
tutti quelli che lo incrociarono, magari in compagnia del suo compagno
di viaggio, il texano <strong>Blind Willie Johnson</strong>, per le strade di un <strong>America</strong> che è andata via via sbiadendosi. Certo, <strong>tutti più o meno siamo stati innocenti</strong>
una volta. Poi il tempo ha fatto il suo corso e ci ha cambiato
ferocemente. Me ne andavo vagando in un posto sperduto, lontano da tutto
e da tutti, e mi sentivo come se il mondo di cui facevo parte non mi
appartenesse. <strong>Mi fermai per una sosta</strong>. Comprai un
panino e bevvi acqua frizzante ghiacciata. Presi anche un caffè. Ci
voleva una volontà di ferro per proseguire con tutto quello che stava
accadendo. .. ma avrei di gran lunga preferito essere un viaggiatore
furtivo, uno di quelli che dormiva in spiaggia nel sacco a pelo e al
mattino se ne andava cercando la linea ferrata per saltare sul primo
treno che passava.<br />
<em><strong>“Il treno merci è stato quello che mi ha insegnato a
piangere Il grido del macchinista è stata la mia ninna nanna Ho il blues
del treno merci Oh cara, ce l’ho sulla cima delle mie scarpe vagabonde”</strong>. </em>(<em>Freight Train Blues </em>– Traditional)<br />
Avrei voluto incrociare sguardi ed emozioni che mi assomigliassero, ma in quel posto non c’era più nulla. <strong>Mi rimisi in macchina e me ne andai così come ero venuto</strong>. Senza fretta. Se davvero vuoi imparare a suonare e scrivere canzoni – diceva <strong>Tommy Johnson</strong> – devi andare da solo a <strong>mezzanotte</strong> a un crocicchio. <strong>Un enorme uomo nero arriverà</strong>,<strong> prenderà la chitarra e suonerà un brano</strong>.
Bere era sempre stata la sua ossessione e quando non trovava il whiskey
riusciva a mandare giù qualsiasi cosa, anche l’alcool denaturato o il
lucido da scarpe a base alcolica. <strong>Tommy</strong> <strong>aveva fraternizzato con il diavolo</strong> o, forse, era lui stesso un demone e bruciava dentro quel fuoco in cui poi molti protagonisti del rock finiranno. <strong>Vederlo suonare dal vivo era sconvolgente</strong>. Si dimenava come <strong>posseduto</strong>, cantando con una voce drammatica e intensa i suoi <strong>blues indemoniati</strong>. Anche lui, come <strong>Charlie Patton</strong> con cui aveva condiviso alcune esibizioni, <strong>suonava la chitarra dietro le spalle</strong>… ma non era per niente ossessionato dalla tecnica. Gli bastava semplicemente far venire fuori il suo<strong><em> boogie woogie</em> maligno</strong>, <strong>per graffiare a sangue l’anima</strong>. Per sempre. <strong>Di questo passo all’inferno ci finirò io pensai</strong>, dando fuoco a una cicca. <strong>Era già il crepuscolo, e la quiete era assoluta</strong>.
Non so più cosa voglio o forse non l’ho mai saputo… ma ci sono cose che
ti piovono addosso, e che devi accettare supinamente. Hai voglia a
scuoterti come un tarantolato, cercando di mandarle via. <strong>Si portano con sé anche quel po’ di magia che possedevi</strong>… allora ti rendi conto che <strong>è stato il mondo a prenderti a calci nel culo, e non viceversa</strong>.
Cosi smetti di credere. Mentre tenevo gli occhi fissi sulla strada
avrei voluto che piovesse. Cercai un indizio per non capitolare e mi
chiesi in quale cazzo di direzione era mai la <strong>terra promessa</strong>. Il fantasma <strong>William George Tucker</strong> nasce il 14 novembre del <strong>1905</strong> a <strong>Henning</strong> in <strong>Tennessee</strong>. Nello stesso anno di <strong>Arthur “Big</strong> <strong>Boy” Crudup</strong>. Quel giorno, <strong>suo padre</strong> mise delle ciotole sul davanzale della finestra e <strong>raccolse la pioggia</strong>. Più tardi <strong>con quella stessa acqua lo battezzarono</strong>. Fu in quella circostanza che si accorsero di quegli strani graffi scarlatti che aveva sul petto.<br />
<strong><em>“Una zingara disse a mia mamma, il giorno in cui nacqui</em>, “<em>Oh, sta per arrivare un maschietto. Oh Signore, sarà un vero diavolo”</em></strong>. (<em>Hoochie Coochie Man</em> – Willie Dixon).<br />
Nessuno di noi può prevedere il proprio <strong>destino</strong>, ma quello riservato a <strong>William George Tucker</strong> fu <strong>davvero spietato</strong>. A quel tempo quando nascevi nel <strong>Delta del Mississippi</strong>, la musica ti veniva servita sin dalla prima poppata. Ben presto <strong>William</strong> imparò a tenere una chitarra in mano e con questa si esibiva alle feste, nei bordelli e per strada. Nella prima metà degli <strong>anni trenta</strong> arrivò a suonare con <strong>John Lee Williamson</strong> (<strong>Sonny Boy I</strong>) e<strong> Sunnyland Slim</strong>. Il suo blues rozzo e primitivo, ma pieno di pathos e cantato con una <strong>voce sgraziata che toccava nel profondo</strong>. Le cose sembravano andare per il meglio, ma <strong>quei segni che il diavolo gli aveva lasciato sul petto erano premonitori</strong>. In circostanze che resteranno per sempre oscure <strong>venne accusato dell’assassinio di un uomo bianco</strong>, tale <strong>Mr. Charlie</strong>. Sapendo bene che il giudizio sarebbe stato scontato, fece perdere le sue tracce per diventare un vero <strong>spettro</strong>. Ricomparve dopo qualche anno a <strong>Chicago</strong> con una nuova identità, facendosi chiamare <strong>John Henry Barbee</strong>. Si esibì sui marciapiedi di <strong>Maxell Street</strong>, in compagnia di altri randagi e della sua fedele sei corde… ma per sopravvivere <strong>dovette svolgere i lavori più umili</strong>, convivendo sempre con la <strong>paura di essere riconosciuto</strong>. Paura che lo smantellò irrimediabilmente nel fisico e nell’animo. Durante il <strong><em>blues revival</em></strong> degli <strong>anni sessanta</strong> fu riscoperto e incise per l’etichetta di <strong>Victoria Spivey</strong>. Andò anche in <strong>Europa</strong> a suonare a seguito dell’America <strong>Folk Blues Festival</strong>… ma <strong>il diavolo volle il saldo</strong>.<br />
<strong><em>“Ho due ragioni per piangere tutte le notti solitarie La
prima si chiama Sweet Anne Marie ed è la delizia del mio cuore. La
seconda è la prigione, bimba, lo sceriffo è sulle mie tracce e se mi
raggiunge passerò tutta la mia vita in cella”.</em> </strong>(<em>Friend Of The Devil</em> – Garcia-Hunter-Dawson).<br />
Perdutamente alla deriva, una sera restò coinvolto in brutto <strong>incidente d’auto</strong>. Quest’evento cagionò un effetto devastante su di lui, tanto che lo indusse a costituirsi per dimostrare finalmente la sua<strong> innocenza</strong>. In <strong>carcere</strong>, in attesa del<strong> processo</strong>, si sentì male. Un’ambulanza lo caricò per trasportarlo all’<strong>ospedale</strong> ma morì d’infarto durante il percorso. C’è solo un album che testimonia la sua umanità, “<strong>Portrait In Blues vol</strong> <strong>9″</strong>, che è la <strong>colonna sonora di tutti quei fantasmi che come lui non hanno mai avuto giustizia</strong>. Il suo <strong>blues</strong> è <strong>disperato</strong>, <strong>drammatico</strong>, carico di <strong>dolore lacerante</strong> come solo questa musica può esserlo, quando sgorga direttamente dal cuore. <strong>Ero lì da solo e guidavo su quella strada tortuosa e solitaria</strong>. Con i miei sogni raggrinziti che sentivo, anche se stancamente, pulsare… e <strong>quel vuoto immenso dentro di me</strong>. Imboccai la statale e oltrepassai un ponte. Udii il rumore del traffico venirmi dinanzi. <strong>Non riuscivo ad essere in pari con me stesso</strong>,
era questa la verità: il fatto di essere stato più e più volte ferito
aveva cambiato la mia prospettiva, la mia visuale delle cose. <strong>Avrei dovuto trovare un posto dove stare</strong>. Con il finestrino abbassato, il caldo afoso mi ansimò in faccia. <strong>Una farfalla volteggiò nell’abitacolo</strong>. Le farfalle simboleggiano il calore dell’estate. I sacerdoti <strong>Zuñi</strong> usano mettere le farfalle nere dentro i tamburi in modo che il loro suono porti al <strong>delirio</strong> gli ascoltatori. Proprio come i blues. <strong>I miei maledetti blues</strong>.</span></div>
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<span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico </span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-45477250565274625692018-02-04T23:47:00.000-08:002018-02-04T23:47:12.718-08:00Bang Bang<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg96LsQOw6cvi9Yf9YXKCmCRYbwApx3XGbRQq_5t6Rj5TFcM87wtXJjlRC4_leJ8VNm0yfbO05IOCfnEzeOFM3G8U1Gblm9pQCowhi6HVBmfAf3WKWCoDc66JvX4vwhV5E2QlQHyO2Yims/s1600/bang-bang-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="368" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg96LsQOw6cvi9Yf9YXKCmCRYbwApx3XGbRQq_5t6Rj5TFcM87wtXJjlRC4_leJ8VNm0yfbO05IOCfnEzeOFM3G8U1Gblm9pQCowhi6HVBmfAf3WKWCoDc66JvX4vwhV5E2QlQHyO2Yims/s640/bang-bang-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> Il cielo sulla sua testa si era fatto rossiccio e quella <strong>stella sperduta</strong> gli parve una borchia per capelli. La notte era calata ruvida come una ballata rock di <strong>Frankie Miller</strong>.
Non c’era più niente in questo fottuto mondo che gli importasse, disse
pensieroso fissando la strada buia e rigirandosi tra le mani la
bottiglia vuota. Un vento umido proveniente dal mare saettò sul suo
viso. <strong>Era caduto ancora una volta</strong>, ma non era una novità neanche questa per uno <strong>precipitato in terra ancora prima che nascesse</strong>. Spinse il tasto del <em>play</em> che stranamente schioccò come un bacio sulla guancia e la canzone ripartì.<br />
<strong><em>“Melinda era mia fin al momento che la trovai stretta a Jim
mentre lo amava. Poi arrivò Sue mi amava intensamente questo è quello
che ho pensato. Io e Sue. Ma anche questo finì. Non so cosa farò. Ma
fino a che non troverò la ragazza che vuole rimanere e non giocherà alle
mie spalle. Sarò quello che sono. Un uomo solitario. Un Uomo
solitario”. </em></strong>(Neil Diamond – <em>Solitary Man</em>). Hai voglia a spingerli da qualche parte, a seppellirli nell’immondizia o sotto fiumi di alcool, <strong>i ricordi tornano sempre</strong>, specie quelli più dolorosi. <strong>La strada silenziosa era gialla di luna</strong>. Strinse per un attimo gli occhi che gli bruciavano maledettamente e congiunse le mani a mo’ di preghiera. <strong>Nel palazzo di fronte si accese la luce di un bagno</strong>.
Si sbottonò la camicia bianca intrisa di sudore e una smorfia gli
irrigidì il volto. Il pallore del suo viso celava una rabbia mortale. <strong>Era sbucata all’improvviso quella donna</strong>, alta, bella, con uno <em>charme</em> tale da mandarlo in<em> tilt</em>
come non gli era capitato mai in vita sua. Forse era un fantasma
sbucato da chissà dove e a cui lui non doveva dire nulla. Adesso, però,
seduto nell’abitacolo, sembrava che portasse tutto il peso del mondo
sulle sue spalle e, a guardarlo negli occhi, faceva davvero spavento.
Con quell’aria da animale ferito sembrava una ballata aspra dei <strong>Thin White Rope</strong>.<br />
<strong><em>“</em><em>E qualcuno al telefono seppe le cose che io avevo
sempre conosciuto Colonne sonore canticchiate ai sogni che avevo
dimenticato Ho amato il telefono, parlato col segnale di linea Mentre la
gente sui marciapiedi fuggiva da me”. </em></strong>(<span style="line-height: 22.4px;">Thin White Rope – </span><em style="line-height: 1.4em;">Diesel Man</em><span style="line-height: 1.4em;">)</span><em style="line-height: 1.4em;">.<br />
</em><span style="line-height: 1.4em;">L’<strong>orologio a <em>cucù</em> </strong>sulla parete dell’ingresso misurava inesorabile il passare delle ore. <strong>Si racconta che il canto del cuculo è profetico</strong>, capace d’indicare <strong>la buona e la cattiva sorte</strong>. Poco prima che quell’uomo arrivasse, <strong>sua madre era solita chiuderlo a chiave nella viscere buie della sua stanza</strong>
e solo dopo che il cuculo cantava tre volte gli riapriva la porta.
Aveva otto anni, e questo succedeva ogni qual volta suo padre si
allontanava per lavoro. Un <strong>commesso viaggiatore</strong>, suo
papà, che ogni quindici giorni faceva il giro dei clienti fuori città
assentandosi anche tutta la settimana. Aveva memorizzato le gesta di sua
<strong>madre</strong> e sapeva che quel <strong>giochino</strong>, così lei lo chiamava, stava per iniziare. Poco prima che quell’<strong>uomo</strong>
arrivasse si sistemava i capelli, si profumava il collo e indossava
sotto la vestaglia una sottanina nera di seta. Poi accendeva il
giradischi e ascoltava quella canzone. Sempre la stessa.<br />
<em><strong>“</strong></em></span><em><strong style="line-height: 1.4em;">Mi
ricordo quando noi eravamo due bambini e puntavamo le pistole dai
cavalli a dondolo. Bang bang. Io sparo a te. bang bang. Tu spari a me.
Bang bang. E vincerà bang bang. Chi al cuore colpirà”.</strong></em><em style="line-height: 1.4em;"> </em>(<span style="line-height: 22.4px;">Dalida – </span>Bang Bang)<em style="line-height: 1.4em;">.<br />
</em><span style="line-height: 1.4em;">Lo chiamava<strong><em> “Bang Bang”</em></strong>…
sì, era così che lo chiamava da sempre sua mamma. Avvicinandosi al suo
viso, glielo raccomandava che quello era un segreto fra di loro e che
doveva restare tale per sempre. <em><strong>“Ricordalo, </strong></em></span><em><strong>Bang Bang</strong></em><span style="line-height: 1.4em;"><em><strong>, ricordalo”</strong></em>, gli ripeteva, <em><strong>“non dirlo mai a nessuno”</strong></em>.
Lui, così piccolo, non capiva e si limitava ad annuire stringendosi
forte alle sue gambe. Quando era chiuso nella stanza per non sentire i
gemiti aveva imparato a svuotare la mente, a non pensare a nulla.
Restava immobile seduto sulla poltroncina, inebetito chiudeva gli occhi e
vedeva tutto nero… ed <strong>era come se morisse</strong>. Solo il <strong>canto del cuculo</strong> lo scuoteva. Ma era un fremito che durava un attimo. <strong>Nella penombra dell’abitacolo si guardò le mani ingiallite dalla nicotina</strong>
e quelle dita diventate tozze da sembrare gonfie. Erano mani possenti,
le sue, mani che avrebbero potuto uccidere. Tali e quali a quelle di suo<strong> padre</strong>. <strong>Tre uomini in abiti eleganti</strong>
con cravattino e scarpe lucide lo distolsero dai pensieri. Parlottando
tra loro gli passarono accanto, e gettandogli un occhiata svogliata
scomparvero nella notte. Aveva come l’impressione che dovesse stare
sempre in castigo tanto che non ci capiva più nulla delle cose del
mondo. T<strong>roppo dure le batoste che aveva ricevuto</strong>… ma giù nei vicoli, se abbassi la guardia, ti fanno fuori in un baleno… e <strong>i teneri di cuore hanno vita breve</strong>.
Accese una sigaretta, anche se si sentiva la gola grattare, e tirò una
lunga boccata bruciando il filtro che divenne molle. Abbassò il
finestrino e una folata di vento lo fece rabbrividire. Come una canzone
dei </span><strong style="line-height: 1.4em;">Beasts Of Bourbon</strong><span style="line-height: 1.4em;">.<br />
</span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>“Ridestato nella stanza
di Johnny, Mama era proprio lì accanto al suo letto e le mie mani
intorno alla sua gola, desiderando che entrambi fossimo morti. Pensi che
sia pazzo, Mama, e tu? Ho appena ucciso il cagnolino di Johnny. Pensi
che sia fuori di testa, e tu, Mama? Faresti meglio a farmi rinchiudere”.</em></strong><em style="line-height: 1.4em;"> </em>(<span style="line-height: 22.4px;">Beasts Of Bourbon – </span><em>Psycho</em>).<span style="line-height: 1.4em;"><br />
Con le dita si trastullò per un po’ sul volante. Poi <strong>si ricordò di prendere la pillola per i nervi</strong> che teneva nel taschino della giacca. Tirò fuori l’astuccio, ne staccò una e la inghiottì. <strong>La luce dei fari di una macchina che transitava in senso opposto illuminò per un attimo il marciapiede</strong>. Qualche isolato più avanti, sepolto <strong>nel buio riconobbe un uomo</strong>. La sua faccia era indubbiamente smorta ma sinistra. Però su di lui non sortì alcun effetto. Mise il nastro di </span><strong style="line-height: 1.4em;">Otis Redding </strong>e<strong style="line-height: 1.4em;"> <em>Hard To Handle</em></strong><span style="line-height: 1.4em;"> popolò
le ombre. Era chiaro che non gli faceva bene rimuginare nel passato, ma
quello torna sempre quando meno te lo aspetti ringhiandoti nell’anima.
Certo, aveva fatto di tutto per dimenticare, ma alle volte dimenticare è
quasi impossibile.<br />
</span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>“Ho lasciato la mia casa
in Georgia. Diretto verso la baia di Frisco. Perché non avevo niente per
cui vivere. E sembra che niente incrocerà la mia strada </em></strong>(Otis Redding – <em>Sittin’On The Dock Of The Bay</em>)<strong>.</strong><span style="line-height: 1.4em;"><br />
<strong>Il cuculo aveva cantato tre volte e poi altre due</strong>. Le aveva contate con le dita della manina, tenendola aperta sulle ginocchia. Come pietrificato, se ne restava seduto immobile <strong>aspettando che sua madre lo facesse uscire</strong>. Dopo il primo <em><strong>“</strong></em></span><em><strong>cucù”</strong></em><span style="line-height: 1.4em;"> aveva
udito dei passi nel corridoio ma era tornato subito con la mente nel
vuoto, non immaginando nessuna cosa… o forse fingendo a se stesso.
Finalmente<strong> la porta della stanza si schiuse</strong>. Con la coda dell’occhio <strong>vide entrare due poliziotti in divisa</strong>
che si avvicinavano delicatamente. Uno di loro lo prese in braccio e si
accorse che si era bagnato. Bisbigliandogli di stare tranquillo, con la
sua grossa mano gli coprì il viso mentre lo portava fuori dalla stanza
ma, <strong>l’odore pungente della morte è inconfondibile</strong>, lo
senti anche se sei un bambino e lo avverti perché ti penetra nelle
narici quasi fino a sfondartele. Velocemente l’agente percorse il
corridoio, ma lui gli spostò la mano e vide <strong>il corpo di sua madre nuda riverso in terra</strong>. C’era <strong>sangue</strong>, sangue sui muri, sul pavimento, sui quadri, sulle maniglie. Persino sull’orologio a muro. <strong>C’era sangue dappertutto</strong>. Vide anche quell’<strong>uomo</strong>
accasciato sulla porta della stanza da letto con un profondo taglio nel
petto. L’agente lo caricò alla svelta dentro un auto cercando di
tenergli con molto garbo la testa bassa, ma <strong><em style="line-height: 1.4em;">Bang Bang</em></strong></span><span style="line-height: 1.4em;">, sempre con un gesto fulmineo si divincolò e <strong>dietro la siepe incrociò lo sguardo di suo padre</strong>. Lo scorse lì, fermo, <strong>ammanettato</strong>, con gli occhi stralunati e le sue grandi mani tinte di rosso… e fu quella l’ultima volta.<br />
</span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>“Non c’è solo odio nel
mondo. Non ci sono solo buchi nel cielo. C’è solo un destino che non
puoi rinnegare. Due amanti aspettano di morire. Joe si è ammalato in
guerra, tra le vene e la mente. Sammy si è ammalato a causa di tutte le
bugie. Due amanti aspettano di morire…C’è solo una lacrima che continua a
volar via…”. </em></strong>(<span style="line-height: 22.4px;">Green On Red – </span><em>Two lovers Waitin’ To Die</em>). </span><br />
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> <span style="line-height: 1.4em;">Anche se </span><strong><em style="line-height: 1.4em;">Bang Bang</em></strong><span style="line-height: 1.4em;"> riusciva a svuotarsi la testa, quelle urla disumane non potevano essere ignorate. <strong>Suo padre li aveva uccisi con una crudeltà inaudita</strong>.
Durante quei momenti aveva azionato i meccanismi che ci portano a
rinchiuderci nella nostra linea di difesa. Come una pietra scagliata in
uno stagno forma dei cerchi che man mano si dilatano e si estendono per
poi scomparire nell’infinito. </span><strong><em style="line-height: 1.4em;">Bang Bang</em></strong><span style="line-height: 1.4em;"> era scomparso da quel luogo e <strong>si era messo a volare nello spazio tra le nuvole</strong>… ma quella <strong>puzza di morte</strong>,
lui, la sentì sempre incollata addosso. Pure adesso la percepiva
mentre, sbucavano fuori dalle ombre anche i più piccoli dettagli. Quando
fu tutto finito suo <strong>papà</strong> aveva azionato il <strong>giradischi</strong> e messo quella canzone. Sempre quella. Sempre la stessa.<br />
<em><strong>“</strong></em></span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>Ora
non mi ami più Ed ho sentito un colpo al cuore Quando mi hai detto che
Non vuoi stare più con me Bang bang… E resto qui Bang bang A piangere
Bang bang hai vinto tu Bang bang Il cuore non l’ho più”. </em></strong>(<span style="line-height: 22.4px;">Dalida – </span><span style="line-height: 1.4em;"><em>Bang Bang</em>).</span><span style="line-height: 1.4em;"> </span><strong style="line-height: 1.4em;"><br />
</strong><span style="line-height: 1.4em;">Non era più tempo d’ ingannare nessuno, neppure se stesso. <strong>Lei aveva un bel viso liscio</strong> che assomigliava a </span><strong style="line-height: 1.4em;">Rickie Lee Jones.</strong><span style="line-height: 1.4em;"> Indossava
una giacca di pelle nera striminzita e una camicetta bianca di raso
sopra un jeans attillato. Quando arrivò sorridendo e salì in macchina,
si strinse contro di lui. Quel calore che lei emanava <strong>lo aveva scosso fino dentro le ossa</strong> e sentirsi vivo, per uno che aveva <strong>le carte del destino nate male</strong>, era una sensazione indescrivibile. Guardando la strada mentre calava la notte, <strong>aveva parlato e ancora parlato, fino a spurgarsi l’anima</strong>. Poi si era librato nel cielo, ma questa volta lo aveva fatto <strong>un attimo prima che non riuscisse più a piangere</strong>.
Quando riaprì gli occhi lei lo stava guardando e sfiorandolo con un
bacio si accorse che c’era ancora una certa tensione in lui. <strong>“</strong></span><strong><em style="line-height: 1.4em;">Adesso puoi levarti quella faccia da lupo</em></strong><span style="line-height: 1.4em;"><strong>”</strong>, gli sussurrò con dolcezza accarezzandogli i capelli. Lui avviò il motore, inserì un nastro e fece partire </span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>Burn</em></strong>,<span style="line-height: 1.4em;"> una canzone dei </span><strong style="line-height: 1.4em;">Dream Syndicate</strong><span style="line-height: 1.4em;">.
Il cielo era scintillante di un blu intenso. Lei si girò nuovamente
verso di lui e, affondandogli lo sguardo negli occhi, si accorse che per
la prima volta gli sorridevano.<br />
</span><strong style="line-height: 1.4em;"><em>“Ma puoi sentirlo nel
cuore. Sentirlo nell’anima. Sentirlo andare intorno finché non perdi il
controllo. Sono solo poche cose che non possono essere raccontate. Non
lo senti bruciare?” </em></strong>(</span><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 22.4px;">Dream Syndicate – </span><em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">Burn</span></em><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;">).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif; line-height: 1.4em;"> </span><span style="font-size: small;"><span style="font-weight: normal;">Bartolo Federico</span></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-23605593368712591672018-01-22T23:46:00.002-08:002018-01-22T23:46:59.659-08:00Kill Ugly Radio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMI4s6TGYcPxMphHq5Rt0VU5Qg2fKB1ExIYvgSheKlOE6LdGF_ZV2tKxpAE_WmCFN3vAX75dn18bs3HJM_alW64-L5-NIpnTryFyj9q5J3H2leSlGPWw3IoWmyRowDIXozf2SWW9fLkFU/s1600/uccidete-la-brutta-radio-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMI4s6TGYcPxMphHq5Rt0VU5Qg2fKB1ExIYvgSheKlOE6LdGF_ZV2tKxpAE_WmCFN3vAX75dn18bs3HJM_alW64-L5-NIpnTryFyj9q5J3H2leSlGPWw3IoWmyRowDIXozf2SWW9fLkFU/s640/uccidete-la-brutta-radio-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Rimasi inerme sdraiato nel buio dopo aver messo un disco</strong>
che tolsi quasi subito, perché tanto lo avevo ascoltato che non mi
interessava più. Dalla bottiglia che avevo posato vicino alla sedia mi
versai da bere e andai a prendere dei cubetti di ghiaccio dal frigo. <strong>Per quelli che come me avevano due anime, era davvero difficile andare avanti</strong>.
Ero metà di quello che avrei voluto essere, ero metà in tutto quello
che facevo, e questo bastò per riempirmi d’ansia. Tutti i voli finiscono
a terra, c’è poco da fare. Mi versai dell’altro whisky sopra il
ghiaccio che avevo già nel bicchiere, e presi a bere lentamente. <strong>Me ne stavo fermo su lato opposto della strada senza sapere dove andare</strong>,
dove svoltare, o cosa cercare ancora. Non mi andava di mollare, senza
un segnale di riconoscimento, un ultimo sussulto. La vita ci riserva una
montagna di dispiaceri considerai, nello stesso momento in cui la <strong>signora Nunzia</strong> per via della sua insonnia, fece arrivare dalla <strong>radiolina</strong>
la canzone che stava ascoltando. Respirai profondamente alzando la
faccia all’insù, e inalando l’aria in brevi ansiti, guardai l’orologio.
Per consolarmi ho messo<em> <strong>Debris</strong></em>, una canzone dei <strong>Faces</strong>. Ci sono cose che ti porti appresso per sempre. Il <strong>16 agosto </strong>del<strong> 1977</strong> avevo quattordici anni ed ero seduto insieme a mia <strong>madre</strong> sul divano di nappa marrone, nel soggiorno di casa. Il giornalista del telegiornale recitò:<em><strong>
“Il Re del rock’n’roll Elvis Presley è morto alle 14.30 per un attacco
cardiocircolatorio nel bagno della sua casa di Memphis. Aveva 42 anni”</strong></em> Fuori dalla mia finestra ascoltai le voci dei <strong>bambini festosi</strong>, ma anche della <strong>follia del mondo</strong>. Non capivo come poteva essere accaduto in quel giorno luminoso, assolato, limpido e caldo, a <strong>quel ragazzo che aveva trasformato il blues, nella musica più eccitante che conoscevo</strong>.
Sono rimasto in silenzio seduto su quel divano, con addosso una
tristezza infinita. È davvero insopportabile il livello di stronzate che
dobbiamo tollerate ogni santo giorno della nostra esistenza. <strong>A ciascuno la sua merda</strong>. Niente che non sappiamo. <strong>Bugie e cicatrici, sporche macchinazioni</strong>. Se sei famoso però ti sistemeranno per bene, e ci sarà qualcuno che guadagnerà un mucchio di quattrini dalla tua scomparsa. <strong>Delbert Sonny West</strong> fece la <strong>guardia del corpo</strong> per ben sedici anni a <strong>Elvis</strong>, ed è lui che raccontò che <strong>il Re ingoiava pillole dalla mattina alla sera</strong>,
e si iniettava droghe con piccole siringhe di plastica a peretta negli
avambracci, nelle gambe, nei polsi. Spesso lo aveva aiutato lui stesso.<strong> I medici cercarono di tenerla nascosta la verità</strong>, era pur sempre un <strong>bianco</strong> del sud <strong>Elvis <em>“The Pelvis”</em></strong>, mica un <strong>negro</strong>
qualsiasi. C’è sempre un’aria schifosa da respirare in questo mondo, e
devi strizzare gli occhi come un topo, perché non puoi guardare il sole
per troppo tempo. I veri artisti sono pazzi, ma hanno <strong>la capacita di tornare indietro dal loro viaggio interiore per descriverlo</strong>, e tramutarlo in arte. <strong>Lou Reed</strong>
è uno dei padri spirituali del rock’n’roll. La sua tristezza, il suo
terrore, la sua angoscia, puoi sentirli zigzagare ovunque nelle sue
canzoni, mentre danzando vengono verso di te. <strong><em>DNA</em></strong>, <strong><em>Arto Lindsay</em></strong>,<strong><em> Glenn Branca</em></strong>, <strong><em>Contortions</em></strong>,<strong><em> Lounge Lizard</em></strong>,<strong><em> Suicide</em></strong>,
sono una parte della sua enorme prole. Musicisti che come lui hanno
messo in evidenza lo squallore, la paranoia, il lato oscuro della vita. <strong>Cuori di tenebra</strong>. <em><strong>“Cominciate a suonare</strong>. </em>disse il manager alla band<em>, <strong>così vi fate le ossa e fate esperienza”</strong></em>. Fu in uno di questi momenti che una rabbia straordinaria attraversò e scosse il rock’n’roll. <strong>Come succede quanto ti viene data troppa libertà, qualcuno poi se la riprende </strong>e, alla fine, il rock’n’roll l’hanno fatto diventare persino scrupoloso, lui che è sempre stato insaziabile e ingordo. Così <strong>prima di diventare troppo vecchio, il rock è morto</strong>. È accaduto come in <strong>“My Generation”</strong> degli <strong>Who</strong>.
E’ sempre la frenesia che ci fotte. Quella frenesia di andare a vedere,
a destra e a sinistra, che ci fa sbattere la testa negli spigoli dei
nascondigli in cui rovistiamo. <strong>Cartoline ingiallite dal tempo</strong>. Uno squinternato <strong>hotel</strong>, voci stridule e folli. <strong>Una radio che sputa musica country</strong>. Artisti radicali che provano un pezzo. Non c’era nulla di falso e costruito in <strong>Lulu</strong> che se ne stava ore e ore a provare canzoni con <strong>Black Jack</strong>, agghindato con<strong> una grossa collana di strass e un acconciatura stile Riccardo III</strong>, e suonava la viola. <strong>Bob Dylan</strong> non ha mai amato la gente, <strong>ha sempre vissuto isolato per proteggersi dal bagliore tremolante di quel circo di cui è la principale stella</strong>. Lo sanno tutti ormai che è sempre stato <strong>il più bravo a scrivere canzoni</strong>. Ma lui non voleva sentirsi soffocato, ingabbiato. <strong>Anarchico e palesemente a disagio con il mondo</strong>, ha sempre quell’aria da <strong>pugile sconfitto</strong>. Come a dire: <strong><em>“non mi rompete i coglioni”</em></strong>. La mano affonda nelle <strong>tasche dei pantaloni</strong>, un <strong>fazzoletto</strong>, delle <strong>carte modificate</strong>, <strong>tabacco</strong> e <strong>cerini</strong>. Nella <strong>downtown</strong> le sconfitte sono truccate. <em><strong>Society</strong></em> la canta <strong>Eddie Vedder</strong> nella colonna sonora di <strong>“Into The Wild”</strong>. Un film che mi ha fatto piangere. <strong><em>“Non
lo possiamo dire eccovi la libertà, adesso farete quello che vorrete il
governo non c’è più. La gente non saprebbe cosa fare. Si divorerebbe a
vicenda come belve. Bisogna prima emanciparli. Il rock’n’roll ha questa
funzione.“</em> </strong>(Frank Zappa) Persone anziane che comandano il mondo. C’è chi si definiva <strong>hippy</strong>, altri <strong>beatnik</strong>, altri ancora <strong>giocatori</strong> alla ruota della fortuna. <strong>“Freak Out !”</strong> è <strong>un album doppio pieno zeppo di trasgressione</strong>, di sentieri ancora oggi inesplorati, è <strong>musica libera dalla schiavitù sociale.</strong> Un invito alla creatività. <strong>Ero una specie di ribelle da ragazzo</strong>, di quelli che mal sopportavano le<strong> ingiustizie</strong>. Per questo, quando ho incontrato il <strong>rock’n’roll</strong>, mi sono sentito a casa mia. Manifestava tutta la mia rabbia, e mi consentiva di comunicare con gli altri. <strong>Attraverso la musica ho imparato a resistere</strong>. Quando è arrivato il <strong>punk</strong>,
ho capito che mi faceva diventare davvero matto. Era la mia energia
vitale, erano le mie barriere che cadevano, il mio viaggio mentale. Fu
allora che presi ad avere cura di me stesso, educandomi da solo. Il punk
mi ha indotto a riflettere. <strong><em>“Spazio… bianco.</em></strong> <strong>–</strong> <strong><em>UCCIDETE LA BRUTTA RADIO</em> –</strong> <strong><em>Persone
di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa (Non so… delle volte mi stufo
di te cara, deve essere, ah, il tuo spray per capelli, o qualcos’altro)
Persone di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa (Sento il suono di
piedi che marciano… in Sunset Blvd. fino Crescent Heights, e qui al
Pandora’s Box, abbiamo davanti una enorme quantità di Persone di
Plastica) prendetevi un giorno e fatevi una passeggiata Guardate questi
nazisti governare la vostra città. Poi andate a casa e datevi una
controllata. Pensate che noi stiamo parlando di qualcun altro… ma voi
siete Persone di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa Ooo-Ooo-Ooo
Ooo-Ooo-Ooo Ooo-Ooo-Ooo Ooooooooh!” </em></strong>(<em>Plastic People – </em>Frank Zappa).<br />
<strong>C’è sempre un vincitore che viene esaltato al di là dei suoi meriti</strong>. Succede sempre dopo ogni <strong>elezione</strong>. Un <strong>giochino meschino</strong> che va avanti da sempre. <strong>Si prendono cura del tuo pensiero</strong>, ti gestiscono la vita, e come magnaccia ti consigliano la soluzione più saggia. <strong>Un mondo pieno zeppo di pregiudizi</strong>, di <strong>sputasentenze</strong>, di gente che si crede emancipata. <strong>Potreste dirmi per favore dove stiamo andando? Dove porta questa strada?</strong> Scusate ma mi sento un po’ preso per il culo, a <strong>camminare in fila indiana</strong>. E’ tutto buio. Che ci faccio qui? Ecco, chissà cosa direbbero oggi questi<strong> finti progressisti</strong> che ci massacrano le palle dalla mattina alla sera, di uno come <strong>Frank Zappa</strong>. Già a suo tempo la stessa sua razza, lo ha spinto e confinato verso quella <strong>tribù di invisibili</strong>. Perché era uno che ti disorientava <strong>Francesco</strong>, che <strong>ti prendeva a calci nei denti</strong>. Era <strong>uno che cercava di capire</strong>, e questo gli metteva paura. Durante i suoi <em>show</em>, lo spettacolo era arricchito da<strong> trovate sceniche</strong> pensate ed elaborate per non far calare mai la tensione. <strong>Baby-doll volanti</strong>, una <strong>giraffa di peluche</strong> masturbata da una <strong>marionetta</strong>, che eiaculava <strong>panna montata</strong> sul pubblico. Veri <strong>marines</strong> saliti sul palco a mostrare il loro animo, su un <strong>bambolotto</strong> che recitava il ruolo ingrato di un <strong>vietnamita</strong>. <em><strong>“Strumenti didattici” </strong></em>dichiarò <strong>Frank </strong>che <strong>rapiva i cuori degli audaci</strong>. Di certo <strong>le radio non mandavano mai le sue canzoni</strong>, e il pubblico rock convenzionale lo detestava, ieri come oggi. T<strong>roppo complicato per chi aveva solo voglia di fare surf, scopare, e imbottirsi di qualcosa, sentendo musica</strong>.
Gente che a loro insaputa era stata già presa a bastonate sulla
schiena. Sapete come va a finire ai piantagrane, li sbattono sulle prime
pagine dei <strong>giornali</strong>, e dopo li chiudono in una <strong>scatola</strong> gettandoli in fondo all’<strong>oceano</strong>. <strong><em>“</em><em>Liquame
che cola dalla televisione, lo strumento per dominarti il pensiero, la
spazzatura con cui ti nutrono, fino al giorno in cui non gli servirai
più. Non cercare aiuto. Nessuno baderà a te. La tua mente è totalmente
controllata, è stata fusa nello stampo e tu farai come ti viene detto
finché i diritti su di te saranno venduti. Tutto bene gente… Non toccate
il selettore!” </em></strong>(Frank Zappa).<br />
Quando ti devono annientare ti dipingono come<strong> fascista</strong>,<strong> comunista</strong>, <strong>xenofobo</strong>, <strong>nazista</strong>, <strong>sobillatore</strong>, usano tutto quello che gli fa più comodo. <strong>Sei come una bestiola, da curare e ammansire</strong>. Ho visto i poveri con il naso all’ingiu’ che risalivano la città. <strong>Mille euro al mese</strong>, più <strong>ottanta euro </strong>di <strong>bonus</strong>… sospensione… <strong>Viva L’Italia</strong>.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico </span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMABC1ZLP92LpIBqJ4xtLDy8egO-iC9QfZAZB2uL19MMuz15y0HwGxuJ4hdu1L_uMvTB14ha6LcGqauWjqthyFMiR2dG6muX9t6DgdRJcpGAE_qDBdI1zu55Z2H3HYn9ggWLYAcL5amqI/s1600/uccidete-la-brutta-radio-bartolo-interno.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1086" data-original-width="768" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMABC1ZLP92LpIBqJ4xtLDy8egO-iC9QfZAZB2uL19MMuz15y0HwGxuJ4hdu1L_uMvTB14ha6LcGqauWjqthyFMiR2dG6muX9t6DgdRJcpGAE_qDBdI1zu55Z2H3HYn9ggWLYAcL5amqI/s640/uccidete-la-brutta-radio-bartolo-interno.jpg" width="452" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-11917574627192542822018-01-16T23:47:00.002-08:002018-01-16T23:47:49.540-08:00Il tempo non aspetta nessuno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBEakJ0nIPuYlkyyk83iZ1vrxdSkaHooxPxqimcMi-mTtywOZIoYgiFVwY5F0GgEQQs7WltRulhlmMrLp5NXnKZQ2kzmWW4mdJZzwvnrq-lKKP4qZ9OdFe_1zRErGLungk-TWQlbNkMK0/s1600/Il-tempo-non-aspetta-nessuno-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBEakJ0nIPuYlkyyk83iZ1vrxdSkaHooxPxqimcMi-mTtywOZIoYgiFVwY5F0GgEQQs7WltRulhlmMrLp5NXnKZQ2kzmWW4mdJZzwvnrq-lKKP4qZ9OdFe_1zRErGLungk-TWQlbNkMK0/s640/Il-tempo-non-aspetta-nessuno-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong>Seduto in un bar bevo caffè</strong>,<strong> e fumo di tanto in tanto qualche cicca</strong>. Me ne sto con le tempeste sonore di <strong>Bob Dylan</strong> nelle orecchie, e cerco delle risposte che non troverò mai. Qualche giorno fa sono andato per l’ennesima volta all’<strong>ufficio di collocamento</strong>. Un<strong> impiegato</strong>
simpatico come un becchino delle pompe funebri mi ha detto che non
c’era trippa per gatti, per cui facevo meglio a ripassare tra qualche
mese. Nel frattempo frusciai ad alta voce: <strong><em>“vengo a mangiare da lei”</em></strong>. Il tizio ha fatto finta di non capire. <strong>Me ne sono andato camminando a testa bassa e rovistando nei pensieri più infimi</strong>,
mi sono diretto verso il quartiere dove sono cresciuto. Avrei voluto
fare un sacco di cose nella mia vita, anche amare qualcuno, invece non
facevo un cazzo di niente. <strong>I miei genitori avevano fatto sacrifici immensi per farmi studiare</strong>, perché sin da piccolo promettevo bene, e il loro sogno era quello di avere <strong>un figlio da chiamare Dottore</strong>. Avevano puntato tutto su di me, e io avevo fatto del mio meglio per non deluderli ma, a dire il vero, anche allora <strong>avrei voluto dileguarmi tra gli spiritati vagabondi della notte</strong>. A cosa sono serviti tutti quei <strong>sacrifici</strong> pensai mentre mi alzavo per andarmene dal bar, se sono uno dei tanti che rimpingua la fila dei <strong>disoccupati</strong>? Me ne sto in giro facendo cose odiose, come il <strong>venditore porta a porta</strong>.
Perché in questo cazzo di paese, vendere è l’unica prospettiva che ti
viene data. Certo, qualcosa rifilo e qualcosina riscuoto, ma è sempre
troppo poco per tirare avanti. <strong>Mi sento bello e inguaiato</strong>, e non ho un piano di riserva. Il tempo non aspetta nessuno, figuratevi uno come me.<br />
<strong><em>“Il tempo non aspetta nessun uomo e non mi aspetta. Sì il
tempo non aspetta nessuno e non aspetta me. Sfrutta la tua estate,
raccogli il grano. I sogni di una notte svaniranno all’alba. E il tempo
non aspetta nessuno.” </em></strong>(<em>Time Waits For No One</em> – The Rolling Stones).</span><br />
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> <strong>A furia di prendere randellate si diventa duri come il marmo</strong>.
Così i minuti passano e anche le ore… e poi i giorni, i mesi e gli
anni. Insomma, il resto del nostro tempo se ne va via in un baleno,
lasciandoci storditi e anche nauseati. <strong>Chissà perché teniamo duro di fronte a tutto</strong>. Siamo fatti così noi uomini. Non pensando che alla fine si diventa qualcun‘altro e <strong>si è vecchi in un colpo solo</strong>. Ho raggiunto <strong>Maria</strong> al suo <strong>negozio</strong>, perché <strong>quando ho voglia di parlare lei è l’unica che ascolta le mie disgrazie</strong>. Non appena mi vede sull’uscio della porta, mi mostra un sorriso complice e, avvicinandosi, mi enfatizza schietta: <strong>“<em>per essere qui, sei di nuovo nei guai”</em></strong>.<em> </em>Da
ragazzi avevamo provato a stare insieme ma non aveva funzionato, era
finita che quasi ci odiavamo. Facevamo le cose pensando di compiacerci,
ma in questo modo si combinano solo casini. In compenso, da allora, <strong>non avevamo più segreti fra di noi</strong>.
Ero andato da lei pensando di raccontarle le mie pene ma, non so
perché, non mi andava più di parlarle, e per la prima volta mi sentii a
disagio. Allora presi la sua mano, e lei sospirando si lasciò andare: <strong><em>“Bart quando esci dai sogni e vieni a vivere in questo mondo? Quando lo farai?”</em></strong><br />
<strong><em>Il tempo può tirar giù un palazzo o distruggere il viso di
una donna. Le ore sono come diamanti non sciupatele. Il tempo non
aspetta nessuno non regala niente. Il tempo non aspetta nessuno. E non
vuole aspettarmi. </em></strong>(<em>Time Waits For No One – </em>The Rolling Stones)<em>.<br />
</em><strong>Mesto me ne sono tornato nel mio buco</strong>. Non me la
sono sentita di speculare ancora sulla sua bontà, sul suo garbo… ma è
anche tempo di mettere le cose in chiaro con me stesso. Perché <strong>nella solitudine il divino sparisce per sempre</strong>. Mi sono messo ad ascoltare dei <strong>vecchi dischi</strong>,
così ad un tratto come se fossi passato con una ramazza su quella
nuvola di polvere che copre i ricordi, mi sono sentito più confortato.
Dopo tanto tempo mi sono riconosciuto nell’ombra… ed è stata una
bastarda e romantica <em><strong>The Last Chance Texaco</strong></em> di <strong>Rickie Lee Jones</strong>, che ha riportato a galla certe cose. Quelle <strong>cose che nascondiamo dentro di noi</strong> che,
non marcendo, non si mettono a puzzare. Anche se attraversando troppe
strade, lasciano sempre una scia di rimpianti e nuvole. Fu amore
travolgente e passionale sin da quando ancora ragazzino, nel <strong>1979</strong>, tenni in mano la copertina del suo<strong> omonimo disco di debutto</strong>. Era lei <strong>la donna che aspettavo e con cui sarei scappato verso la frontiera</strong>, con qualche blues nell’autoradio a farci compagnia. Mi aveva folgorato quello scatto che ritraeva <strong>Rickie </strong>con quell’aria da bambina capricciosa, mentre fumando uno sigarillo, se ne stava assorta nei suoi pensieri. <strong>Era lei la donna dei miei sogni, dei miei deliri notturni, delle mie scopate selvagge</strong>. Carne e anima, vizi e dolcezze. Era tutto quello che avrei voluto avere. <strong>Me ne restai appeso alle sue canzoni come un ragazzo in amore</strong>,
tra cicche di sigarette, gabbie e barattoli, poltrone di pelle coi
sedili sfondati, riviste ingiallite, una tromba di plastica, libri
strappati, bottiglie vuote, pezzi di ferro, una lampada ad olio. Una
tenda bruciata, un trenino elettrico, tre seggiole, un tavolino, qualche
lacrima e <strong><em>ninnenanne</em> suonate da un carillon mezzo rotto</strong>. Era
come se ci facevo davvero l’amore con quella donna, che mi scorticava
l’anima con quella voce che altalenava acuti lancinanti a bassi
minacciosi. E’ lei la ragazza distesa sul cofano nella copertina di <strong>“Blue Valentine”</strong>, il disco del randagio di <strong>Pomona</strong>, quel <strong>Tom Waits </strong>suo
compagno di scorribande notturne e anche amante. Una storia la loro,
che una volta finita lascerà un brutto segno nel suo cuore Quando arrivò
<em><strong>Pirates</strong></em> nel <strong>1981</strong> lei era ancora <strong>una vagabonda non paga di storie sporche e viziose</strong>. Fu nuovamente un incantesimo, e un lungo fremito mi attraversò. <strong>I demoni che nascondeva dentro di lei, erano anche i miei</strong>.
Così quella poesia disperata e magica con cui teneva in bilico le sue
canzoni palpitanti e fatali, miste a quella voglia di fuggire, mi
dicevano di nuovo la verità su quel freddo che avevo dentro e che mi
faceva scricchiolare le ossa. <strong>Non si può entrare da nessuna parte senza la chiave</strong>, <strong>in nessun cuore</strong>… ma in quei giorni avevamo gli occhi alla stessa altezza. Mentre girovago nel mio buco guardo la<strong> foto</strong> appesa al muro, risale a quando <strong>ero bambino e stavo in braccio a mia madre</strong>. C’è anche mio <strong>padre</strong>
con i baffi neri che sorride. È proprio vero che non si ha mai
abbastanza tempo, se non per pensare a se stessi. Mi ha fatto bene
ritrovarla mi sono sentito addosso lo stesso rovescio di pioggia, e quel
tentativo disperato di trovare una via d’uscita… ma <strong>il tempo non aspetta nessuno</strong>, figuratevi uno come me. </span><br />
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"> “<strong><em>Si
la stella passava dolcemente, la corrente continuava a scorrere. Si
eravamo tranquilli e rilassati. E la guardavamo volare. E il tempo non
aspetta nessuno. E non vuole aspettarmi. E il tempo non aspetta nessuno.
E non vuole aspettarmi.</em> </strong>(<em>Time Waits For No One</em> – The Rolling Stones).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;">Bartolo Federico </span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/i7O5Ony7Oa0/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/i7O5Ony7Oa0?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><br /></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-75712649705625504122018-01-10T21:08:00.000-08:002018-01-10T21:08:18.415-08:00Promesse Spezzate<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhA3oVI4gfuRXgPpI25KbHoyq9bNT4fbVLoSfLKI7shFzzw_z39S0pUDDLaNOqkz3GdAKPTncfVXsAhy1L3oSUwmjtl4En2IdRTpU9bvi3t0M-hSseAC0fKdL12ks7KQ8l5cJ4ohUTDTJg/s1600/promesse-spezzate-bartolo-giusto-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhA3oVI4gfuRXgPpI25KbHoyq9bNT4fbVLoSfLKI7shFzzw_z39S0pUDDLaNOqkz3GdAKPTncfVXsAhy1L3oSUwmjtl4En2IdRTpU9bvi3t0M-hSseAC0fKdL12ks7KQ8l5cJ4ohUTDTJg/s640/promesse-spezzate-bartolo-giusto-768x445.jpg" width="640" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong> L’amore è solo dentro quelle stupide canzonette da quattro soldi</strong>,
che fanno arricchire quei cantanti e discografici da strapazzo che le
mettono ancora in giro. Sono scritte e suonate a immagine e somiglianza
dei loro sogni… ma chi cazzo se ne frega del <strong>festival di Sanremo</strong>,
con tutti i problemi che abbiamo. Per uno come me poi, che ha preso da
tempo brutte abitudini e non ha più fiducia in nessuno, l’amore è solo
una bella e sana scopata, quando capita.<strong> Il mio compare di tavolino è davvero un tipo loquace</strong>, e da un bel pezzo mi cicaleggia vicino l’orecchio le sue inquietudini. <em><strong>“Li sento già gli innamorati</strong></em>, seguita a dire inveendomi contro; <em><strong>ehi stronzo, l’amore e quello che ti cambia la vita, che ti fa volare, e ti riempie di speranza”</strong></em>…. e <em>bla</em>, <em>bla</em>, <em>bla</em>,
via discorrendo. Ma a queste cose ci credono solo quei poveracci, che
ancora abboccano a quelle filastrocche. Certo, quando sei giovane e
preda dei furori infantili, sei giustificato: <strong>l’amore ti abbaglia la vista e il cuore, e ti rende vulnerabile</strong>.
Dopo, è come la pioggia e il vento. È un farsi compagnia, un tentare di
comprendersi nell’infinita differenza dei caratteri di ciascuno di noi.
Allungò un braccio e ordinò un whiskey. <em><strong>“Per sopportare meglio il marciume che mi porto appresso”</strong></em>,
asserì. Ho udito il sibilo della macchina del caffè dietro di me, e
sorridendogli ho vuotato il mio bicchiere. Mi sono messo a fumare,
cercando di far passare le ore di quel giorno di merda. <strong>Sono solo stronzate quelle canzoni</strong>.
Non hanno niente a che vedere con l’amore, folle, ribelle,
disinteressato e infuocato. Quello che ti contorce le budella e ti
ubriaca di passione. <em><strong>“Il fatto, amico mio, è che vogliamo prendere tutto per noi, senza mai pagare niente”</strong></em>, concluse, gettandosi dentro le viscere il <strong>J&B</strong> che il barista gli aveva posato sul tavolino. Poi, con tono scuro mi chiese: <strong>“<em>E tu, da quanto sei andato a fondo?</em>”</strong> Non è un posto cattivo il <strong>bar scommesse</strong>
dove mi trovo. Si sta tranquilli. Il titolare è un ragazzo che ci
lascia anche fumare… ma non troppo. Da lì dentro posso vedere la gente
passare di fretta, e sbirciare anche una fetta di cielo. Non è poco. La
maggior parte dei clienti sta radunata attorno a un tavolino in fondo
alla sala dove prepara le proprie scommesse, senza fare troppo baccano.
Navigano nella speranza di acchiappare, quantomeno, i soldi per la spesa
dell’indomani. Sembra di essere sospesi in un altro mondo, c’è una
strana atmosfera. Come se <strong>John Coltrane</strong> si fosse celato da qualche parte e suonasse un blues, in modo lieve ma doloroso. Mi piace questo posto… e anche quella <strong>ragazza</strong>
con tutti quei capelli sciolti di fronte a me che ha due labbra
fantastiche. Sembra una puttana, non lo dico in senso sprezzante, ma
solo per individuare le tipe per cui un uomo è pronto a fare follie, pur
di possederle. Le altre che uno incontra sono come l’aperitivo prima
del pranzo domenicale, come una pietanza un po’ sciapa. Questo loro lo
sanno bene. Difatti sono le più stronze, le più dure, le più arrabbiate
di tutte. <strong>Sono rientrato nel mio piccolo buco, e ho guardato le cose di cui mi circondo</strong>. Le <strong>chitarre</strong>, i <strong>dischi</strong>, la <strong>scrivania</strong>, i<strong> libri</strong>, e il <strong>divano</strong> malandato che mi ha lasciato in regalo il vecchio inquilino. <strong>Sullo scrittoio c’è la mitica macchina da scrivere di mio padre</strong>, che però non uso mai. Ho staccato il cellulare, ho acceso lo stereo e messo del blues a ciclo continuo. <strong>Sono andato alla finestra, dietro di me la musica si è fatta sempre più straziante</strong>.
Si resta soli senza rimedio. Succede sempre così quando hai smesso di
piacere. Chiodo schiaccia chiodo è la migliore soluzione. Ho preso la
chitarra e con le dita ho sfiorato le corde. Era intonata e pronta a
suonare. <strong>Non è altro che un combattimento la nostra esistenza</strong>,
fatta di rinunce, tristezza, piccoli e grandi dubbi. Allora si
retrocede verso la trincea, stanchi esausti, e non si ha più voglia di
combattere, ma solo di starsene lontani dal genere umano. Rintanati in
silenzio nel proprio pertugio. Quelli che hanno visto la mano della
fortuna cambiare rotta sanno che non c’è proprio nulla da vincere in
questa vita. <strong>Lei se n’era andata alla chetichella. Era fuggita di mattina presto</strong>.
Come anche a me era capitato di fare. Succede, a chi confessa qualcosa,
che provi un senso di paura, di vuoto. Può anche darsi che non aveva
retto alla mia confusione… ma non mi andava di darle alcuna colpa. In
fondo, non volevo neppure saperlo il perché. <strong>Sono andato a lavoro a piedi</strong>… <strong>è davvero piccola la mia città</strong>. Un paio di chilometri e l’attraversi tutta. Ho pensato a <strong>mia madre</strong> mentre camminavo. Una donna sola, battagliera, austera. <strong>Fumava Marlboro pacchetto duro, che comprava a stecche</strong>. Dopo passò alle <strong>Merit</strong>.
Quando la penso, lo sento ancora presente quell’odore di sigarette che
le impregnava i capelli ispidi. E la rivedo seduta vicino alla finestra
della cucina, silenziosa e assorta, con il busto piegato in avanti che
si regge il viso fra le mani. Ho attraversato la strada e ho sentito
dentro di me <strong>Bessie Smih</strong> cantare <em><strong>Shipwreck Blues</strong></em>. Come molta gente che soffre di <strong>depressione</strong>, anche lei nascondeva la bottiglia. Si comportava normale, mentre era esattamente il contrario. <strong>Se ne andava a fondo, imbarcando acqua da tutte le parti</strong>. Non era riuscita in alcun modo a trovare una rampa di salvataggio… e quei gorghi se l’inghiottirono piano piano. <strong>Era una bella donna, mia madre, sfortunata in amore come lo sono in tanti. Io l’ho amata – </strong>e anche molto – così com’era. Gli ultimi <strong>settecento dollari</strong> destinati alla droga li trovarono nascosti nella vagina a <strong>Billie Holiday</strong>.
Li aveva guadagnati in quel letto d’ospedale, dov’era ricoverata. Aveva
venduto ad un giornale i diritti sulla storia della sua vita. Ogni
tanto servirebbe fare come <strong>Sleepy John Estes</strong> per
dimenticare ogni cosa. Schiacciare dei pisolini nei posti più impensati…
è davvero un buon modo per staccare la spina e risollevarsi. <strong>John</strong> viveva a <strong>Brownswille</strong>, una squallida periferia del <strong>Tennessee</strong>, un esistenza precaria e indigente, insieme ai <strong>genitori</strong> e a <strong>quindici fratelli</strong>. <strong><em>“Quando sei nero, questo basta per farti vivere nella miseria”</em></strong>, ripeteva. Da piccolo fu colpito da un <strong>sasso</strong> e <strong>perse la vista dell’occhio destro</strong>. Suo padre gli regalò una <strong>chitarra</strong> che lui iniziò a suonare nelle feste e ai banchetti, facendosi accompagnare dal mandolinista <strong>James “Yank” Rachell</strong> e da suo cognato <strong>Hammie Nixon </strong>all’armonica.<strong> </strong>Un <em>bluesman</em> <strong>Sleepy</strong>
dalla voce rauca e sofferente, che arrivava a spezzarsi di commozione
nei momenti più intensi, eseguendo un blues semplice e scarno, ma assai
emozionante.<strong> L’aria era di nuovo fredda</strong>. Mi sono fatto un caffè e versato due dita di <strong>Jack Daniels</strong>
in un bicchiere. Ho acceso la lampada sulla scrivania. Non mi va di
firmare assegni in bianco, ed è per questo che non ho mai preteso nulla
da nessuno. Ho sentito un freddo pazzesco, e <strong>nella penombra della stanza ho visto molte cose di me</strong>. Mi sono reso conto che <strong>sono stanco di fingere</strong> e di dire bugie per cercare di salvarmi ad ogni costo. Ho sentito una profonda tristezza attraversarmi. <strong>Al diavolo!</strong> Alle volte occorrerebbe lanciarsi a volo d’angelo nel precipizio e senza paracadute. Il rullo del piano di <em><strong>Poor John Blues</strong></em> mi ha fatto tremare di paura. <strong>Sleepy John Estes</strong> iniziò a registrare nel <strong>1929</strong> in una stanza del <strong>Peadboy Hotel</strong> di <strong>Memphis </strong>per la casa discografica <strong>Victor</strong>. Fu in quelle <em>sessions</em> che incise anche una rivisitazione magnetica del classico<em> <strong>Milk Cow Blues</strong> </em>di <strong>Kokomo Arnold</strong>.<strong> </strong>Bisogna
stare attenti che non si finisca di sognare. Può accadere tutto in una
volta, senza che nessun campanello d’allarme ce lo segnali… <strong>ad un tratto si diventa pigri, abulici, e non si vuol fare più niente, neanche parlare con le nostre ombre</strong>.
Me lo disse lei una sera, mentre eravamo seduti a tavola, che
l’esistenza è una messa in scena. C’è ne andiamo tutti quanti in giro,
con la nostra pantomima, calandoci sempre più nel nostro personaggio… e
non c’è verso che si cambi finzione. Siamo attori e registi del nostro
film. Ho fatto una smorfia ed ho pensato che, alla fine, sono quelli che
hanno smesso di dire bugie ad essere chiamati pazzi. <strong>Sleepy John Estes </strong>era come <strong>un cane che aveva preso troppe botte</strong>,
e non si fidava più di nessuno. Sin da ragazzo gli piaceva starsene da
solo, e camminare nell’oscurità. Non aveva paura, era in quei meandri
che, in fondo, si sentiva a suo agio. Aveva un carattere ruvido,
difficile, e con<strong> l’ombra del male di vivere sempre presente nella sua anima</strong>.
Fu una vita durissima la sua. Se penso ad un volto per definire il
blues, quello è il suo. Senza dubbio. Dopo le incisioni per la<strong> Victor</strong>, se ne andò a <strong>Chicago</strong>, dove incise per la <strong>Decca</strong> e anche per la <strong>Bluebird</strong>, vivendo, però, sempre in modo assai precario. Arrivò a registrare anche con la <strong>Sun Records</strong>, prima che <strong>Sam Philips</strong> scoprisse <strong>Elvis</strong>. Era diventato quasi <strong>cieco</strong>: si ritirò e scomparve di scena, finendo nel dimenticatoio più assoluto. Nel <strong>1962</strong> lo riscopre, alloggiato in un <strong>fienile</strong> con la <strong>moglie</strong> e i suoi <strong>cinque figli</strong> alla periferia di <strong>Brownsville</strong>, il regista <strong>David Blumenthal</strong> che stava girando un<strong> documentario sul blues</strong>.
Una musica nata nella povertà e nell’ignoranza che, a dispetto del
tempo, non ha perso un grammo della sua magia. Una musica indefinibile
perché racchiude dentro di sé lo spirito stesso dell’uomo. <strong>“<em>Il blues non si scrive ma si vive”</em></strong>. Questo me lo ha detto <strong>Johnny Shines</strong>. Non sempre, ma è possibile dimenticare. <strong>Le strade traboccano di bar, di visi, di sorrisi, di cose che lei non avrebbe potuto darmi</strong>. Nel primo pomeriggio qualcuno aveva suonato più volte al <strong>citofono</strong>, ma non avevo risposto. <strong>Sleepy John</strong> è morto nella povertà più assoluta, i suoi funerali furono pagati da <strong>Michael Bloomfield</strong> e <strong>Ry Cooder</strong>, suoi grandi estimatori. <strong>Come sempre mi ha soccorso la musica. Mi ha salvato dal precipizio</strong>.
Forse, sarà stata colpa della luna, ma avevo trovato ciò che cercavo.
Quando ho smesso di prestarle attenzione, ho pensato che <strong>a quell’ora della notte solo i lupi mannari erano in giro</strong>, e chi viaggia dalla parte opposta della strada. Il<strong> dolore</strong>, però, si era tramutato in <strong>rabbia</strong>, ed allora sono uscito. I miei passi risuonavano sul selciato, e faceva un freddo boia. <strong>Ho camminato per dei chilometri, nascosto nel buio</strong>. I blues continuavano a venire giù, come in un diluvio. <strong>Nudo, diritto, silenzioso, immobile, ho ascoltato il vento</strong>… ed era come se mi parlasse. In quelle folate ho avvertito<strong> l’anima di mia madre</strong>,
e anche di altri che non ci sono più. E’ probabile che non abbia saputo
comprendere il suo disagio e prendermi cura di lei. Avevo il morale a
terra. Forse non ho capito mai nulla… ma forse un giorno… Forse,
domani… </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h1 class="entry-title">
<span style="font-size: small;"><span style="font-weight: normal;">Bartolo Federico</span></span></h1>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3497296292271677185.post-88750057336120613642017-12-27T03:19:00.000-08:002017-12-27T03:19:00.737-08:00Viaggiatori nella Notte<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7ELguswcLylbg-7NhnwzuJ3pAN4CfUuEU3Kw3yAK6mm-ZMoHvxh9mNf0UPXyf6W4olDdMw7NXR2tzw1o4VyyhqlT5asAOU9pQwPwEu0JHueLi3kvVRMvN3Mn_wjirNCWLWNBxsPPrvWU/s1600/viaggiatori-nella-notte-bartolo-768x445.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="445" data-original-width="768" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7ELguswcLylbg-7NhnwzuJ3pAN4CfUuEU3Kw3yAK6mm-ZMoHvxh9mNf0UPXyf6W4olDdMw7NXR2tzw1o4VyyhqlT5asAOU9pQwPwEu0JHueLi3kvVRMvN3Mn_wjirNCWLWNBxsPPrvWU/s640/viaggiatori-nella-notte-bartolo-768x445.jpg" width="640" /></a><span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><strong> L’aria sapeva di temporale</strong>. Camminavo di sbieco con le mani nel soprabito, attraversando la notte. Guardai l’orologio. Erano le due passate da un quarto.<strong> Il cuore mi batteva come fosse un motore ingolfato e gorgogliava nostalgie brucianti</strong>.
In qualche modo, ognuno di noi si porta appresso le proprie menzogne,
riflettei, senza le quali è impossibile tirare avanti… ma bisogna saper
mentire, e non tutti sono in grado di farlo. <strong>Matilda</strong>
non c’era mai riuscita. Lo compresi subito, dalla prima sera che uscimmo
insieme. I suoi occhi erano di un azzurro cielo, che ci si poteva
specchiare. <strong>Occhi troppo puliti per avere imparato a dire bugie</strong>. Accesi una sigaretta di controvoglia, tirai una boccata e la gettai via. Specchiandomi nella vetrina di un <strong>negozio di articoli da regalo</strong>, notai che avevo la faccia greve e dolente, <strong>la faccia di un blues</strong>.
In fondo, le nostre falsità ci fanno sopportare anche quelle degli
altri, seguitai a pensare. E mi sentii come un mucchio d’avanzi, gettati
via dopo il cenone di capodanno. <em><strong>“Cavalieri nella tempesta /
Cavalieri nella tempesta / nati in questa casa / buttati in questo
mondo / come cani senza un osso / come attori senza la parte”</strong></em> (<em>Riders On The Storm</em> – Jim Morrison). Non c’è niente di gratuito in questo mondo, neanche la pietà. <strong>Alla fine è sempre la nostalgia che ci permette di restare in piedi</strong>,
che ci rapina i sentimenti, che fa scattare quella molla e ci salva
dalla tempesta. Anche quando pensiamo di esserci liberati per sempre da
quella cosa che ci faceva penare, non sappiamo mai se lei ha lasciato
noi. Pioveva sempre. Accidenti. Il vento sferzò la pioggia strizzandola.
A che serviva prendersela con gli altri, è sempre con noi stessi che
dobbiamo fare i conti. Come nodi che vengono al pettine, abbiamo tutti
qualcosa da regolare. <strong>Camminavo lento, con la sottile percezione di aver inseguito le cose sbagliate</strong>… e quella notte non ebbe fine. <strong>Sono sempre stato il miglior nemico di me stesso</strong>. Nulla da invidiare a nessuno, per questo. <strong>Ho commesso un errore dopo l’altro</strong>, ho abbassato la guardia e mi sono fatto fottere dalle circostanze. Erano le quattro e tre quarti della notte. <strong><em>“Quando sei strano i volti vengono fuori dalla pioggia. Quando sei strano nessuno ricorda il tuo nome”</em></strong><i> </i>(<em>People Are Strange – </em>Jim
Morrison). Attraversai la strada, nel momento esatto in cui un’auto
sfrecciò veloce e mi schizzò del fango sul soprabito. Al <strong>market</strong> aperto <strong>24 ore su 24</strong>, comprai un giornale, latte e biscotti in offerta speciale. Nel distributore automatico presi le sigarette e un accendino.<strong> Dovevo smettere di fumare</strong>.
Con quello che costavano e con il poco denaro che guadagnavo dovevo
pensare solo ai bisogni primari. A conservarmi. Dopo tutto, non è che
abbia mai avuto grandi pretese, anche quando frequentavo l’altra vita,
quando avevo un lavoro stabile. Adesso, a furia di scagliare colpi alla
cieca, mi sentivo vuoto e senza prospettive. <strong>Avevo perso tutte le forze, ero inerte. Ma dovevo pur esistere</strong>. <span style="line-height: 1.4em;">Stavo in silenzio, seduto sulla poltrona, ascoltando la pioggia che crepitava sul vetro e <strong>“</strong></span><strong>The Boatmnan’s Call”</strong> <span style="line-height: 1.4em;">di </span><b style="line-height: 1.4em;">Nick Cave</b><span style="line-height: 1.4em;">. Mi assopii. Avevo sempre lavorato come <strong>operaio in una fabbrica di profilati d’alluminio</strong>, impiegato alla fusione. In quella fabbrica avevo conosciuto <strong>Matilda</strong>. Il mio amore. Era un<strong> addetta alle pulizie</strong>. Quando la vidi la prima volta, dentro quella <em>salopette</em>
celeste di una taglia più grande, aveva i capelli raccolti dentro una
cuffia bianca e armeggiava con scope e strofinacci, mi sembrò stupenda.
Come lo era d’altronde. E mi tremarono le gambe, quando mi accorsi che
mi osservava con interesse. <strong><em>“</em></strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Ora, ti amerò / Finché dal paradiso non pioverà più / ti amerò finché le stelle non sprofonderanno dal ciel o/ Per te e per me”</strong>. </i>(<em>Touch me</em> – Jim Morrison)<i style="line-height: 1.4em;">.</i><span style="line-height: 1.4em;"><strong> Anna</strong> mi svegliò delicatamente, toccandomi la spalla. Possedeva una copia delle chiavi di casa che gli aveva dato <strong>Matilda</strong>
e che io le avevo lasciato. Tutto era tale e quale a quel giorno in
cui se ne era andata. Anche gli oggetti sui mobili di casa erano nella
stessa posizione di quando c’era lei. Aprii gli occhi mostrandole un
sorriso stinto.</span><span style="line-height: 1.4em;"><strong><em> “</em></strong></span><strong><em>Vieni a mangiare Al</em></strong> <span style="line-height: 1.4em;">– mi borbottò – </span><em><strong>si fredda </strong><strong>tutto”</strong></em><i style="line-height: 1.4em;">.</i><span style="line-height: 1.4em;"> Era il mio <strong>angelo custode</strong>.
Poco prima di cedere al sonno, una paura tremenda mi aveva invaso. Poi
la sentii respirare e ascoltai la sua voce, la vidi alzata davanti a me.
Tutto era ritornato… lì in un attimo. </span><span style="line-height: 1.4em;"><em><strong>“</strong></em></span><em><strong>Nella
casa dell’amore / Io conosco il sogno / Di cui vai sognando / Io
conosco la parola / Che spasimi per udire /Io conosco la più profonda e
segreta delle tue paure”.</strong></em><i style="line-height: 1.4em;"> </i>(<em>The Spy</em> – Jim Morrison).<b> </b><span style="line-height: 1.4em;">Cenammo, ascoltando il <strong>notiziario delle 19.30</strong>.
Aveva preparato una zuppa di ceci con i crostini di pane e del purè di
patate. Mentre mangiavamo, mi schernì con tenerezza , provando a tenermi
alto il morale. Come avrei fatto senza di lei, mi chiesi, restituendole
un sorriso dolce. Mi aiutava perfino con l’affitto di casa quando non
c’è la facevo a pagare. Tra un boccone e l’altro mi raccontò che <strong>avevano arrestato un ragazzo</strong>, perché aveva preso una barretta di cioccolata in un supermercato. Il personale lo aveva inseguito e consegnato alla polizia. <strong>“</strong></span><strong><i style="line-height: 1.4em;">Solo serpi che strisciano si comportano in questo modo. Gliela avrei pagata io quella barretta </i></strong><i style="line-height: 1.4em;">– </i>disse<i style="line-height: 1.4em;"> – <strong>se
fossi stata lì. E anche adesso, se servisse a qualcosa. Non c’è più
umanità nella gente, siamo l’uno contro l’altro, pronti a scannarci, ad
ammazzarci, per un nonnulla. In un paese dove la cancrena è nello Stato,
dove tutti razziano, dove si commettono crimini terribili, dove
sciacalli internazionali ci succhiano il sangue, dove si spezzano le
vite di milioni di persone, riducendole sul lastrico economico e morale.
In un paese dove nessuno ha mai pagato per le stragi commesse, devi
mandar giù che un ragazzo venga condannato a due anni di carcere per una
simile stupidaggine. Mi chiedo Al, ma che razza di giudici abbiamo, se
non hanno provato nessuna vergogna, ad emettere questa sentenza?. Se non
hanno provato nessun disagio a guardare i loro figli in faccia, la
sera. E’ un paese che merita solo l’indulgenza del disprezzo”</strong></i><span style="line-height: 1.4em;">
– affermò… e lo disse con rabbia, quasi gridando. Per quanto mi
riguardava, da un bel po’avevo smesso di credere alla giustizia degli
uomini e anche a quella divina. <strong>“</strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Questa
e’ la fine / bellissima amica / Questa e’ la fine / Mia unica amica/ la
fine / dei nostri piani elaborati / la fine di ogni cosa stabilita / la
fine / né salvezza o sorpresa / la fine…”</strong> </i>(<em>The End.</em> – J Morrison) <strong><em>“</em></strong><strong><em>Bisogna che vi arrangiate</em></strong><span style="line-height: 1.4em;"><strong><em>!”</em></strong></span><span style="line-height: 1.4em;"> ci avevano detto i capi dell’azienda.<strong> Le classi dirigenti e i mafiosi usano gli stessi metodi per liquidarti</strong>. Sacchi d’immondizia da gettare in qualsiasi momento. Questo eravamo. <strong>La nostra vita non contava un cazzo</strong>. I loro numeri parlavano chiaro. <strong>Era più conveniente spostare la produzione in Cina</strong>, dove il lavoro non viene pagato come dovrebbe essere. Dove i più elementari <strong>diritti uman</strong>i vengono calpestati e nessuno fa nulla. Anzi, <strong>si fa finta di non vedere</strong>. Perché il grasso cola. <strong>Quel giorno ci contestarono quasi di esistere</strong>. La <strong>globalizzazione</strong>, il <strong>liberismo</strong>, la <strong>concorrenza</strong>, l’<strong>euro</strong>… di tutto questo ne avremmo tratto solo benefici. Saremmo <strong>cresciuti economicamente</strong>, diventati <strong>competitivi</strong>, questo andavano blaterando i <strong>politici</strong>, nei loro <strong>dibattiti televisivi</strong>, sorretti da <strong>giornalisti</strong> ed <strong>economisti</strong>, pagati per assecondarli. C’era un odore nauseabondo, che mi perforava le narici. Il piano era chiaro, <strong>ci volevano rendere ancora più servili</strong>, cosi proni ai loro comandi da accettare qualunque decisione avessero preso a riguardo delle nostre vite. Avevano pensato a <strong>salvare le banche</strong>,
con i loro bilanci fittizi e le loro schifezze perpetrate a scapito di
tutti noi, le uniche responsabili di questo dolore collettivo. Aziende
con un <strong>evasione fiscale</strong> che avrebbe risanato l’intera economia. Ma dubito che in quelle stanze gli <strong>agenti del fisco</strong> sarebbero andati a verificare. Piuttosto, lo <strong>Stato</strong> aveva trovato il modo di raggranellare il denaro per rimpinguargli gratuitamente le casse. <strong>Stavano rendendo il lavoro un illusione</strong>, un miraggio che, se e quando lo ottenevi, era facilissimo ricattarti. <strong>La solita storia dei ricchi contro i poveri</strong>, ma questa partita si stava giocando con una crudeltà senza pari. Mai fidarsi degli uomini, è come farsi uccidere. <strong><em>“</em></strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>I
servi hanno il potere / gli uomini cane e le loro meschine donne /
Tirano su povere coperte / I nostri marinai / Sono stanco delle facce
austere / che mi fissano dalla tv / Torre / ci voglio delle rose dentro”</strong>. </i>(<em>The Severed Garden</em> – Jim Morrison).<b> </b><span style="line-height: 1.4em;">Ci sarebbero voluti i <strong>poeti al potere</strong>.
Forse, gli unici in grado di ridare una nuova anima al mondo.
Nonostante tutto, avevo provato a reagire allo sconforto, mi ero dato da
fare. Finito il periodo di <strong>cassa integrazione</strong> e di
lotta, per tentare di riprendermi il posto perso, cercai di svolgere
qualsiasi mansione. Accettavo tutto quello che mi si proponeva. <strong>Guardiano notturno</strong> nei cantieri edili, <strong>imbianchino</strong>, <strong>autista</strong>, anche piccoli lavoretti a servizio di chiunque mi pagasse la giornata. Cercavo di andare avanti, al contrario di <strong>Matilda</strong>, che dopo il<strong> licenziamento</strong> era precipitata nella notte più nera. Si era distaccata da tutto e da tutti, non riusciva a reagire a quello stato di cose. <strong>Era finita per inghiottirsi dentro se stessa</strong>,
ogni giorno di più. Il suo fu un viaggio spaventoso nelle tenebre. Mi
versai un whisky e accesi una sigaretta. Il buio si era insediato nella
stanza. Per non restare da solo, cercai il suo disco preferito, <strong>“Closing Time”</strong> di un giovanissimo </span><b style="line-height: 1.4em;">Tom Waits</b><span style="line-height: 1.4em;">, allora scombussolato di romanticismo. La puntina si poggiò frusciando: <strong><em>“</em></strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Una
ninnananna alla mia piccola, non piangere tesoro. Ci sono gocce di
rugiada sulla finestra, caramelle di gelatina nei tuoi pensieri. Stai
scivolando nel mondo dei sogni mentre reclini, lentamente il capo”</strong>. </i>(<em>Midnight Lullaby </em>Tom Waits<span style="line-height: 1.4em;">).
Mi alzai dalla poltrona per prendere il posacenere. Lo feci lentamente,
molto lentamente, per paura che andassi del tutto in frantumi. </span><span style="line-height: 1.4em;">Mentre il cielo diventava color rame,<strong> quella città mi sembrò un posto non peggiore di altri</strong>. Entrai in un <strong>bar</strong> qualsiasi e mi sedetti sullo sgabello vicino al banco. La <strong>cameriera</strong>
mi accolse con un sorriso opaco e senza quei formalismi del cazzo che
mi mettevano a disagio. La osservai mentre preparava il mio Johnny
Walker etichetta nera. Era bella, ma di quella bellezza artificiale.
Troppo perfetta, per uno come me. Quando mi passò il whisky e si mise a
parlottare del più e del meno, mi sembrò più vera di come mi era apparsa
di primo acchito. Un altro <strong>viaggiatore nella notte</strong>, rassomigliante a </span><strong>Jena Plissken</strong><span style="line-height: 1.4em;">, prese posto accanto a me. Mi scrutò con occhi vitrei e ordinò un <em>bourbon</em> liscio. <strong><em>“</em></strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Lo
sai il giorno distrugge la notte. La notte divide il giorno. Ho provato
a correre. Ho provato a nascondermi. Fatti strada verso l’altro lato”</strong>. </i>(<em>Break On Through</em> – Jim Morrison)<b> </b><span style="line-height: 1.4em;"><strong>Erano tre anni che non stavo più con una donna</strong>. Da quando <strong>Matilda</strong>
si era ammalata. Da quando diceva che voleva addormentarsi, per non
svegliarsi più. Allora non provai mai a forzarla, e pensandoci adesso,
probabilmente sbagliai. Forse lei non si era sentita più desiderata, ma
io l’amavo con tutto me stesso e avevo solo paura di ferirla, di farle
del male. <strong>A volte, non sai mai qual è la cosa giusta da fare</strong>.
Uscii dal bar e presi a camminare senza meta per la città. Era solo un
modo per non impazzire del tutto. Non riuscivo a dormire e, per seminare
i miei spettri, vagare nell’ombra era diventato quasi un obbligo. Le
volte che mi capitava di non aver voglia di muovermi, restavo chiuso in
casa. Mi accadeva di chiamarla ad alta voce e continuare a farlo
pensando che lei mi rispondesse… ma <strong>i morti non parlano</strong>. <strong><em>“</em></strong></span><strong><i style="line-height: 1.4em;">Reami
di felicità, reami di luce. Qualcuno è nato per vivere benissimo.
Qualcuno è nato per stare in delizia. Qualcuno è nato per una notte
senza fine..” </i></strong>(<em>The End of the night</em> – J. Morrison<span style="line-height: 1.4em;">).
Quella mattina risvegliatomi, misi sul fornello la macchina del caffè e
aspettai che venisse fuori. Lo versai in due tazze e ancora fumante ne
portai una a <strong>Matilda</strong>, che sonnecchiava raggomitolata
nel letto. La baciai tra i capelli come facevo sempre, lei scoperchiò le
coperte e mi abbracciò. Fu un abbraccio inconsueto, forte e lungo… ma
solo dopo mi resi conto che non lo aveva mai fatto in passato. <strong><em>“</em></strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Prima
che tu diventi incosciente. Vorrei un altro bacio Un’altra possibilità
di grande felicità. Un altro bacio, un altro bacio. I giorni sono
luminosi e pieni di dolore. Prendimi nella tua sottile pioggia”</strong> </i>(<em>The Crystal Ship</em> – J. Morrison)<b>. </b><span style="line-height: 1.4em;"><strong>Anna</strong>
mi attese tutto il giorno sotto il portone d’ingresso… e non permise a
nessuno di avvicinarsi e neanche di contattarmi al telefono. Quando mi
vide svoltare l’angolo del palazzo, mi venne incontro. Non ci fu bisogno
che dicesse nulla, lessi tutto in quello sguardo perso nel vuoto, in
quell’abbraccio senza fine che mi diede. <strong>Se ne era andata per sempre, ingerendo barbiturici</strong>. Così è la vita. E’ così che tutto finisce! <strong>Anna</strong> aveva suonato alla porta, senza ottenere risposta. Suonò ancora una volta. Niente. Alla fine, apri con la chiave e trovò <strong>Matilda</strong>
riversa sul letto. Dal controllo che fecero gli inquirenti non risultò
che avesse lasciato alcun biglietto per spiegare il suo gesto. <strong>A quel punto la mia guerra era terminata</strong>. Perché, finché si lotta, ci si aggrappa alla speranza; dopo si penetra sgomenti dentro al buio. Nel nulla più assoluto. <strong><em>“</em></strong></span><strong><i style="line-height: 1.4em;">Yeah, vieni / Quando la musica é finita / Quando la musica é finita, / Spegni le</i> <i style="line-height: 1.4em;">luci / spegni le luci</i></strong><span style="line-height: 1.4em;"><strong>…<em>“</em></strong> </span>(<em>When The Music’s Over</em> – Jim Morrison).<b style="line-height: 1.4em;"> </b><span style="line-height: 1.4em;">Qualcuno
mi consigliò di lasciare quella casa, ma non l’ascoltai. Era l’unico
modo per sentirla ancora viva, per continuare a parlarle, per seguitare
ad amarla. <strong>Il cielo si punteggiò di stell</strong>e. Attraversai la notte, prima con passi lenti, poi sempre più spediti. <strong>Un viaggiatore solitario si spinge sempre più lontano. Ma fino a dove si può arrivare?</strong>
Dove bisogna che si fermi? Nessuno lo sa con precisione. Entrai in casa
che erano quasi le cinque della stessa notte, il giorno dopo. Mentre
ululavo alla luna, nella semioscurità avevo notato <strong>due ragazzi</strong> che camminavano abbracciati, come </span><b style="line-height: 1.4em;">Dylan </b><span style="line-height: 1.4em;">e </span><b style="line-height: 1.4em;">Susan Rotolo</b><span style="line-height: 1.4em;">, nella foto di copertina di </span><span style="line-height: 1.4em;"><strong>“</strong></span><strong>The Freewheelin”</strong><span style="line-height: 1.4em;">.
Le era sempre piaciuto quello scatto, sosteneva che noi assomigliassimo
a quei due. Abbassai le palpebre che quasi mi s’incenerirono e mi venne
un capogiro che dovetti appoggiarmi alla parete. Quando mi scollai, il
cuore prese a battermi in maniera inaudita e iniziai a sudare freddo.
Nel chiaroscuro del salottino, strinsi quell’ellepì e mi avvicinai alla
finestra. Scostai la tenda, una bava di luce penetrò. <strong>Tirai fuori il disco e un foglietto cadde a terra</strong>. Lo raccolsi e, con le mani che mi tremavano, lessi quell’ultimo brandello di vita: <strong>“</strong></span><i style="line-height: 1.4em;"><strong>Sei l’essenza di tutti i miei sogni, Al. Ti amo. Come un’altra, voglia Dio, possa amarti. Matilda”</strong>. </i>A ricordo di <i style="line-height: 1.4em;"><b>Jim Morrison</b></i><b>,</b><i style="line-height: 1.4em;"><b> Re Lucertola.</b></i></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: black; font-family: arial, helvetica, sans-serif;"><i style="line-height: 1.4em;"><b>Bartolo Federico </b></i></span></div>
Bartolo Federicohttp://www.blogger.com/profile/06388019883502222379noreply@blogger.com5