sabato 28 ottobre 2017

Beautiful Loser


C’ero finito per caso in quel posto di anime sperdute, l’unico aperto a quell’ora della notte. Un caffè con due grandi ventilatori sul soffitto, e un vecchio flipper messo in un angolo. Sorseggiando un whisky allungato con acqua, guardai la ragazza con cui mi ero incrociato uscendo dalla toilette. Nel bagno si era rifatta il trucco e sistemata l’acconciatura, poi con aria spavalda aveva attraversato la sala e si era seduta sullo sgabello del bar, proprio davanti al bancone. Guardando dritto negli occhi il barman, ordinò da bere appoggiando i gomiti sul ripiano di marmo. Il barista in una coppa che tirò fuori dal frigo ci versò due terzi di vermouth dry, un terzo di kirsch, ci aggiunse un cucchiaino di granita, e le allungò il suo bicchiere di Jack Rose. Si beve per svariati motivi. Per la paura del presente, del futuro, per smorzare l’ansia, o come anestetico. Ci sono però anche quelli più imprudenti, quelli che bevono per il piacere di bere. Gente che non si crea nessun senso di colpa, come quella donna lì. Smorzai gli occhi nel momento esatto in cui una fitta al collo mi fece mancare il fiato, e presi a massaggiarmi delicatamente la nuca. Era da giorni che pioveva in città per il passaggio di una perturbazione africana, e l’umido aveva riacutizzato i miei disturbi alla cervicale. La ragazza terminò di bere, si alzò e si avviò lentamente verso l’uscita, cosa che fecero in contemporanea anche altri due clienti. Non appena fuori si fermò davanti al lampione che stava proprio di fronte all’ingresso, si girò verso il barman e scambiandosi un occhiata di complicità, scomparve nel buio. Abito al secondo piano di un palazzo di colore giallino, l’appartamento è di tre stanze. Sulla mensola della cucina ci ho messo una radio che ogni tanto accendo, quando i miei vicini si mettono a litigare. Deniz Tek è una leggenda del rock, almeno per quelli che musicalmente sono cresciuti nel buio dei garage, o nelle cantine maleodoranti. Un chitarrista che nel 2013 con “Detroit” ci aveva raccontato della sua città, regalandoci un disco bellissimo e imperdibile, rinverdendo quel suono caro a tutti gli orfani di quella banda di rocker che ti levava il silenzio dal cuore, che erano i suoi Radio Birdman. In questi anni di crisi mondiale Detroit è diventata una città fantasma con i suoi capannoni immersi nel degrado urbano, con i quartieri periferici sconfinati abitati da persone in preda alla disperazione più cupa, e abbandonate in un declino economico e occupazionale che sembra non trovare argini. Colpito profondamente da quel disagio sociale Deniz Tek, ha scritto quelle canzoni, per offrire un seme di speranza e di rinascita alla sua gente. Quel disco gli ha dato nuova linfa, e anche quella forza per andare avanti, e tuffarsi in nuove avventure. Mean Old Twister” disco uscito nel 2016, lo conferma con dodici brani in cui sparge il suo credo, e placa le sue ansie con una musica che inquieta e fa ribollire il sangue, di una nuova voglia di trovare una generazione disposta a riempire quel vuoto nel rock, che si sta allargando a dismisura. Un pugno di canzoni adatte a chi ha fatto della strada, il suo regno. Le novità sono un sax e certe ballate notturne, che mettono i brividi. Adesso le strade di Detroit sono più pericolose di un tempo, e le zone critiche si sono allargate a dismisura per tutta la città. Gil Scott-Heron lo aveva cantato nel lontano 1977, che cominciavamo a perdere The Motown. Detroit è stata la città della General Motors, della Chrysler, GMC, Chevrolet, ma anche del soul, del rock’n’roll, del garage rock, del proto-punk. Bob Seger, Commander Cody And His Lost Planet Airmen, Al Green, Diana Ross, Hank Ballard, The Four Tops, Martha Reeves And The Vandellas, MC5, The Stooges, Alice Cooper, Ted Nugent, Funkadelic, Suzi Quattro, Stevie Wonder, Marvin Gaye, Smokey Robinson And The Miracles, The Falcons, Jackie Wilson, Aretha Franklin, John Lee Hooker, The Knack, Grand Funk Railoard, Del Shannon, ed il burbero e scontroso Mitch Rider, sono una parte di tutti quei musicisti che provengono da quell’area geografica. Ho spostato la radio sopra una pila di libri. Dopo mi sono messo a fare le pulizie. Chi come Mitch Ryder è cresciuto ascoltando Sweet Jane, Subterranean Homesick Blues, Like A Rolling Stones, CC Rider, Rock’n’Roll, Soul Kitchen, Good Golly Miss Molly, Gimme Shelter, War, Heart Of Stone, House Of Rising Sun, On The Road Again… è di certo uno che ha il cuore al posto giusto. Nei primi anni sessanta, pur giovanissimo, se ne andava in giro con quelle canaglie dei Detroit Wheels, cantando con quella voce aspra che si ritrova, musica R&B e soul. Mitch Ryder Iniziò come tanti a suonare per non finire prigioniero dentro una fabbrica… oggi che quel lavoro appare come un miraggio. Per via del suo carattere che non gli ha fatto accettare compromessi che lo avrebbero sicuramente spedito diritto dentro le hit-parade, è rimasto ai margini ad arrancare.Alle volte, nei pugni che la vita ci riserva e che ci sconcertano, c’è racchiuso un dono. Quando le speranze di rivederlo in giro si erano spente sbucò John Cougar Mellencamp, che lo tirò fuori da sotto quella pioggia torrenziale in cui era finito. La copertina di Never Kick A Sleeping Dog” del 1983 è uno scatto che lo riproduce come un bastardo selvaggio, come il Marlon Brando di “Fronte Del Porto”, e questo dà subito indicazioni sul contenuto del disco. Il leone di Detroit sigaretta tra le dita, carte da poker gettate sul tavolo, e uno sguardo di chi non è abituato a piangersi addosso ti guarda dritto negli occhi, fiero di ruggire un blue-collar rock senza compromessi. Cantando canzoni che ti fanno correre a perdifiato, Mitch aspetta solo che calino le tenebre per dilatare il petto e spremere il dolore, gonfiandosi di rock’n’roll su qualche scalcinato palco di periferia. Ritornai in quel bar il sabato sera. A mezzanotte passata, quattro ragazzi entrarono nel locale. Li guardai con aria assonnata sotto la luce smorta.  Una pioggia velata veniva giù dal cielo, la osservai da dietro il vetro sporco di manate e polvere appiccicata e mai tirata via. Quando ero ragazzo mi piaceva guidare lungo le strade senza una meta da raggiungere, nel caldo soffocante, come nel freddo pungente. Erano i giorni del coraggio, e della passione incontenibile di un sognatore, che osservava la vita da un’altra angolazione. Me ne stavo ore sotto il muro del torrente a fissare i rami dei rampicanti attorcigliarsi tra loro, con le lucertole e le formiche a passeggiarmi sulle dita delle mani, pensando che ce l’avrei fatta ad uscire dal grigiore della mia vita di periferia, e niente mi scoraggiava. Neanche quelle nuvole nere sparse nel cielo. Adesso quei bambocci dall’aria insolente, e di sfida dipinta sul volto, se ne stavano anche loro nel vento ululante. Li guardavo ed era come se mi rivedessi. Erano arroganti come lo ero stato anch’io, per riuscire a fiutare le menzogne di chi trama nell’ombra. Ancora non lo sapevano che conviene viaggiare sottovento, perché quanto meno si ha una speranza di salvezza. Quella sera ero ritornato in quel posto con il desiderio segreto di rivedere quella ragazza dai capelli rosso henné, ma non era venuta. Sprofondato nel mio angolino, avvertii da subito una certa tensione tra il barista e quei tizi. Il più duro di loro portava una montatura d’occhiali gigante, e anche se era ancora un ragazzino aveva davvero un’aria minacciosa. Fiutando l’aria mi alzai dal mio posto e mi avvicinai al barista, prendendo a conversare con lui. Anche Bob Seger nei primi anni settanta aveva un aria da ribelle con quei capelli lunghi e lisci che gli cadevano sulle spalle, e quello sguardo denso e fiero, mentre cantava dei bisogni del sottoproletariato, e del duro lavoro in fabbrica. Se lo poteva permettere Bob Seger perché anch’egli proveniva dalla miseria dei sobborghi di Detroit, ed era uscito da quelle strade con l’intento di svegliarsi per sempre da quell’incubo che lo circondava. Voleva solamente salvarsi l’anima suonando un rock caldo e sanguigno, intriso di soul e cantato con una voce forte e coraggiosa, che da sola valeva il prezzo del biglietto di un suo concerto. In Italia Bob Seger è sempre stato detestato e ignorato dai più, quasi deriso ma Live Bullett” un doppio long-playing contenente uno show tenuto a Detroit nel 1975, ( ma pubblicato nel 1976) che ti fa balzare in piedi per il calore e la forza che ha il suo rock selvaggio, e per quella versione pazzesca di Nutbush City Limits, una hit di Ike & Tina Turner. Sul palco insieme a lui c’è la Silver Bullett Band, (niente da invidiare alla più famosa E Street Band). Un gruppo di musicisti eccellenti e versatili, suonano una sequenza vertiginosa di canzoni che sono un alternanza di suoi successi, e cover straordinarie. Musica che ha avuto una forza d’urto dirompente per molti ribelli di strada. Meravigliosi perdenti, gente fradicia di sudore e di whiskey, che per un brivido sulla pelle avrebbe fatto qualunque cosa. Anche scalare le porte dell’inferno. Ero un po’ brillo quando m’incamminai per far ritorno a casa. Rimuginai che avevo ancora paura dell’ignoto, e che ero stato uno che da sempre aveva combattuto contro i propri demoni, restando in bilico su quella impercettibile linea di sbarramento che passa tra la luce e le tenebre. Che poi non è altro che la via che punta dritto al cuore, all’anima più profonda, dove vi è relegato quello che non abbiamo ancora saputo di noi. Conducevo silenziosamente la mia battaglia fra il bene e il male, fra pazzi e saggi, non sapendo niente di entrambi. Non comprendendo neanche dove collocarmi in questa assurda lotta. Era una serata non troppo fredda, segnata da strane luci nel cielo. Aveva smesso di piovere per cui mi sedetti sui gradini del porticciolo e, guardando la città attraverso una nebbiolina d’umido, me ne restai lì in silenzio, aspettando l’alba di un nuovo giorno. Rock’n’roll never forgets.

Bartolo Federico

venerdì 13 ottobre 2017

Non Fate Prigionieri


Il traffico scorreva lento lungo l’arteria principale e Coney Island Baby una canzone di Lou Reed, risuonava da qualche parte nella mia testa. “Là nel buio accadono cose terribili che ti cambiano per sempre” disse il ragazzo… e prese a raccontargli di quando a quel concerto quegli assassini entrarono sparando all’impazzata sugli spettatori. Ai primi colpi restai immobile, pietrificato dalla paura. Poi non sapendo cosa fare mi gettai a terra, e caddi sopra il corpo di una ragazza che invece era stata centrata dalle pallottole. Mentre con gli occhi chiusi mi fingevo morto, il suo sangue caldo prese a bagnarmi il viso, per poi lentamente colarmi lungo il collo, come una lacrima. Quando gli spari cessarono mi alzai e vidi intorno a me centinaia di cadaveri, e macchie di sangue dappertutto. “No, non si può morire in quel modo osservò la ragazza… e con un gesto materno gli cinse un braccio. “Siccome non ho mai creduto alla versione ufficiale dei fatti” continuò il ragazzo, “da quella sera ho sempre alimentato un dubbio. Poiché uno ne trascina altri, non faccio che tormentarmi. Restano troppi lati oscuri… e non sapremo mai la verità. Parigi quella notte sembrava davvero un cumulo di brillanti spenti” e l’affermò mantenendo un tono calmo. Al bar assistetti per caso a quel dialogo. Ero seduto accanto a quella coppia e, quando capii di cosa stavano parlando, origliai volutamente. Poi a tarda notte, rientrato a casa, colpa di quella smania che mi aveva reso nervoso e pensieroso, continuai a bere. Nel tempo ero diventato uno di quelli che avrebbe voluto vivere senza fastidi, senza preoccupazioni ma, finché si è vivi, bisogna mettere in conto che ti succedono cose che non vorresti. Cose che ti colgono di sorpresa, e ti lasciano ammutolito e lacerato. Nessuno sa cosa ne sarà di noi. Mi alzai alle prime luci dell’alba e spensi la radio che era rimasta accesa, poi andai in bagno a vomitare. Invecchiando anche l’alcool mi dava problemi. Faceva cumulo con quelle crepe che continuavano ad aprirsi dentro di me. Così quell’onda gelida che spesso mi assale, fece la sua comparsa nel primo sole del mattino. Continuavo a non capire come avevo fatto a bruciare quel poco di talento, che in fondo pensavo di avere. Ero andato alla deriva naufragando lentamente, senza metterci nemmeno troppa fatica… ma non era il momento di fare inventari, e riposi sul giradischi “Take No Prisoners”, un doppio live di Lou Reed registrato al Bottom Line di New York, nel 1978. Un disco pieno di rabbia e caos. Musica splendida e travolgente, libera di andare dove gli pare. Un Lou Reed austero, acido, iconoclasta, che canta canzoni ombrose, acconciate con nuovi mascheramenti. Canzoni che sanno di cera e plastica bruciata, che portano dentro di sé quel dolore che non va mai via. Questo disco traccia un nuovo ritratto della sua complessa personalità. Alle volte sembra di essere precipitati dentro un night club, altre in mezzo a gente che sotto palpebre cadenti ha occhi maligni. Ma è la sua voce che echeggia nel cupo della miseria metropolitana, negli sguardi dei tossici che la notte insegue con occhi inceneriti, e di quella bambina preda del buio che in pantaloncini corti e maglietta scollata sulla schiena, cerca quello che è rimasto di lei. Solo guardando in basso si scopre la verità, il reale significato della vita. Il male per Lou Reed resta sempre fuori dalla luce del sole. Per farla breve ho il morale a terra, ma mi comporto come una persona normale. Vado a lavoro, parlo, ascolto. Voglio continuare a dare agli altri, l’impressione di essere perfettamente integrato… ma è vero il contrario. Mi sento sommerso sotto tonnellate di pioggia, annaspo e vaneggio, mentre mi dirigo verso non so cosa. Avendo in qualche modo imparato a riconoscere le bugie, non mi fa più neanche tanto male… e poi ho sempre i miei dischi e alcuni libri, come ancore di salvataggio.
Ricorda che la città è un posto divertente. Qualcosa come un circo o una fogna. E adesso, la città è una fogna per me, tesoro.
(Coney Island Baby)
I segni delle sconfitte alle volte non vanno via. Facciamo finta di non saperlo, ma andiamo tutti quanti verso gli stessi posti, facciamo le stesse cose, che qualcuno prima di noi ha già fatto… e allora perché spargiamo tutto questo dolore? Perché non ci meravigliamo più di nulla? Invece ce ne restiamo da soli avvinghiati a quelle cose che ci hanno ferito profondamente, lasciandoci attoniti con la testa sul cuscino. Sembra strano ma quando eravamo deboli, eravamo forti… e in quei giorni che abbiamo cercato di tenere tutto il piacere del mondo stretto nella morsa delle nostre dita, di approfittarne quando ancora il presente, il futuro, il passato, non erano niente e, a quelle parole che rotolavano dentro di noi, gli siamo andati contro e le abbiamo sfilacciate, ammucchiate, e nella notte dato fuoco, mentre c’incendiavamo di musica. Fin quando stremati lo abbiamo confessato all’alba di un giorno qualunque a questo stupido mondo, che era proprio quello stupore che stavamo cercando. La vita è piena di delusioni, di sogni rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte ma, tutto sommato, la speranza non costa nulla. Non riesco a farmela passare però quest’angoscia, che mi fa sentire un relitto. Non posso pensarci a come sarà stato. A come si saranno sentiti quei ragazzi al Bataclan, mentre gli sparavano addosso. Mi ha cambiato per sempre quella notte, quel rantolo d’umanità che serbavo me l’ha portato via. Penso a tutte le occasioni che si sono persi alle cose che non riusciranno a fare, perché qualcuno in nome di non si sa che cosa, si è preso il loro tempo. Una volta la terra è stata un paradiso terrestre. La mia cucina è in miniatura e dà su un piccolo cortiletto sporco e pieno di vecchie cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra.
Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel che resta di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per gatti”. Un cane arrotolato su se stesso, dorme sempre a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo da ragazzo giocavo a carte, bevendo succo di pera mischiato a gin. Presi una birra e accesi lo stereo. Con mio fratello da bambini giocavamo ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contai più di cinquanta. Ero cresciuto in quel quartiere dove conoscevo tutti, e in qualche modo in quel luogo mi sentivo al sicuro ma, adesso, molte cose sono cambiate. C’è stato un tempo in cui la terra promessa per il rock era la Francia. Parigi ha accolto tutti quei bastardi e ribelli che il sistema discografico cacciava a pedate: troppo liberi, tosti e anarchici, per il “music business”. Gente che ricordava a tutti quanti, che il rock’n’roll è roba da usare con cura. Accadeva a ridosso del 1980 quando il punk, la più grande rivoluzione culturale di massa, si stava spegnendo sotto le grandi luci del mondo, che due amici, Patrick Mathé e Louis Thevenon, gestori del negozio di dischi Music Box e della piccola etichetta Flamingo Records, decisero di trasformarsi in New Rose Records, etichetta che prese il nome da una canzone dei Damned. Tra nuove band e gruppi musicali francesi la New Rose ha dato un’opportunità a questi fuggitivi del rock: Willie Alexander, Alex Chilton, Sky Saxon, Roky Erickson, The Real Kids, Charlie Feathers, Tav Falco, True West, Calvin Russell, Gun Club, Dead Kennedys, Cramps, Green On Red, Giant Sand, The Primevals, Alejandro Escovedo, Bo Diddley, Alvin Lee, Robert Gordon, Elliott Murphy The Slickee Boys, Paul Roland, Dr Feelgood, That Petrol Emotion, The Chesterfield Kings, Maureen Tucker, The Inmates, Percy Sledge, Johnny Thunders l’anima maledetta delle New York Dolls, e altri ancora. Il rock della New Rose ha i denti macchiati di sangue, e la faccia spigolosa. Il più delle volte soffre di nausea, e sente il corpo fluttuare. Vaneggia e barcolla, ed è costretto a mentire per restare vivo. Perché questo rock non fa tendenza, ma suona essenziale e vero. Le chitarre ringhiano e prendono fuoco in mano a quei selvaggi, con Lou Reed e Jim Morrison, attaccati nel cuore. Dietro le sbarre di una prigione qualcuno strizza gli occhi e con la mano si tocca quel rozzo tatuaggio rammendato sul braccio. “Rock’n’roll Heart” c’è scritto. Nient’altro. Stamattina quando mi sono alzato, fuori pioveva. La pioggia picchiettava sulla veranda noiosamente. Me li ricordo bene quei giorni, quando anch’io volevo tutto e subito. Con gli anni però ho dovuto imparare ad avere pazienza, a tessere la tela, ad aspettare il momento propizio… ma non vado orgoglioso di questo. Perché le cose più belle sono quelle che hai lasciato scritto da qualche parte, sul muro dei ricordi. Un caldo e umido pomeriggio di settembre, io e lei in una piccola stanza d’albergo. La radio accesa che suonava Coney Island Baby. Abbiamo fatto l’amore con voracità e trasporto standocene aggrappati l’uno all’altro, come ad uno scoglio. Poi abbiamo dormito a lungo. Lei aveva diciannove anni, io venti… è sempre quello che non hai previsto che ti mette al tappeto.

Bartolo Federico


sabato 7 ottobre 2017

Anarchico Blues

Il rock è come uno sbuffo di vento dentro la nebbia. L’innocenza perduta. Ma anche il coraggio, quel coraggio di andare fino in fondo alle cose. Attraversai la stanza e rimasi fermo davanti alla libreria, mi chinai nella fila sottostante dei dischi e scartabellai le copertine. Trovai degli spartiti per chitarra infilati in una custodia, e un vecchio disegno che ritraeva lo strano profilo di un uomo con un buffo naso. Il vento fece cigolare le finestre. Mi versai qualcosa da bere in un bicchiere a palla, e me ne stetti assorto seduto sul divano. Bere alle volte migliora la visione delle cose. Non appena accesi lo stereo A Apolitical Blues s’infilò dentro la stanza graffiando e dondolando, e lo fece poco prima che quella mezza luna gialla sparisse dalla mia visuale. “Ho il blues apolitico, il più terribile dei blues” Ci sono posti perfetti per certo rock’n’roll. Come quegli hotel che sorgono nelle zone malfamate delle città, che hanno camere con le crepe nel tetto, e porte fatiscenti. Luoghi abitati da fuggiaschi di ogni risma, ma anche da scrittori e romantici dal cuore gracile, come lo fu il Willie Nile dell’esordio (1980) e di “Golden Down” (1981), due dei miei dischi preferiti di sempre. Un songwriter Nile influenzato da Springsteen e Tom Waits, che sotto la luna vagabonda di una New York deserta suona un rock poetico, elettrico e spigoloso. Quando apparve fu come una nuova luce nel cielo secco e nero, per quegli angeli vagabondi che girano la notte in cerca di un po’ di calore, e che al mattino non ricordano mai quel che hanno fatto. Posti perfetti quei motel per far venir fuori canzoni dure e piene di dubbi, ma anche ballate tenere e appassionate rivolte a chi non ha smesso di sognare. Mentre la pioggia batteva sui tetti delle case, andai in bagno e con l’acqua gelida mi lavai la faccia. Dalla finestra osservai il cielo farsi ancora più scuro, mentre dallo stereo la voce di Lowell George attaccò Dixie Chichen. Alle volte certi dischi rispecchiano il tuo stato d’animo, altri ti spingono verso le tue radici. Con i Little Feat sono diventato adulto, e ci ho regolato un sacco di conti interiori. Nei giorni in cui anch’io mi sono alzato al mattino con la gola raschiata dalle troppe sigarette, e un freddo nelle ossa che non se ne andava in nessuna maniera. Quelle canzoni sembrano ancora possedere la chiave della serratura. Non sai mai il perché questo accada ma serpeggiando, sterzando e stridendo, sanno come arrivare in cima alle scale del tuo cuore. “Sailin’ Shoes” (1972) e “Dixie Chichen” (1973) suonano quel blues&roll maledetto, che ti fa tremare come una foglia nel buio della notte. Ha con sé quel furibondo richiamo della strada che con le sue speranze e i suoi desideri, conficca gli speroni nella profondità della tua anima. Hanno il ritmo dello sferragliare dei treni, e il sapore delle cose perdute… come se tutto il sangue caldo del Mississippi, scorresse dentro il corpo di Lowell George. Poi, quando arriva Roll Um Easy, una di quelle ballate dolenti e drogate di romanticismo mistico, i falliti del mio stampo sentono di non essere soli. Il loro doppio album, “Waiting For Columbus” del 1978 registrato al Rainbow Theatre di Londra, resta ancora oggi un disco che sta sul podio dei migliori album degli anni settanta, uno di quei live che se non lo hai mai ascoltato, ti sei davvero perso qualcosa nella vita. Sul palco i Little Feat suonano stirando le versioni dei loro classici in maniera emozionante. Quello che viene fuori è una musica solida, diretta, e mai troppo innocente, come non lo è mai il blues e la malinconia. Nonostante tutto questo tesoro musicale, Lowell George è uno di quei musicisti di cui si parla sempre troppo poco… e non c’è peggio di un agonia troppo lunga, per finire del tutto dimenticati. Con l’età che avanza sono diventato debole e vulnerabile, come lo era Lowell quando devastato dai suoi vizî, nel 1979, pubblicò quel bellissimo disco solista che è “Tanks, I’ll Eau It Here” ma si era spinto davvero oltre per riuscire a venirne fuori integro. Nel maggio di quello stesso anno un attacco cardiaco si portò via un uomo sincero e vero, un musicista eccellente, un bambino sperduto nella grande terra desolata del rock’n’roll, che sapeva scrivere grandi canzoni con gli occhi e il cuore pieni di pioggia, e l’inquietudine cucita nell’anima. E’ una strada faticosa quella del rock. Non basta avere una voce o sapere suonare in maniera iperbolica il proprio strumento. Ci vuole passione, lo splendore di un rigagnolo, la visione di un risveglio, qualcosa che brucia, che cade a pezzi dentro di te. Per suonare il rock’n’roll ci vogliono uomini pieni di paura, che come granelli di sabbia sanno riempire la vita di chi li ascolta. Viviamo in un mondo dove si adorano le menzogne. Popolato da gente che si contraddice, e che sputa su qualsiasi cosa volti loro le spalle. Un mondo smarrito. Ci vuole molta pazienza per attraversarlo… ma la vita per questo ti allena ogni giorno. Nel 1974 Nick Drake morì per un’overdose di Typatasol un antidepressivo, così affermò l’autopsia. Ma forse fu soltanto il suicidio di un ragazzo che ascoltava silenzioso il ronzare del giorno che guardava il mondo con stupore e perplessità, con quegli occhi chiari che ormai erano diventate fessure troppo strette. La depressione è un’arma micidiale, e nella stanza di Nick filtrava da ogni angolo pronta a balzargli addosso in qualunque momento. Raccatta sempre una manica di matti il rock’n’roll, come i Modern Lovers, quattro fanatici ammiratori dei Velvet Underground e del rock anni 50. Il loro primo disco, “The Modern Lovers”, venne registrato nel 1973, prodotto da John Cale e vide la luce nel 1976, con etichetta Beserkley Records. Era di colore nero con scritte blu. Roadrunner era la prima canzone del disco, e suonava senza tregua nel juke-box della boutique di Malcolm McLaren. Fu adottata dal gruppo dei Sex Pistols prima che il loro “Never Mind The Bollocks”, con il suo fragore, scompigliasse il mondo del rock. Si sa che la giovinezza è un lusso e quando si è turbolenti e colmi di talento come quei ragazzi, può capitare di tutto. Col senno di poi, converrebbe a tutti noi giocarselo meglio quel tratto di vita. Nel 1974 i Modern Lovers non esistevano più, si erano già sciolti come neve al sole, per i soliti motivi per cui litiga una rock’n’roll band. Così, quando nel 1976 quel vinile arrivò nei negozi di dischi, tutti gli elementi della band erano già impegnati su nuove strade, con altri sogni sotto il cappello. Jerry Harrison si era trasferito nei Talking Heads, David Robinson aveva formato i Cars, Ernie Brooks sbarcava il lunario suonando nelle band di Elliott Murphy e David Johansen. Jonathan Richman  e i suoi amici, nel 1973, giocando a fare le stelle, scivolarono e svanirono per sempre nel dimenticatoio. Quando si è giovani si è troppo distratti, ingenui, e coglioni e non si sa che le cose possono cambiare bruscamente, in modo repentino e irrecuperabile. Tutti vogliono aver successo con la propria arte, pure i Moden Lovers che suonavano canzoni torbide, anfetaminiche, spiazzanti e convulse, che alle volte ruotavano anche su un solo assillante accordo, cercavano la popolarità; ma con canzoni che ti fanno barcollare e cadere verso l’ignoto, avvolte dentro atmosfere che tinteggiano la parte oscura della vita, non si va troppo lontano nelle classifiche di vendita… ma fu per quel suono rudimentale, noir e disadorno che negli anni a venire i Modern Lovers, diventarono fonte d’ispirazione per una miriade di band che attraverseranno i sotterranei del rock. Dalle Violent Femmes, ai Feelies, passando per i Minutemen, Pavement, Sonic Youth, Died Pretty, Jazz Butcher, Sebadoh, Gang Of Four, Pere Ubu e molti altri ancora. Tutti loro devono qualcosa a Jonathan Richman, se non altro perché questo ragazzo si è sempre rifiutato di fare parte di quel sistema usa e getta, caro all’industria discografica. Troppo duro e puro per diventare un mostro da adorare. Senza volerlo in un giorno qualunque, è andato tutto a puttane. La musica è tutto quello che ci resta. La nostra energia vitale. Se non altro non ti giudica mai. I tempi cambiano mi hanno detto, ma io non sono sicuro neanche di questo. La musica deve rimanere libera di brancolare nel buio, di contorcersi, perdere l’equilibrio, cadere e rialzarsi. Quando mi svegliai la luce fuori era ancora grigia, e la stanza silenziosa. Il mio cane mi ha visto muovermi e, battendo la coda, si è avvicinato leccandomi il viso. Mi sono alzato e ho messo la caffettiera sul fuoco. Dopo ho acceso lo stereo, e ho fatto partire una canzone che mi era tornata in mente nella notte. Frankie Teardrops dei Suicide. Dalla finestra adesso entrava un pallidissimo sole. S’incontrarono a New York nel 1971 al Project, un locale d’avanguardia culturale, Alan Vega e Martin Rev. Il primo è uno scultore, il secondo un musicista jazz. Il rock’n’roll, musica che abbatte ogni barriera, fece il miracolo di metterli insieme. Volevano fare una rivoluzione quei due, mettere gli uni di fronte agli altri. Cantavano la paura della guerra, le psicosi della vita quotidiana, le nevrosi, e la rabbia. Con un sintetizzatore, un piano, e un organo suonati da Rev, e il canto spettrale e schizzato di Vega. Il duo esordisce nel 1977 con un disco che è il più triste dei dischi punk di quel periodo. Frankie Teardrops” è una sorta di Sister Ray dei Velvet Underground, un pezzo angosciante che parla di un operaio che spara alla moglie e al suo bambino, prima di uccidersi. Finalmente la “pop art” guardava la classe operaia, e quelli che avrebbero voluto una vita meno domestica. Gente pronta a scappare da qualunque parte del mondo, se non avesse avuto una fifa da morire. Senza chitarra e batteria quest’esordio resta a mio parere il più futuristico, il più folle, dei dischi che ho sentito e amato. Ci sono cose cui solo noi possiamo rispondere… ma bisogna continuare a sognare, in un modo o nell’altro.

Bartolo Federico