martedì 12 marzo 2013

Accelerando Nel Vento


Nel 1978 avevo quindici anni e con Alessandro Maugeri, un mio compagno di classe che era uno svitato come me, ce ne andavamo a zonzo per la città in cerca di emozioni forti. Ale era un tipo chiacchierone che raccontava frottole, ma buono come il pane e grandissimo fan di David Bowie. Era talmente dentro quel personaggio che lo emulava in tutto e per tutto. Si abbigliava e si truccava, si dipingeva le unghie delle mani proprio come lui e, pur non essendo gay, assunse movenze femminili. Era più forte di lui quel voler essere a tutti i costi al centro dell’attenzione. Gli piaceva alimentare tensione, provocare, sbeffeggiare l’ordine costituito, essere indisponente. Era un aspetto che il rock più trasgressivo ci aveva insegnato e che lui metteva in pratica. Ma questo suo modo di essere, il più delle volte, era male interpretato da chiunque persino  dai nostri stessi coetanei che ci isolarono, o forse, a pensarci adesso, dai quali ci eravamo isolati. Quello che a noi interessava era il rock e i personaggi che via via andavamo scoprendo. Del resto, passando il nostro tempo a cercare di tradurre Lady Godiva dei Velvet Underground, che cazzo avremmo mai fatto ad una loro festa di compleanno?

Io, da par mio, ero il suo esatto contrario, taciturno e facilmente irritabile, pronto a digrignare i denti se le cose prendevano una brutta piega. Portavo capelli lunghi, jeans sdruciti e giubbino di pelle nero, comprato insieme a degli stivali con la punta ricamata stile cow boy al mercato dell’usato di Ponte Americano nella bancarella del signor Ferrari. Allora, ma anche adesso, mi piacevano molto più di Bowie, Lou Reed e Iggy Pop (che in quel periodo erano molto vicini al Duca Bianco), ma anche Elvis, Little Richard, Gene Vincent e Jerry Lee Lewis.

Il bar di fronte la RTP, l’emittente televisiva locale, aveva la saletta e un juke box. Ci andavamo a prendere il caffè che ci dividevamo fumando Lucky Strike (allora si poteva ancora fare) e ascoltavamo Stay di Jackson Browne. Quel falsetto di David Lindley ci faceva letteralmente impazzire ed eravamo capaci di ascoltarla dieci volte di seguito quella canzone, per poi passare a Miss You dei Rolling Stones. Ale allora si metteva a ballare e cantando mimava Mick Jagger, mentre io mi smascellavo dalle risate. Finiva sempre che il signor Giuseppe, il proprietario del bar, spazientito dal nostro atteggiamento, ci allontanava perché facevamo troppo casino e disturbavamo gli altri clienti. Ma questo è il rock, è quel che ti combina quando va in circolo.

Jackson Browne mi stette da subito simpatico. Pur essendo una star di prima grandezza, aveva un atteggiamento di estrema umiltà, sembrava il vicino di casa di quelli buoni e generosi. Questo suo modo di essere, oltre alle sue belle canzoni, lo fecero amare da un vasto pubblico e anche qui da noi riscosse un buon successo e fu davvero un anomalia, dato che questo paese con il rock americano non è che sia mai andato a braccetto.

Lo stesso atteggiamento che aveva allora lo ha conservato intatto fino a giorni nostri. Il suo tour acustico di un qualche anno fa, che ha toccato la Sicilia, mi ha fatto riamare un musicista ancora capace di coinvolgere la platea, ispirato e affabile , sempre pronto a mettersi in discussione. E poi, che invidia per tutte quelle chitarre acustiche in bella mostra sul palco che ha suonato meravigliosamente bene! Jackson è stato anche un uomo impegnato nel sociale. Fu sua, infatti, la battaglia contro il nucleare e l’organizzazione del grande concerto-evento No Nukes in cui parteciparono i più grandi nomi del rock a stelle e strisce.

Running On Empty fu un disco che all’epoca ascoltai parecchio, anche perché fu talmente grande il successo da essere di facile reperibilità nei negozi della mia città. A dispetto dei dischi che aveva prodotto per il suo amico Warren Zevon, un musicista che le cronache di quel tempo raccontavano essere scorbutico e solitario, ubriacone, drogato, attaccabrighe, insomma un vero figlio di puttana, lo sentivo a pelle che sarei andato d’accordo con quel tizio e la sua musica e lo andavo cercando come una pepita d’oro.

L’incontro avvenne in maniera del tutto fortuita e dopo qualche anno. Era il 1981 e, mentre scartabellavo in negozio i dischi nel reparto delle novità, mi si piazzò davanti la copertina rosso fuoco di “Stand In The Fire”. Me la ricordo come fosse oggi quell’emozione bruciante che provai nel tenere quell’album tra le mani. Il cuore mi batteva forte quando adagiai la puntina dello stereo sul disco e la musica mi avvolse. Quel vinile era una selezione live di cinque concerti che Warren aveva tenuto al Roxy di Los Angeles e raccontava di un musicista in grande forma che tirava alla grande di rock e di altro. I titoli delle canzoni erano tutto un programma e la chitarra solista affidata a David Landau graffiava che era una meraviglia. Mi ritrovai dopo un paio di ascolti a fare il verso del lupo di Warewolwes Of London che poi è la sua canzone più famosa.

Warren è sempre stato un musicista atipico, uno tosto, mal avvezzo ai compromessi e se, ad un ascolto fugace il primo nome che viene in mente ai più è Springsteen (i due collaborarono nel disco “Bad Luck Streak In Dancing School”, pubblicato nel 1980) andando più in fondo alle canzoni e alla sua vita ci si rende conto che è molto vicino al mondo oscuro di Willy De Ville, e non solo per la splendida cover che il gitano ha fatto di Carmelita. Cover, detto per inciso, che ha subito lo stesso trattamento che fece Hendrix a “All Along The Watchtower” di Bob Dylan. Ovvero, come una grandissima canzone può diventare un capolavoro.

Mister De Ville dal quel repertorio avrebbe potuto attingere a piene mani e sono certo che sarebbero state tutte delle meraviglie come Carmelita perché, oltre al fatto che Warren scrivesse sopra la media, Willy era uno che quando cantava e arrangiava una canzone sapeva quali strade prendere. D’altronde, e lo dico senza tema di smentita, è stato il più grande cantante bianco di rock e soul mai apparso sulla scena mondiale. Qualsiasi canzone in mano sua (anche l’elenco telefonico) avrebbe emozionato . Era il cuore e l’anima, era la musica fatta persona.

Zevon non aveva di certo l’aspetto della rockstar, troppo dimesso, troppo umile e fin troppo sincero con quel rock proletario a tinte forti messo a servizio di chi non c’è la fa, di chi è in lotta per la sopravvivenza. Raccontare in modo diretto e surreale come fosse uno scrittore di noir di eroinomani, bari, pistole e avvocati, di vita spericolata di quella vera, di quella vissuta sulla propria pelle, e mischiarci dentro ballate che sanno spellare il cuore fino a farlo grondare sanguinate non aiuta a uscire dal buio per andare in cima alle classifiche, anzi porta dritto in fondo all’oblio, che poi è come essere nell’anticamera per l’inferno.

Il mondo musicale che conta lo ha sempre bistrattato, forse anche detestato. Sin dall’inizio nessuna casa discografica lo voleva far incidere. Solo la testardaggine e il carisma di Jackson Browne gli hanno permesso di ritrovarsi in sala d’incisione con la crema del rock americano. Ma sempre in pochi si sono accorti dei suoi dischi, della bellezza delle sue canzoni. alla fine ci è voluta la mano pesante di Bob Dylan per sdoganarlo al grande pubblico, ma è stata la gloria di un attimo. Quando Bob seppe della sua malattia, inserì nella scaletta dei suoi concerti alcune sue canzoni e questo gli diede visibilità. Il gesto fu molto apprezzato dallo stesso Warren, tanto che nel disco “The Wind” che stava incidendo in compagnia di tanti amici che si erano stretti a lui, mentre il tumore lo divorava, per ricambiare registrò una commovente versione di Knocking On Heavens Door.

Lei gli dice di pensare alla necessità di sentirsi libera. Lui dice di non comprendere. Lei gli prende la mano dicendo che nulla si è realizzato nel modo che aveva previsto. E’ come molte donne, lui non ne trova una che sia anche amica. Lei pende da metà del suo cuore, lui non può possederne la rimanente parte, così le dice di accelerare nel vento. Quindi condivide sulla necessità che lei ha di sentirsi libera. Lei dice che potrebbe pure restare con lui, ma sarebbe semplicemente un capriccio (Hasten down the wind)


E’ stata tutta colpa del “Live at the Main Point” di Bruce Springsteen. L’ascolto di quel disco ha distrutto le barriere protettive che avevo alzato in fondo a me stesso, dove mi ero rifugiato da chissà quanto tempo. All’improvviso tutto è crollato sotto i colpi di canzoni che non avevo dimenticato come avrei potuto e mi sono sentito nuovamente fragile, miseramente me stesso ma finalmente vivo. Ed allora ho continuato a percorrere quei sentieri e sono andato verso casa raggomitolato nelle tracce di Genius, che è una buona raccolta di canzoni di Warren Zevon. I brividi mi hanno accarezzato, non avevo fatto in tempo a nascondere tutto, ho pianto sommessamente mentre ascoltavo “Hasten down the wind” e mi sono chiesto perché ero stato via tutto quel tempo, come avevo fatto senza di lui, senza quel rock che mi ha protetto, che mi ha fatto diventare adulto, quel rock che mi ha insegnato più cose di mille libri di storia. Ed allora, stando ben attento a non fargli del male, col cuore che mi batteva forte l’ho stretto ancora una volta tra le mie braccia. Se anche voi non avete più fretta, se vi va, tenetelo stretto, molto stretto al vostro cuore almeno per un po’, fin quando non gli viene sonno, fino a quando non si addormenta, laggiù, in paradiso.

Bartolo Federico










2 commenti:

  1. Federico un post da innamorarsi...
    Hai riempito il mio cuore di nomi, di album, che tengono sempre compagnia alle mie spesso in questo momento vuote giornate.
    Melodie che hanno tracciato sentieri della nostra vita, personaggi diversi, con storie diverse, ma uguali nella lora immensa grandezza.
    Grazie Federico di avermi fatto sognare dal vivo ancora una volta.
    Te ne sono grata per sempre!

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  2. nella cara sei troppo generosa con me.ma è bello leggere questi commenti.abbraccione

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