lunedì 31 marzo 2014

Il Dolore Delle Parole

Guidavo sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote. Quel paesaggio, se da un lato alimentava una  sensazione  d’intensa  malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro appoggiato sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi la radio e inserii Undead, anno 1968, un set  dal vivo dei Ten Years After, granitico gruppo inglese di hard- blues, in auge dalla metà degli anni sessanta. Alvin Lee, chitarrista e anche leader della band, per tecnica, velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re della sei corde Jim Hendrix. Ma la storia del rock è ingrata e, come spesso accade, i Ten Years After sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La musica riempì l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare via la cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano. Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far fischiare le gomme sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di scotch che tenevo nel cruscotto e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre avuto l’impressione che l’alcool potesse ripulirmi dentro e, nello stesso tempo, spegnere quel tormento che mi portavo appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere, almeno in un certo modo, anche se l’alcool restava una tentazione molto forte. Il motore adesso tirava che era una bellezza, scrollai il capo e  mi abbandonai  alla musica.
 La libertà è sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e Peter Fonda nel film Easy Rider. Nell’ascoltare un disco di musica rock, fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può trovare in mille cose. Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le persone, marciscono e ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei ragazzi.

 C’è stato un tempo in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi, il problema, semmai, era crescere, restare insieme, capirsi, ma anche comprendere se stessi. Quello sì che era difficile. A me sgomentava il dover sempre e comunque vestire gli stessi panni per tutta la vita. Perché mi sarebbe piaciuto una mattina alzarmi ed essere Keith Richard, in un'altra Robert Johnson, e via di questo passo. E invece, sempre la stessa faccia sempre la stessa esistenza, a volte grigia a volte piena. Un esistenza che se ne andava per i fatti suoi, ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia furiosa.
 Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando  al riparo dentro l’androne del portone di casa. Posteggiai l’auto di fronte all’ingresso e in un baleno saltò dentro dandomi un lieve bacio sulla guancia. Stavamo riprovando a stare insieme, cercando di raccogliere i cocci sparpagliati della nostra esistenza e, per la prima volta, entrambi attraversavamo sentieri sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire. E noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del dialogo e del dolore delle parole.
(Bourbon Blue tratto da Viaggiatori Nella Notte)

domenica 30 marzo 2014

Prenditi Il Tuo Tempo


Seduto nella vecchia cucina economica che ormai cadeva a pezzi, bevve un sorso di whisky. Quella casa pareva abbandonata per com’era ridotta. Le finestre con le sue tende scure erano arrugginite e le porte stridevano sui perni. Sul tetto le tegole rotte facevano penetrare l’acqua piovana ed era tutto eroso e consumato dal tempo che passa, come la sua anima, pensò alzandosi dalla sedia. Non aveva più voglia di sorridere, ma aveva anche il terrore di smettere per sempre di farlo. Era pallido e si sentiva piuttosto stanco. Per un attimo strinse gli occhi per vedere meglio nell’oscurità. Non si sentiva alcun rumore in quella casa ed era già come darsi una risposta.
 Negli ultimi tempi lo aveva anche sfiorato il pensiero di farla finita magari buttandosi giù da un viadotto o tagliandosi le vene. Ma per chi era stato un guerriero nella vita, l’unica via per realizzare quel gesto inconsulto, era che qualcuno gli sparasse un colpo secco al cuore. Continuò a camminare verso nord, poi verso sud, poi di nuovo verso nord, senza che riuscisse a trovare un varco, una via d’uscita. Il suo cervello montava tutto, pezzo per pezzo, punto per punto, poi tornava a smantellare ogni cosa come se non accettasse nessuna spiegazione che si dava e girava, girava incredulo e smarrito, intorno alle cose. Aveva sempre fatto tutto con parsimonia ed aveva sempre avuto paura nella vita. Una paura collegata a qualcosa come al rischio di non potere pagare la casa o le bollette e si rendeva conto che era stato un infelice. Ma adesso doveva dare alle sue paure un valido motivo, trovando ad ogni costo una buona ragione per andare avanti.
Non vedo niente, qui intorno. Tu mi afferri quando cado, mi afferri quando cado. Mi afferrerai? Perché sto cadendo qui intorno. Sono sotto il tiro della pistola, qui intorno. Sono innocente, sono sotto il tiro della pistola, qui intorno. Non vedo niente,niente, qui intorno (Round Here - Counting Crows). 
 Da quando aveva perso il lavoro, Maria non faceva altro che lamentarsi di tutto, di quella casa, della sua vita, di come non poteva più comprarsi un paio di scarpe e del suo immobilismo. “Voglio lavorare!”, gli gridava come se fosse lui ad impedirglielo. “Voglio lavorare!”, urlava, e velenosamente gli ripeteva: “visto che tu non porti più i soldi necessari”. Si sentiva sempre nel giusto, lei, anche con l’unico figlio che avevano avuto, si era presa la briga di decidere da sola qualunque cosa lo riguardasse. Tanto fu predominante nelle sue scelte, da escluderlo e, alla fine, anche come padre era stato un vero fallimento. Lui l’aveva lasciata fare per non ferirla, per non toccare i suoi sentimenti di madre protettiva. Ma adesso si rendeva conto che aveva sbagliato tutto. Adesso che era troppo tardi capiva che in tutti quegli anni i loro mondi forse non si erano mai incontrati davvero ed erano rimasti distanti mille miglia l’uno dall’altro.

Volevo così tanto qualcun’altro oltre me che mi fissasse ma tu eri andata, andata, andata. io volevo vederti camminare a ritroso ed avere la sensazione che tornassi a casa. e volevo vederti andare via da me senza la sensazione che mi stessi lasciando solo (Time And Time Again - Counting Crows).

 Si svegliò l’indomani nel tardo pomeriggio. Nella notte i suoi fantasmi erano andati a trovarlo con passi da lupo. Quando i ricordi ti inseguono ed hanno più gambe e fiato di te, è questo il prezzo da pagare per tutto il dolore che raccogliamo e ci portiamo dentro. Così, il resto della nostra vita diventa solo un incubo. Adesso però, che non c’era più nessuno, non aveva alcuna fretta. Ma poi a che serve avere fretta? Forse quando si è giovani, è spiegata con quella voglia di andare avanti. Quella voglia di arrivare al traguardo a tutti i costi, anche a testa bassa, spingendo, urlando, bestemmiando.  Ma ora che le cose sono diventate vuote e non ricordi quasi neppure il tuo nome, ora che devi fare l’acrobata sul trapezio e che cerchi l’ispirazione per vivere, per quale ragione devi accelerare?(Qui Intorno Non Mi Voglio Spegnere tratto da: Viaggiatori Nelle Notte)
 

sabato 29 marzo 2014

Mamma Me Lo Aveva Detto(Che Dio lo abbia in gloria, Elvis)

Ehi grandissima testa di minchia, lo vuoi alzare quel cazzo di volume, di quella fottuta radio. Non lo senti che il Re del rock’n’roll sta cantando.
Spider Murphy suonava il sassofono tenore, Little Joe soffiava nel trombone. Il batterista dell’Illinois faceva crash, boom, bang, l’intera sezione ritmica era  “The Purple Gang”.Forza! Balliamo il rock, tutti insieme, balliamo il rock. L’intera prigione stava ballando il Jailhouse rock.”
 Quando ero ragazzino mio nonno mi faceva tirare di box perché aveva paura che potessi diventare ricchione. Mi faceva schiattare di fatica in quella palestra. Io però glielo dicevo: “nonno a me le femmine mi piaccionooo!” Ma lui niente, non mi ascoltava, dovevo stare li a  tirare cazzotti in quel cazzo di sacco duro come una pietra. Alla fine le nocche delle mani mi facevano talmente male che non potevo neanche tenere le posate per mangiare. Poi però arrivò  il giorno in cui lo ringraziai per tutto quel sudore che mi aveva fatto gettare. 
Elvis aveva assorbito troppi generi musicali e non si riusciva a trovare una direzione precisa. Modulava il canto ogni giorno in maniera diversa. Alle volte cantava come fosse un bluesman di strada, altre come un cantante country, altre ancora come un crooner. L’idea di base era quella di fondere tutti quegli stili che Elvis aveva incamerato e farli maturare in qualcosa di nuovo. Ma con tutto l’impegno profuso non si riusciva a cavare nulla di buono. Alla fine Sam decise di gettare la spugna. Fu in quel preciso momento  che il destino bussò alla porta. Elvis lo convinse a provare un pezzo che gli piaceva particolarmente, un brano che il bluesman Arthur Big Boy Cudrup aveva inciso dieci anni prima. La canzone si chiamava That’s All Right Mama.Beh, mamma me l’aveva detto, E me l’aveva detto anche papà,“Figliolo, quella ragazza con cui te la stai spassando Non va bene per te.”  
 La pioggia sferzante mi colpi in pieno. Mi infilai sull’auto e scivolai lungo la strada deserta. Mi sentivo ostile con il mondo ed ero arrabbiato con me stesso per non aver visto le cose come andavano per non essermi fermato prima a ragionare. Prima che restassi solo come un cane bastardo. I miei figli con ragione non ne volevano sapere più di me e non li potevo biasimare, avrei fatto lo stesso anch’io se mio padre si fosse comportato come avevo fatto io con loro. Ma ero anche troppo orgoglioso per chiedere scusa. Avevo lasciato molto tempo fa la mia casa, ed abitavo in un vecchio motel. Non m’importava più di niente, neanche di morire. Ma a Maria avevo scritto un sacco di lettere d’amore che non gli avevo mai spedito. Erano tutte raccolte dentro un piccolo bauletto di legno che era appartenuto a mia madre. Chissà  forse un giorno le leggerà pensai
Perché non si può vivere come la si pensa, ma bisogna fare esattamente il contrario? Perché non si può vivere tutti insieme ed essere ciascuno quel che è? Guardai fuori dalla finestra senza vedere niente, restando in piedi fino al mattino. Tutto era andato in malora. Ma quando c’era Maria… non c’era niente di più bello. Bevvi una lunga sorsata di whisky. Tirai la tenda della finestra e mi sedetti sulla poltrona ad aspettare che finalmente mi venisse a prendere.
Le ultime esibizioni di Elvis furono una serie di concerti tenutesi a Las Vegas  nel giugno del 1977. Esiste  un filmato in cui il Re canta seduto al pianoforte Unchained Melody, è sudato, stanco ma sorride  alla vita, sorride a chiunque lo tocchi, come solo lui sapeva fare. Canta con passione anche se il suo fisico è tormentato dai farmaci, ma il suo grande e generoso cuore  dà tutto quello che ha per rendere felice il suo pubblico, anche quando intona per l’ultima volta Are you lonesome tognight. ( Uomini In Bilico tratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

venerdì 28 marzo 2014

Predicando Blues(saltò su il diavolo)

Guardai la mia faccia livida riflettersi nello specchio del bar. Consumai velocemente un caffè ristretto e stranamente senza zucchero. Scambiai due chiacchiere svogliate con il barista, pagai il conto ed uscii. Don Peppino, un vecchio maestro di pianoforte, lo diceva sempre che noi uomini siamo strani. Ci teniamo stretti le nostre disgrazie, ci occupiamo di loro. Le culliamo, come fossero bambini in fasce e non le schiodiamo più da lì, neanche a cannonate.
Quando nasci senza nulla, nella piena indigenza, volente o nolente l’ingegno si aguzza. Elmor James iniziò a suonare su uno strumento che si era costruito da solo. Aveva  aggiunto quattro corde a una scatola di latta. In quella maniera cercava di far uscire la melodia che c’era in lui. Elmor regalò il cuore alla musica. Perché fin che la vita suona, tutto ha un senso, puoi sperare di superare le pene devastanti che un esistenza fatta di privazioni e povertà ti negano. Senza, ci sarebbe solo il vuoto e il silenzio più assoluto. Siamo alla fine degli anni venti. Elmor James,  che era venuto su in fretta, non immaginava minimamente che un giorno i libri del blues lo avrebbero indicato come uno dei rinnovatori più significativi e autentici della musica del diavolo.
Alle due di notte dormivo tranquillo quando il citofono di casa suonò. Prima che mio padre si decidesse ad alzarsi dal letto e rispondere, suonò una seconda volta, e poi una terza. Solo allora, incazzato come una iena, andò a rispondere. Di certo un altra rogna quella notte lo attendeva. Come accadeva ormai spesso, una volante della polizia era venuta a prelevarlo. Poche ore prima, ma questo lo raccontò in famiglia la sera del giorno dopo, quando finalmente fece rientro a casa, era avvenuta una carneficina. Un uomo, in preda ad un raptus di gelosia, aveva ucciso l’amante della moglie, la moglie e si era suicidato. Al citofono parlottò nervosamente con l’agente. Poi si vestì in fretta. Prese la sua valigia di pelle bordò e la Rolleiflex,  già pronta allo scatto. Macchina che usava per fotografare i cadaveri senza l’uso del treppiedi. Prima di uscire venne a salutarmi. Per la prima volta notai che aveva un’aria stanca e disillusa. Le sue notti erano state come una danza lenta e inquieta. C’era stato solo spazio per quell’umanità, che in un modo o nell’altro, perdeva l'equilibrio e impazziva. Lui, allora, si sentiva come una preda ferita, che sbatteva le ali e non riusciva a fuggire da tutto quell’orrore. Me lo confidò lui stesso mentre viaggiavamo col mio furgone anni più tardi, una  volta che venne a farmi compagnia in una giornata di lavoro. Era estate ed un sole alto illuminava il mondo. Un blues elettrico, lento e penetrante, fuoriusciva dall’autoradio e ci accompagnava nel viaggio. Magicamente, si era rilassato guardando il mare che costeggiavamo e mi raccontò tante cose di lui. Fu uno di quei rari momenti che ho visto mio padre girarsi verso di me e sorridere alla vita. Nessuno in fondo resiste alla musica.
Elmor James se ne stava rannicchiato in un angolo, abbracciato alla sua chitarra, sotto la pioggia battente. Ad un tratto, un uomo dal viso buono, anch’egli completamente inzuppato di pioggia, lo invitò ad entrare in quel juke joint che stava dal’altro lato della strada. Lo sconosciuto era anch’egli un musicista, un suonatore d’armonica. Sonny Boy Williamson era il suo nome. 
Un po’ di tempo fa, mio padre mi disse: non si foraggia mai nessuno con una mano, per poi eliminarlo con l’altra. Questo è quel che hanno sempre fatto i nostri politici. Gente cattiva che si organizza e poi ci da dentro. Come in guerra, qui non viene mai nessuno ad aiutarci. Io e mio padre eravamo amici. Lui si fidava di me, ed io di lui. Adesso lui è morto. Ed io, io suono il blues della rassegnazione. Il blues della rassegnazione. (L’odore della paura (il blues della rassegnazione) tratto da Viaggiatori Nella Notte)  
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giovedì 27 marzo 2014

Pioggia D'Autunno

Attraversai la città a piedi con le palpebre strette e considerai che non si ha mai ragione da soli. Il vento era calato e una pioggerella, sorda e triste come un dolore, mi sorprese. Mi alzai il bavero del sgualcito soprabito, come per difendermi. Maddalena aveva portato scompiglio nella mia esistenza. Una vita senza infamia e senza lode, la mia, ma non mi andava di farmene una colpa. Camminavo sotto la pioggia e, rimasticando pensieri, tirai un sorso di gin dalla bottiglia che mi penzolava tra le mani. Era quasi mezzanotte quando rientrai in casa. Osservai le pile di dischi, i libri accatastati alla rinfusa sugli scaffali, il caos totale sopra il tavolo e mi sdraiai sul divano, osservando la luce obliqua della notte che penetrava dalla finestra. Avevo fatto in tempo a mettere sul giradischi Autumn in New York di Charlie Parker che caddi in un sonno tumultuoso.
 Charlie Parker fu l’uomo della pioggia. Quella pioggia che si schioda ad un tratto dal cielo e viene giù come un diluvio universale. Un visionario delle sette note, che solo quando era intento a suonare riusciva a liberarsi dall’eroina. Una tossicomania acquisita sin dall’adolescenza. Era in quei frangenti che il suo dialogo interiore si metteva in moto. Attraverso di lui la musica si esprimeva in tutta la sua naturale bellezza. Notturna, violenta, brutale e, alle volte, tenera e dolce, la sua arte lambiva i contorni incerti del bene e del male, emanando un’ondata scura e affamata d’amore. Una storia, quella di Charlie “Bird” Parker, di ordinaria solitudine. 
 Un anima pesta, gettata tra le fauci di un mondo privo di delicatezza. Così come è capitato a tutti i dannati di questa terra, teneva più ai suoi veleni che a tutto il resto.
Avevo collezionato un gran bel numero di errori non c’è che dire, ed ero pure cresciuto con la testa piena di cazzate. Guardai la mia immagine accigliata nello specchietto retrovisore dell’auto mentre procedevo a trenta all’ora, ascoltando Monk, il santone pazzo del jazz, in Round Midnight. E’ risaputo che a furia di cercare si finisce sempre per trovare qualcosa. Ma lei era ormai un capitolo chiuso. Avevo avuto il mio momento di gloria, non potevo più accedere ai suoi pensieri, né al suo corpo, ma di questo potevo biasimare solo me stesso. Guidavo non sapendo dove andare, solo che quell’unghiata mi doleva come un ostinato mal di denti. Uno stuolo di nuvole grigie si addensò nel cielo, ascoltai i gemiti sordi del vento. Tra non molto, ci avrei scommesso, sarebbe venuta giù la maledetta pioggia.
Non appena rientrai in casa, accesi lo stereo e misi sul piatto Foreign Affair di Tom Waits. Un disco che porta con sè brandelli di pioggia, destinato a tutti quei pazzi di vita che hanno ricevuto un colpo da ko, ma che, pur traballando, riescono in qualche modo a non cadere. Canzoni che sono come tante piccole lacrime tra le ciglia, narrate in notti spese alla ricerca di quella cosa che mai raggiungeremo. Ballate dolci e amare, perfette per coloro che si sentono in fuga dal mondo. 
(Verso Mezzanotte tratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

lunedì 24 marzo 2014

La Strada Che Porta Da Lei

Quando s’invecchia ci si ammutolisce e si prova una sottile sensazione di disagio a stare con gli altri, pensò. Ma poi a che serve parlare, le parole scivolano e si gira intorno alle cose. Ognuno di noi, alla fine, fa sempre ciò che vuole. O, almeno, così crede che sia. Fino a quando, improvvisamente, ci si rende conto che il mondo va in un'altra direzione, rispetto a quella che abbiamo seguito. Ad un tratto, si apre un buco nero dentro di noi, e comprendiamo che non siamo stati capaci di raggiungere il cuore della vita, di essere stati bellamente usati e fottuti dalle circostanze. All’inizio ci sentiamo pieni di rabbia e ne facciamo una questione personale. Con il passare del tempo non ce ne importa più nulla. Ed è a quel punto che si resta afoni e muti. Nel buio della stanza illuminata dalla tele senza volume si versò un’altra tazza di caffè e diede fuoco a un avanzo che era rimasto nel posacenere.  
Rivolse lo sguardo, ancora una volta, verso la finestra. Un violento temporale si era scatenato. Aveva perso qualcosa e voleva sapere se era davvero così. Doveva ritrovarla e riuscire a parlarle, solo a questo anelava. Ma quello che esigeva era davvero troppo. Guardò sul tavolo il medaglione che gli aveva regalato la sera prima che sparisse. Si era fatta una doccia e se ne stava raggomitolata sulla poltrona di pelle, mentre lui con la chitarra strimpellava un vecchio country blues. Ad un tratto, Alice si avvicinò e gli fece un succhiotto sul collo. Era avvolta in un corto accappatoio bianco, che mostrava l’interno delle sue cosce. Lo abbracciò e sentì i seni duri sulla schiena, continuò a suonare stentatamente mentre dei brividi di piacere lo scuotevano. Con maestria gli passò la lingua dietro l’orecchio e gli donò quel pacchetto. Avvolto in un fazzoletto a forma di cuore, c’era quel medaglione con su incisa una frase: Al Mio Amore.
 
Quando riusciva a sottrarre dal lavoro qualche ora libera, amava frequentare un negozio di dischi. Mr Jones, un americano trapiantato era il proprietario di quella bottega e, dato che si conoscevano da tempo, gli lasciava ascoltare tutto quello che desiderava Quella passione per la musica gli era rimasta intatta, nulla era riuscita a scalfirla. Scartabellava tra gli scaffali, guardando ogni singolo lp e cd. Il suo reparto preferito restava quello dedicato al blues, l’unica musica che lo rincuorava. Considerava il blues come la sua ombra acciaccata che lo pedinava su quelle strade tortuose che il suo lavoro lo costringeva a percorrere. Il suo mondo era ingolfato da gente che tentava di fottersi l’uno con l’altro. Da matti pronti ad uccidere per un nonnulla. Da persone colme di odio e miseria. Viaggiava in quel brutto sogno e non riusciva a liberarsene. Fino a quando non gli apparve lei. Fu allora che ruppe definitivamente gli argini e si allargarono i confini. Ruzzolò dentro se stesso, nella sua anima più profonda. E tutto cambiò. Per la prima volta, guardandosi allo specchio, non si riconobbe più. I miei occhi son divenuti rossi quando la mia vita è diventata triste. Così, sto abbandonando tutto, è la verità, per saltare in una nuova pelle. (Don’t Box Me- Stan Ridgway)
Hai voglia a metterli in colonna, le somme del cuore non tornano mai. Ripensando al passato, sentiva di non avere rimpianti per tutte quelle porte che si erano chiuse, per tutti i sogni spezzati e le speranze devastate. Si era disintossicato definitivamente dalle sue e altrui menzogne. E allora? Cos’era che lo spingeva a cercarla? Tanto valeva ammetterlo, almeno a se stesso. Era la carne che si ostinava a rincorrerla, era quel desiderio del suo corpo, della sua bocca, della sua figa, che non si placava. Era quel sentirsi leggero quando lei lo toccava. Quella sensazione di abbandono che provava nel penetrarla e dopo ogni suo orgasmo. Forse stava inseguendo un fantasma. Ma i fantasmi non ti abbracciano, non ti baciano, non piangono. 
Il vento fece sbattere l’imposta della finestra. Si alzò dalla poltrona, raccolse le sue cose che erano sparpagliate per la stanza, le infilò dentro la sacca e si vestì. Non appena fu in strada la pioggia aveva smesso di scendere. Salì in macchina e si avviò lentamente. Anni di odio, di paure, di rabbia, erano scivolati via, tutti in un botto. Accese una sigaretta e ne aspirò una lunga boccata. Si fermò al semaforo ed abbassò il finestrino. Voleva sentire il vento sul viso. Al verde, ripartì sgommando. Dopo qualche chilometro si fermò nuovamente e scrutò intorno, come a cercare qualcuno, qualcosa, una direzione. Ma non c’era nulla in quella città deserta. Neanche una freccia, che gli indicasse la strada che portava da lei.(Città Solitaria tratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

domenica 23 marzo 2014

In Fondo Ai Miei Blues

Alla stazione della vita, ho comprato un biglietto di sola andata e nel posto dove vado non c’è nessuno che mi aspetta. Il vento ha preso ad abbaiare come fosse un cane rabbioso. La strada brilla, sotto le luce bianca del neon. Mi appoggio ad un lampione e con lo sguardo prendo a vagare intorno. Dalla sigaretta aspiro una boccata di fumo strizzando gli occhi. C’è stato un tempo in cui mi infilavo nella bruma, sotto la pioggia, e spingevo a fondo il pedale della vita. C’è stato un tempo  in cui nulla riusciva a farmi paura, neppure ricominciare da capo. Sapevo sempre cosa fare o cosa non fare e, se sbagliavo, andava bene lo stesso. Non come adesso che ho solo voglia di andarmene a nascondermi il più in fretta possibile. Non come adesso che nessuno capisce, che davvero mi dispiace per qualcosa. Ma a nessuno sembra importargliene. Non come adesso che non ho più nessuno che mi può aiutare.  Da quanto, da quanto tempo è partito il treno della sera? da quanto, da quanto bambina mia, da quanto? (How Long Blues-Leroy Carr) 
Mia madre me lo diceva di essere gentile con gli altri che loro lo sarebbero stati con me. Alla luce dei fatti forse si era sbagliata. Adesso non ho più voglia di sorridere, ma ho anche una paura fottuta di smettere di essere come sono stato. Bevo un altro sorso di vino e un altro ancora. Non so proprio che fare. Dio! So che voglio e che devo fare. Ma farlo realmente è davvero un'altra cosa. Do un occhiata alla bottiglia la porto alla bocca e ricomincio a bere. Tossisco, barcollo e cado nel vuoto, spalanco gli occhi e rabbrividisco. La bottiglia mi cade in terra, gli tiro un calcio e sferro un pugno nel vuoto.
 Visioni di Billie Holiday in bianco e nero
 Lady Day entra in un bar, cammina lentamente con lo sguardo rivolto a terra e si dirige verso lo sgabello che è lì, fermo come se la stesse aspettando. Quando ci si siede, lo fa con una grazia che lascia tutto il pubblico di stucco. A quel punto  Lester Young  si avvicina e si mette al suo fianco. Lady Day ha i capelli attorcigliati in un garbato chignon. Alza lievemente il capo e la band inizia a suonare. Alle prime note degli ottoni una piccolissima smorfia gli contrae il labbro sinistro. Adesso, sempre lentamente, gira gli occhi che sembrano immensi specchi neri e osserva un punto indefinito della sala. Poi cade in trance e inizia a cantare Fine and Mellow. La notte e i graffi che la pioggia lascia sui vetri si specchiano sul suo viso. Lì, in fondo ai suoi blues.
 Dopo che gli applausi erano finiti e la gente se n’era andata. Scendeva le scale del bar e usciva verso l’albergo che lei chiamava casa. Aveva muri verdastri e il bagno nel corridoio. E dissi no, no, no oh, Lady Day. (Lady Day-Lou Reed)(Il Fiume Nero tratto da Viaggiatori Nella Notte)

venerdì 21 marzo 2014

Vagabondo Di Mezzanotte

Il lampione del marciapiede illuminava a stento la strada. Sono rimasto là nell’angolo a guardare il niente. Volevo suonarle e sono certo che mi avrebbe aperto la porta di casa. C’era freddo là fuori dove mi ero fermato. Ma mi resi conto che facevo anche fatica a difendermi e che certe cose non mi parlavano più come un  tempo. Che potevo farci se non avevo neanche tutta quell’energia di una volta per andarmene, solo solo, a strascicarmi nel buio? Non avevo fatto mai nulla per i soldi, ed ero furioso con me stesso per non avere capito che non avrei mai potuto vivere come volevo, che non avrei mai potuto vincere quella partita perché si stava giocando con delle carte truccate. E allora che cazzo avevo da lamentarmi e presi a sogghignare. Mi sentivo un po’ ridicolo certo ma alla fine tutt’altro che stupido.
Alle volte, è come se vivessi in un altro mondo ed in questo non riuscissi a trovare posto. Alle volte, mi sento un estraneo perfino con me stesso. Da un po’ di tempo percepisco un’aria pesante da guerriglia urbana, come quella che penso c’era nel 1968, quando gli Stones pubblicarono Beggar’s Banquet, uno tra i loro album più belli. Un disco operaio, dedicato a tutti quelli che lottano e che non accettano più compromessi e bugie. Un disco di rock con le droghe sonore di Keith (blues, folk e country) fornite come spezie speciali. Beggar’s Banquet, fondamentalmente, è un disco di Richards, dove la slide diventa uno strumento rilevante nel contesto sonoro, accompagnato da una batteria primitiva e scorbutica. Un disco che parte dalla foto di un cesso, pieno di scritte volgari e provocanti, che i ragazzi del punk omaggeranno nella loro rivoluzione del 1977, e che ci porta fin dentro quelle strade polverose di quelli che, fino alla fine, provano a resistere e morire con gli occhi aperti. Beviamo alla gente che lavora duramente, beviamo all’umile di nascita. Abbiate un pensiero di riguardo per la plebaglia. Beviamo al sale della terra.(The Salt Of The Earth - Rolling Stones)
E’ pura anarchia esistenziale,Beggar’s Banquet è asociale, tanto che mi spaventa per quanto mi assomiglia. Con quella spudorata simpatia per il diavolo urlata ai quattro venti e l’amore per le ragazze con i bigodini nei capelli e senza soldi in tasca, neanche per pagare il biglietto del bus. Ragazze, però, che solo a guardarle sono un sollievo per occhi tristi. I combattenti di strada sono pronti, ancora una volta, per fare la guerra a colpi di rock’n’roll. E quando questa storia sarà finita è ogni cosa sarà stata rimessa al proprio posto, e tutti i miei amici  saranno tornati a casa sani e salvi, solo allora - ve lo giuro - me ne andrò nuovamente per la strada con tutti i peccatori che, nel frattempo, saranno stati fatti santi. E come un vagabondo, come un fuorilegge, mangiando panini al mentolo raggiungerò il sud dell’America e  arriverò, ci potete scommettere, a New Orleans a trovare le più belle ragazze-paracadute e con loro, finalmente, mi prenderò una sbronza di quelle memorabili. Aspetto con pazienza sdraiato sul pavimento. Cerco solo di risolvere il mio puzzle. Prima che piova ancora. (Jigsaw Puzzle - Rolling Stones)(Con Le Carte Truccate tratto da: Viaggiatori Nella Notte)

Spettri

Ci sono posti dove è facile farsi del male. Ma d’altra parte non sarebbe nè meglio nè peggio rimuoverli dai ricordi. La villetta del quartiere sta sempre lì, e anche quella panchina, che è sempre vuota come lo era allora. Mi ci sedevo quando sentivo di aver perso il controllo di me stesso e i miei punti deboli si erano ingigantiti e diffidavo di tutto. Allora restavo seduto senza far nulla, solo a guardarmi intorno. L’altro ieri ci sono ritornato e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho alzato gli occhi verso la finestra da dove si affacciava mia madre per chiamarmi, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. Le ho fatto un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto. Ho girato gli occhi ancora più in alto ed ho visto il balconcino di Pasqualino. Era l’unico che si sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui tentava di parlare dei fantasmi che lo perseguitavano. C’era nato con la testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso in casa ma, quando mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le scale e si metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a fumare. Sembrava che mi aspettasse. Alle volte, quando le sue visioni erano felici, mi sorrideva, come solo i pazzi ti sanno ridere. E mi toccava il viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che quasi mi soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato e ho pensato che non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore che aveva dentro, che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui sapeva, sentiva che c’era qualcosa in me che non andava. E allora credo che alla fine sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che fosse troppo tardi. Adesso sarà un angelo, Pasqualino, magari bizzarro, che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi manca la sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. Accidenti a me. Odio i ricordi. 
O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito non muore mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a camminare lo spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati intorno, e guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai.(Spirit -Van Morrison-)(Nel Mio Quartiere tratto da Viaggiatori Nella Notte)

mercoledì 19 marzo 2014

Il Solitario

Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai della musica “Willy And The Poor Boys” dei “Creedence Clearwater Revival”, anno 1969. Tirai  un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai voluti salire per restare fedele a se stessi. Persone che hanno pianto come bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte. E che, sbandati e confusi, non hanno trovato più la strada di casa.
My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare fino in fondo,che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero.”MY MY, EHI EHI” (OUT OF THE BLUE)- Neil Young-
Sono poche le cose che ci legano al passato, ma alla fine sono proprio quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979. Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San Francisco, dove Young con la sua  chitarra acustica prima si scioglie  dentro le sue ballate dolenti e, poi,  insieme ai Crazy Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin  quando non è sopraggiunta la rassegnazione. Live Rust è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso che  fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle, e i Clash erano il mio unico credo. La sua musica, in quei giorni, era il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già vecchia. Ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di fantasmi.“Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo. Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli strada: è il solitario.(The Loner). Sdraiato sul letto pensai a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come se avessi lasciato le mie tracce sul bagnasciuga, e al mio ritorno non c’era più nulla.( Uscendo Dal Blu Ed Entrando Nel Nero tratto da : Viaggiatori Nella Notte)

lunedì 17 marzo 2014

Il Prezzo Da Pagare

Mi alzai dal letto ed andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Avevo lasciato molte cose dietro di me che a guardarle adesso mi parevano come lividi tumefatti sulla pelle. Erano cose morte. Stare ora a rimuginarci sopra significava riaprire vecchi conflitti, ma quella notte stava andando così. Ero sempre stato un tipo difficile o, meglio, gli altri credevano che lo fossi. Indubbiamente, trascorrevo molto tempo da solo e conoscevo bene le strade per mettermi nei casini. Da ragazzo al liceo costruivo molotov. Ero uno specialista in quel genere di bombe. Le utilizzavano nei cortei  i compagni più grandi, quelli delle frange oltranziste per lanciarle contro i celerini o per incendiare i circoli frequentati dai fascisti. Erano gli anni settanta, c’era tensione sociale e molto subbuglio. Ma era la solita storia dei ricchi contro i poveri e viceversa. Solo che si era giovani e l’indifferenza non ci aveva ancora sopraffatto. Si aveva dentro un romanticismo maldestro. Dopo, quando si ha un passato alle spalle, la vita diventa più complicata. La poesia ce la divoriamo insieme a tutto il resto. La gente a quel tempo mi guardava in malo modo per come mi vestivo e per quello che combinavo. Mi cacciarono più volte dalla scuola per comportamento ribelle. Ma quando imbracciavo la chitarra e suonavo tutto cambiava, mi veniva naturale. La musica sgorgava dal mio cuore fluida e provavo sensazioni indescrivibili. E gli sguardi di chi mi ascoltava erano pieni di sorpresa e ammirazione. Tuttavia, avevo una grossa pecca, suonavo il rock dei Lynyrd Skynyrd, Allman Brothers, The Band, Lou Reed, Stones. Musica che a quelle truppe della sinistra stava sulle palle. La consideravano con disprezzo, musica imperialista. 
Non hai paura?  Non c’era nessuno che mi inseguiva, se non i miei fantasmi. E poi la paura non dice né si né no. Si prende tutto la paura. Ero nauseato di come era andata avanti la mia vita, anche amareggiato. Ma avevo smesso di avere paura da quando mi ero incancrenito dentro, ed ero capace di difendermi. Il vento continuava a soffiare e sembrava che stesse piangendo tra i comignoli dei tetti. Volevo andarmene a sud, dove c’era il sole. Avrei voluto vivere un po’ più spensierato, ma non per questo mi impietosivo per il mio destino. In un modo o nell’altro me l’ero scelto. Avevo fatto tutto da me. Nora stese la mano e con le sue unghie lunghe mi sfiorò il viso. Entrambi eravamo vecchi allo stesso modo, entrambi eravamo soli. Mi agguantò un polso e lo strinse forte e poi, guardandomi dritto negli occhi, disse: Ci si sbaglia sempre a giudicare il cuore degli altri. Ma io ti ho amato dal primo momento che ti ho visto. Ascoltami,adesso. Era arrivata dove l’occhio non può più vedere, era dentro le cose e non aveva scelto la via più breve.(Malato D’Amore Blues tratto da viaggiatori Nella Notte)
 

Barzin – To Live Alone in That Long Summer (2014)

Eccolo, un altro caduto nella rete di Barzin, dentro  quelle  note per un amante assente. Un disco che ha la forza di trafiggerti e di esporti ai quattro venti. Pieno zeppo di ballate grigie e secche, come un drappello di  cani randagi. Ma anche di pudore. Dedicate  a tutti quelli che sono annegati nella notte, lottando contro la pioggia e il vento. Perché ci sono cose nascoste che uno pensa di non avere, talmente nascoste che alla fine ci si ritrova vuoti e non si smette di tremare. Ma quelle tracce di sangue che hanno rigato l’anima non si possono raschiare. E nemmeno quel fremito che quello sguardo profondo ha lasciato. Prima che se ne andasse per sempre.(Bollettino Delle Emozioni 3. (Al bar da Gino) tratto da:Viaggiatori Nella Notte)

sabato 15 marzo 2014

Campi Di Cotone

Se nasci nel sud, puoi starne certo, sarai un emigrante. Mio nonno Iano me lo ripeteva sempre. Ad un uomo del sud gli viene il blues. Gli viene dal cuore quel modo di dirti come vive, come viene trattato da chi in tutti i modi cerca di umiliarlo, di fotterlo, di piegarlo sulle ginocchia. Chester Burnett aveva sentito che la gente se la passava meglio nella Wind City. Saltò in piena notte su un treno merci e dal profondo sud del Mississippi si spostò a nord. Cantando il blues. 
L’estate si allunga lenta e dilata il tempo e i giorni si muovono in armonia.  Il caldo scioglie il catrame e le emozioni corrono veloci, come la pazzia. Ma sono cose che non tutti riescono a percepire. La notte era atterrata rastrellando alcuni pensieri, mentre altri erano rimasti sparpagliati nel buio. Lungo il tragitto mi accompagnavo con le note di I've Got A Mind To Give Up Living/ All Over Again, che mi sfibbiarono il giusto l’anima. Dal bar avevo telefonato nuovamente a Concetta, ma anche questa volta non aveva risposto. Una macchina mi superò suonando nervosamente il clacson. Erano le dieci della sera e faceva un caldo boia. Mi sentivo teso con il corpo sveglio ma la mente addormentata. Non riuscivo a tenere in piedi un pensiero e  quello strano senso di  vuoto si era nuovamente impadronito di me.  Facevo strada cambiando umore di continuo. Adesso avrei potuto rimanere per sempre immobile nella notte. Quando avevo sedici anni me ne stavo a fantasticare romanticherie, ero nel pieno di quel desiderio di solitudine ma anche convinto che un incontro mi avrebbe cambiato la vita. Poi le cose avevano fatto il loro corso e c’erano stati lunghi inverni passati da lupo. Alla fine qualcuno aveva bussato alla porta. Guidavo stando a colloquio con i miei spiriti, e avrei voluto che piovesse nuovamente. Non c’era più quella magia intorno a me che rendeva tutto più sopportabile. Il tempo si era distorto. Ma il tempo è l’unica certezza che abbiamo. Forse, pensai, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare, a nuotare senza gli stivali e guidare senza freni. Guardai la strada nera e profonda davanti a me e poi il cielo che era un fragore di stelle. Calai il finestrino e ascoltai  il vento sibilare tra l’erba.
( Camminando Da Solo tratto da: Viaggiatori Nella Notte)

Anime Blues (Mississippi Fred McDowell)

Il campo di cotone era stato ripulito dalla gramigna. Fred, Fred McDowell, era fermo ai bordi ancora in tuta da lavoro, immerso nella canicola di luglio e guardava in un punto indefinito l’orizzonte. Ad un tratto, sentì urlare il suo nome, si girò e vide che il suo vicino di casa Lonnie Young correva verso di lui. Si era sparsa la voce che quel bianco, venuto dal nord con un registratore a bobine, stesse cercando artisti locali da registrare per l ’Atlantic Records. Lonnie informò Fred della cosa e i due si misero in cammino frettolosamente.McDowell passò da casa, prese la chitarra acustica, chiamò sua zia Fanny Davis che suonava il kazoo ed insieme si presentarono al cospetto di quel tizio che di nome faceva Alan e di cognome Lomax. Era il 1959.
Tu mi fai debole e mi fai gemere”. Mississippi McDowell sputava fuori le parole di quella canzone, intanto che la strada si inerpicava vertiginosamente. Il vento improvviso fece sbandare l’auto che recuperai con un colpo fulmineo di sterzo. Come avremmo fatto ad incastrare le nostre vite, se le cose che ci dividevano erano più che quelle che ci univano? ”il blues è soltanto una donna nei pensieri di un uomo, il blues è soltanto un dolore dentro al cuore di un uomo.”Cosa ci saremmo detti con il passare del tempo? Lei si prendeva solo ciò che le interessava di me, ma io ero anche un altro perchè, come tutti, avevo un altro volto che a lei non interessava conoscere. A questo punto non restava che andarmene ancora una volta, non potevamo seguitare a farci del male. Mi chiesi, allora, per quale ragione non riuscissi a trovare mai niente, che guarisse il mio silenzio ed il freddo che mi portavo dentro. Non me lo sarei mai perdonato, non avrei mai accettato di contrabbandare le mie pene in cambio di un tetto e di un pasto caldo. Desideravo esprimerle la mia anima, senza che nulla me lo impedisse. Volevo dirle che ero malato d’amore, che anch’io avevo quel sogno oscuro di salvare qualcosa. Avrei voluto parlarle, dirle cosi tante cose che, alla fine, come sempre, non dissi nulla.(Cacciatori D'Anime tratto da Viaggiatori Nella Notte)

giovedì 13 marzo 2014

Out Of Blue – Sulle Tracce Di Ulisse (benvenuti al sud)



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Naviganti raminghi tra Mediterraneo e Mali. Imbarchiamo un altro naufrago, e non potevamo farne a meno: Bart, autore di Viaggiatori nella Notte e curatore del blog Dustyroad. Amico – virtuale, ma molto meno di altri in cane ed ossa – di vecchia data.
Attenzione: qui non è luogo di elogi ad Eric Clapton o elegie per B.B. King; qui sono banditi l’accademismo e lo storicismo.

Contributi di:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

Bartolo Federico

immagine di copertina a cura di Mr. Hyde

***

Bart: Il blues è refrattario come gli anarchici.
Nella scrittura, duri e puri, lo sono stati Cèline, Bukowski.
Nella musica, Captain Beefheart è quello che, tramite la ruvidità del blues, ha mostrato al mondo il suo delirio interiore. Per questi artisti potete usare qualunque aggettivo, insolenti, provocatori, eccessivi, geniali, vedrete che gli calzerà a pennello.
Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.
È la sua reazione a quello stato che non sopporta più, che genera il blues. Il blues non è la lista della spesa, i buoni o i cattivi, il bianco o il nero. Il blues è la desolazione senza sbocco, il sapere che nessuno oltre te, può fare qualcosa per la propria esistenza. Per questo il blues non è di sinistra. Come invece hanno cercato di farci intendere i critici musicali di quell’area politica, mettendone in risalto solo la condizione sociale, da cui scaturiva. Il blues si è sempre abbeverato nella disperazione, nel pessimismo. Il blues è abdicazione al potere. Il blues non è rivoltoso. Chi lo ha pensato si è sbagliato di grosso. Un tempo ho fatto anch’io questo errore. Può arrivare da qualunque parte, il blues. Ma chi lo canta ha bisogno di cose materiali, ha bisogni veri. Perché è in quel momento che ha cessato di essere rispettabile all’occhio del mondo. Il blues del Delta è musica pura, di uomini puri, che ancora non si sono massificati, perché suonavano se stessi. A quel tempo il blues era tutto istinto. E l’istinto è poesia. Almeno per quanto mi riguarda. Poi il blues come ogni cosa che cammina, è diventato qualcos’altro. Ma non sta a me giudicare.
Safe As Milk, ha dentro di se quella purezza primordiale.

E.M.: Cosa c’è veramente di primordiale nel blues?

Ripenso ad Ulisse, a Schwingungen degli Ash RaTempel; e ad una riga scrittami da Mr. Hyde per mail “Mi sono lasciato suggestionare da Omero e dai contenuti 'blues' dell'Odissea, il girovagare, le donne, il vino e il loto”.
A suo tempo scrissi qualcosa sul disco degli Ash RaTempel:
“Quando la melodia getta finalmente l'ancora, i naufraghi del cosmo trovano la loro casa. Una voce suadente, fascinosa, carezzevole; che non è più il subdolo canto della Canzone delle Sirene di Buckley, ma la melodia che Odisseo udì appena poggiato il piede sulla spiaggia sassosa di Itaca.
Il canto di casa.”
Empatia?
Allora, quanto è “blues” questa Odissea? C’è il vagabondare: con una meta, ma senza una strada. C’è una donna da ritrovare, che lungo il percorso però viene tradita, perché le circostanze sono forti e la carne eternamente debole. C’è il vino, c’è l’oblio, i compagni di viaggio.
Eppure faccio un’enorme fatica ad associare in qualche modo la mitologia classica alla mitologia blues, che affonda le radici in un passato molto più prossimo e in un territorio che tutt’al più può essere quello del bacino del Congo, piuttosto che del Mediterraneo.
Non è la “primordialità” di Odisseo la stessa del blues, con buona pace di Tales Of Brave Ulysses dei Cream, una minima coincidenza puramente accidentale.
Forse è primordiale per tecnologia (o non tecnologia), anzi forse è quel suo essere intrinsecamente anti tecnologico.
O magari è primordiale nella voce, nella forma più che nei contenuti, nell’espressione, nel lessico con la sua fissità da fossile vivente.
O forse abbiamo solo scelto l’Ulisse sbagliato.(Massi gradirà questo assist…)
E poi c’è una cosa che vorrei sapere da Bart: è possibile un blues svincolato dal “sud”?
Di qualunque “sud” si tratti: geografico, politico, sociale. Dovunque si trovi.
South Side Blues Jam di Junior Wells suonerebbe altrettanto bene come North Side Blues Jam?
Il profondo “sud del Sud dei santi”.
E’ lì che nasce tutto, anche nella nostra piccola penisola?

Bart: Il blues ha tempi lenti, dilatati. A dispetto dei suoi esecutori, si muove poco è pigro, sonnecchia svogliato di fronte alla palude, o al grande fiume, o scrutando il mare. È nelle corde di chi nasce, dimenticato dal mondo nei luoghi dove il tempo sembra non esistere, dove tutto viene rimandato a dopo, dove non c’è molto da fare, che il blues è nato. Nella polvere del sud, nelle comunità rurali della gente di colore. Il nord è solo la terra promessa. Dove c’è lavoro pagato per tutti (una volta)…
Il blues è nato nei campi di cotone dove si lavorava duro e il padrone non pagava”. (Sonny Terry)
Il blues per come lo sento nella mia anima, resta ancorato ai paesaggi, ai colori, alle sensazioni, che solo il sud possiede. Poi è possibile anche un blues fuori da quei luoghi. Certo che è possibile. Ma suona in un altro modo. E’ un'altra cosa.  Vlad la scorsa volta ha fatto la differenziazione tra quello che per lui è blues, è quello che non lo è. Parlava in prevalenza di bianchi, se non erro. Ma chi è più blues tra: Blind Willie Mctell, e Sleepy John Estes?
Il blues del delta è musica ostica ,difficile da digerire, non è adatta al mercato radiofonico. Non tutti hanno la pazienza di ascoltare quei suoni sghembi, ossessivi, che non seguono alcun tempo,e vanno a ruota libera. Quando si parla di blues, si parla sempre del blues elettrico, per giunta fatto dai bianchi. Ma quella è la Musica Blues. Non è il Blues. Il blues tradizionale non si può trascrivere, è strano, dopo tre pezzi ti rompi i coglioni. Certo se non c’erano i musicisti bianchi, anche Robert Johnson non sarebbe diventato una leggenda. Ma quanti fruitori di musica hanno davvero ascoltato Robert Johnson? Il blues tradizionale è quello meno conosciuto, il più declassato.
Per questo è nato Dustyroad. Scrivo i miei racconti con la speranza che chi legge, si possa innamorare di quei pezzenti, e andare anche per un solo attimo ad ascoltarli. Il mio compito è questo. In nome del Blues. Del sud.

Massi: Eccome se gradisco l’assist, caro Evil. Vorrei prima però soffermarmi su un’affermazione di Bart che trovo tanto sorprendente quanto vera: “[…] il blues non è di sinistra.” Sorprendente perché va senza dubbio contro corrente rispetto alla convenzione (o luogo comune) che vorrebbe la cultura appannaggio della sinistra; vera perché se oggi, nel 2014, siamo ancora qui a parlare di blues - e non, ad esempio, di ragtime o di twist - la ragione va forse ricercata proprio in quel suo non essere ideologico che lo rende universale: pur mutando, o meglio, proprio in virtù della sua capacità di mutare, il blues va nutrendosi della propria continuità, della propria “adattabilità” al momento, ben lontano dalle banalizzazioni modaiole del carpe diem o da certo “compassionismo” estetico, tanto in voga in una società come la nostra dove il politically correct è ancora d’obbligo. Il bluesman – il vero bluesman, intendo – se ne fotte del politically correct e se ne fotte anche della legge. Cito ancora Bart: “Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.”

Ed è qui che raccolgo l’assist fornitomi da Evil per spostarmi su un terreno che mi è caro tanto quanto quello della musica: la letteratura.
Splendide le suggestioni omeriche di Mr. Hyde, e forse il collegamento tra “mitologia classica” e “mitologia blues” potrebbe trovarsi in quello che ritengo essere il libro più importante del Novecento e che delle peregrinazioni di Ulisse dà una lettura parodistica, ricostruendo in chiave modernista l’intera epopea omerica. Una delle innumerevoli chiavi di lettura di Ulysses è il neanche troppo velato sberleffo al vittoriano “eccesso di civiltà.” Mr Bloom è un outsider, è l’eroe moderno colto “nella sua reale miseria.” Umana, aggiungo io. Joyce recupera un mito classico (quello, appunto, di Ulisse), ne decostruisce l’ellenicità e lo trasforma - parodiando un altro mito, quello dell’ebreo errante - nell’eroe moderno. Lo sottopone a continue umiliazioni, sfide e derisioni; lo colloca in situazioni complicate e fastidiose; ce lo mostra nei suoi momenti più vulnerabili, umani, ordinari (mentre defeca leggendo il giornale, ad esempio) e ci regala il flusso costante dei suoi pensieri, guidati dal bordone di una malinconia incessante e, a tratti, dolcissima. Come il suo creatore, ebreo di origini ungheresi in terra d’Irlanda, Mr Bloom è un esiliato in patria. I continui richiami alla fascinazione per l’oriente nei suoi monologhi hanno la stessa profondissima essenza delle “lamentazioni” del delta del Mississippi.
Costretto a soffrire il trauma emotivo e psicologico del tradimento della moglie, dell’antisemitismo, di un’esistenza vissuta ai margini della società, Mr Bloom sostituisce lo stoicismo greco con l’umana imperfezione. Joyce ne dettaglia le più banali attività quotidiane e mette in evidenza, talvolta con tocco di compiaciuto feticismo, peccati e tabù dell’essere umano: defecazione, minzione, golosità, masturbazione, voyeurismo, alcolismo, sadomasochismo, ecc.
Se – in aggiunta a quanto teorizzato nelle precedenti conversazioni – il blues è anche uno stato d’animo, allora Mr. Bloom è uno dei personaggi più blues di sempre.
Non credo sia possibile un blues “svincolato dal sud,” se per “sud” intendiamo i confini connotativi tracciati in precedenza da Vlad, e condivido l’acutissima distinzione di Bart tra “blues” e “musica blues” (bellissimo tema, peraltro, da sviluppare); tuttavia un blues iperboreo è possibile, ma sarà sempre derivativo, e gli Ash Ra Tempel sono lì a dimostrarlo.
Alla stregua dell’apprendista che, all’inizio del suo percorso iniziatico, viene posto davanti al bivio tra “via umida” e “via secca”, Il blues(man) rappresenta l’eterno dubbio dell’uomo che non ha ancora deciso se seguire il “canto di casa” o lasciarsi avvolgere nel dolce oblio del “canto delle sirene.”

Vlad: il blues non è di sinistra. Bene. Il blues non è rivoltoso, non è di sinistra. Non è attivo. Son d’accordo: infatti appartiene a chi ha già perso. Come ho già detto: si cerca di riguadagnare la propria patria (la propria cultura) nelle terre del vincitore; spesso con gli strumenti stessi del vincitore. I canti di guerra non sono blues; le trombe dell’attacco di cavalleria nemmeno; gli inni di vittoria neanche. Al blues appartiene la sconfitta, inevitabile. In un certo senso: il blues si crogiola nella sconfitta e nell’elegia; non gli è indifferente, tuttavia, lo sberleffo per il vincitore.
Blues e sud. Nei limiti tracciati sopra: se al blues appartiene la sconfitta, per Sud occorre intendere gli sconfitti, gli esiliati, gli immigrati, i senza patria. I nordici emigrati a Pittsburgh avevano i loro canti di lavoro blues: erano Sud anch’essi. Andrew Kurely (operaio slovacco immigrato autore di American land) è Sud e blues; i Blues Brothers no. Andrew Kurely, come Robert Johnson, è blues; i Blues Brothers fanno musica blues.
Odisseo. Ulisse alla corte di Circe o di Nausicaa ha improvvisato sicuramente canti blues. Ne ho la certezza. Appena rientrato a Itaca avrà deposto l’elegia e cantato un inno di guerra: era a casa, infatti.
I Greci, distrutti dall’economia di rapina, esiliati in patria, suoneranno blues. Presto intoneremo blues anche noi.
A margine di Odisseo. C’è un libercolo interessante in giro: Felice Vinci, Omero nel Baltico. Più che un libro è una affascinante congettura. In esso l’autore ipotizza che l’Iliade e l’Odissea fossero originariamente ambientate nella regione baltica (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia) e quindi, dopo la migrazione dei popoli nordici verso il Sud (lungo le direttrici dei fiumi russi), riadattate al contesto mediterraneo. Omero sarebbe, perciò, un bluesman situato a Sud che rimpiange elegiacamente il Nord; e in tal caso il Nord sarebbe davvero un Sud.
Una proposta: considerare il blues come l’elegia cantata dei poveri, dei diseredati, dei senza patria, dei nostalgici. Dei sudisti dell’anima.


PLAYLIST

Captain Beefheart & His Magic Band - Safe as Milk (1967)
Cream - Tales of Brave Ulysses
da: Disraeli Gears (1967)
Junior Wells - South Side Blues Jam (1970)