giovedì 19 gennaio 2012

Viaggiatori Nella Notte.


L’aria sapeva di temporale. Camminavo di sbieco con le mani nel soprabito, attraversando la notte. Guardai l’orologio Erano le due passate da un quarto. Il cuore mi batteva come fosse un motore ingolfato e gorgogliava nostalgie brucianti. In qualche modo, ognuno di noi si porta appresso le proprie menzogne, riflettei, senza le quali è impossibile tirare avanti. Ma bisogna saper mentire, e non tutti sono in grado di farlo. Matilda non c’era mai riuscita. Lo compresi subito, dalla prima sera che uscimmo insieme. I suoi occhi erano di un azzurro cielo, che ci si poteva specchiare. Occhi troppo puliti per avere imparato a dire bugie. Accesi una sigaretta di controvoglia , tirai una boccata e la gettai via. Specchiandomi nella vetrina di un negozio di articoli da regalo, notai che avevo la faccia greve e dolente, la faccia di un blues. In fondo, le nostre falsità ci fanno sopportare anche quelle degli altri, seguitai a pensare. E mi sentii come un mucchio d’avanzi, gettati via dopo il cenone di capodanno. Cavalieri nella tempesta/Cavalieri nella tempesta/nati in questa casa/ buttati in questo mondo/ come cani senza un osso/ come attori senza la parte (Riders On The Storm -Jim Morrison).

Non c’è niente di gratuito in questo mondo, neanche la pietà. Alla fine è sempre la nostalgia che ci permette di restare in piedi, che ci rapina i sentimenti, che fa scattare quella molla e ci salva dalla tempesta. Anche quando pensiamo di esserci liberati per sempre da quella cosa che ci faceva penare, non sappiamo mai se lei ha lasciato noi. Pioveva sempre. Accidenti. Il vento sferzò la pioggia strizzandola. A che serviva prendersela con gli altri, è sempre con noi stessi che dobbiamo fare i conti. Come nodi che vengono al pettine, abbiamo tutti qualcosa da regolare. Camminavo lento, con la sottile percezione di aver inseguito le cose sbagliate. E quella notte non ebbe fine. Sono sempre stato il miglior nemico di me stesso. Nulla da invidiare a nessuno, per questo. Ho commesso un errore dopo l’altro, ho abbassato la guardia e mi sono fatto fottere dalle circostanze. Erano le quattro e tre quarti della notte. Quando sei strano i volti vengono fuori dalla pioggia. Quando sei strano nessuno ricorda il tuo nome (People Are Strange. Jim Morrison). Attraversai la strada, nel momento esatto in cui un’auto sfrecciò veloce e mi schizzò del fango sul soprabito. Al market aperto 24 ore su 24, comprai un giornale, latte e biscotti in offerta speciale. Nel distributore automatico presi le sigarette e un accendino. Dovevo smettere di fumare. Con quello che costavano e con il poco denaro che guadagnavo dovevo pensare solo ai bisogni primari. A conservarmi. Dopo tutto, non è che abbia mai avuto grandi pretese, anche quando frequentavo l’altra vita, quando avevo un lavoro stabile. Adesso, a furia di scagliare colpi alla cieca, mi sentivo vuoto e senza prospettive. Avevo perso tutte le forze, ero inerte. Ma dovevo pur esistere.

Anna, la mia vicina di casa, mi udii armeggiare con le chiavi nella porta e si affacciò sull’ammezzato. Tutto bene Al? - mi chiese con tono materno. Anna era un ex maestra elementare, vedova da molti anni. Non aveva figli e nessuno che la andasse a trovare. Viveva della sua pensione e della reversibilità del marito. Con molta discrezione, da quando Matilda se ne era andata, si prendeva cura di me. Lo faceva senza essere mai invadente, con una gentilezza e un amore che, ormai, sono merce rara a trovare. Si ,sono stato in giro a guardare la notte - le risposi in tono malinconico - a misurare il tempo che passa. Mi avvicinai e le diedi un bacio sulla fronte. Lei mi accarezzò il viso con la mano ossuta e mi sussurrò nell’orecchio: Ero in pensiero, scusami Al. Entrai in casa, attraversai il piccolo corridoio e mi diressi verso la finestra. Tirai la tenda, guardai giù in strada ed accesi a basso volume lo stereo. Intanto che mi preparavo una tazza di caffèlatte, sentii la pioggia cadere sulla grondaia. Lo bevvi, inzuppandoci i biscotti. Giù, giù lungo la sponda del mare./Ci andiamo davvero vicino/ Ci andiamo davvero ad attaccare/Bimba stanotte ci andiamo ad annegare. /Andremo giù giù giù. (Moonlight Drive- Jim Morrison).

Stavo in silenzio, seduto sulla poltrona, ascoltando la pioggia che crepitava sul vetro e The Boatmnan’s Call di Nick Cave. Mi assopii. Avevo sempre lavorato come operaio in una fabbrica di profilati d’alluminio, impiegato alla fusione. In quella fabbrica avevo conosciuto Matilda. Il mio amore. Era un addetta alle pulizie. Quando la vidi la prima volta, dentro quella salopette celeste di una taglia più grande, aveva i capelli raccolti dentro una cuffia bianca e armeggiava con scope e strofinacci, mi sembrò stupenda. Come lo era d’altronde. E mi tremarono le gambe, quando mi accorsi che mi osservava con interesse. Ora, ti amerò /Finché dal paradiso non pioverà più/ ti amerò finché le stelle non sprofonderanno dal cielo/ Per te e per me. (Touch me di J. Morrison). Anna mi svegliò delicatamente, toccandomi la spalla. Possedeva una copia delle chiavi di casa che gli aveva dato Matilda e che io le avevo lasciato. Tutto era tale e quale a quel giorno in cui se ne era andata. Anche gli oggetti sui mobili di casa erano nella stessa posizione di quando c’era lei. Aprii gli occhi mostrandole un sorriso stinto. Vieni a mangiare Al - mi borbottò - si fredda tutto. Era il mio angelo custode. Poco prima di cedere al sonno, una paura tremenda mi aveva invaso. Poi la sentii respirare e ascoltai la sua voce, la vidi alzata davanti a me. Tutto era ritornato… li in un attimo. Nella casa dell'amore /Io conosco il sogno/Di cui vai sognando/Io conosco la parola /Che spasimi per udire /Io conosco la più profonda e segreta delle tue paure (The Spy – J. Morrison).

Cenammo, ascoltando il notiziario delle 19.30. Aveva preparato una zuppa di ceci con i crostini di pane e del purè di patate. Mentre mangiavamo, mi schernì con tenerezza , provando a tenermi alto il morale. Come avrei fatto senza di lei, mi chiesi, restituendole un sorriso dolce. Mi aiutava perfino con l’affitto di casa quando non c’è la facevo a pagare. Tra un boccone e l’altro mi raccontò che avevano arrestato un ragazzo, perché aveva preso una barretta di cioccolata in un supermercato. Il personale lo aveva inseguito e consegnato alla polizia. Solo serpi che strisciano si comportano in questo modo. Gliela avrei pagata io quella barretta – disse - se fossi stata lì. E anche adesso, se servisse a qualcosa. Non c’è più umanità nella gente, siamo l’uno contro l’altro, pronti a scannarci, ad ammazzarci, per un nonnulla. In un paese dove la cancrena è nello Stato, dove tutti razziano, dove si commettono crimini terribili, dove sciacalli internazionali ci succhiano il sangue, dove si spezzano le vite di milioni di persone, riducendole sul lastrico economico e morale. In un paese dove nessuno ha mai pagato per le stragi commesse, devi mandar giù che un ragazzo venga condannato a due anni di carcere per una simile stupidaggine. Mi chiedo Al, ma che razza di giudici abbiamo, se non hanno provato nessuna vergogna, ad emettere questa sentenza?. Se non hanno provato nessun disagio a guardare i loro figli in faccia, la sera. E’ un paese che merita solo l’indulgenza del disprezzo - affermò. E lo disse con rabbia, quasi gridando. Per quanto mi riguardava, da un bel po’avevo smesso di credere alla giustizia degli uomini e anche a quella divina. Questa e' la fine/ bellissima amica /Questa e' la fine/ Mia unica amica/ la fine/dei nostri piani elaborati/ la fine di ogni cosa stabilita/ la fine/ né salvezza o sorpresa/ la fine... (The End. - J Morrison)

Bisogna che vi arrangiate! - ci avevano detto i capi dell’azienda. Le classi dirigenti e i mafiosi usano gli stessi metodi per liquidarti. Sacchi d’immondizia da gettare in qualsiasi momento. Questo eravamo. La nostra vita non contava un cazzo. I loro numeri parlavano chiaro. Era più conveniente spostare la produzione in Cina, dove il lavoro non viene pagato come dovrebbe essere. Dove i più elementari diritti umani vengono calpestati e nessuno fa nulla. Anzi, si fa finta di non vedere. Perché il grasso cola. Quel giorno ci contestarono quasi di esistere. La globalizzazione, il liberismo, la concorrenza, l’euro; di tutto questo ne avremmo tratto solo benefici. Saremmo cresciuti economicamente, diventati competitivi, questo andavano blaterando i politici, nei loro dibattiti televisivi, sorretti da giornalisti ed economisti, pagati per assecondarli. C’era un odore nauseabondo, che mi perforava le narici. Il piano era chiaro, ci volevano rendere ancora più servili, cosi proni ai loro comandi, da accettare qualunque decisione avessero preso a riguardo delle nostre vite. Avevano pensato a salvare le banche, con i loro bilanci fittizi e le loro schifezze perpetrate a scapito di tutti noi, le uniche responsabili di questo dolore collettivo. Aziende con un evasione fiscale che avrebbe risanato l’intera economia. Ma dubito che in quelle stanze gli agenti del fisco sarebbero andati a verificare. Piuttosto, lo Stato aveva trovato il modo di raggranellare il denaro per rimpinguargli gratuitamente le casse. Stavano rendendo il lavoro un illusione, un miraggio che, se e quando lo ottenevi, era facilissimo ricattarti. La solita storia dei ricchi contro i poveri, ma questa partita si stava giocando con una crudeltà senza pari. Mai fidarsi degli uomini, è come farsi uccidere. I servi hanno il potere/ gli uomini cane e le loro meschine donne/Tirano su povere coperte/I nostri marinai/Sono stanco delle facce austere/che mi fissano dalla tv/ Torre/ci voglio delle rose dentro (The Severed Garden - J.Morrison)

Ci sarebbero voluti i poeti al potere. Forse, gli unici in grado di ridare una nuova anima al mondo. Nonostante tutto, avevo provato a reagire allo sconforto, mi ero dato da fare. Finito il periodo di cassa integrazione e di lotta, per tentare di riprendermi il posto perso, cercai di svolgere qualsiasi mansione. Accettavo tutto quello che mi si proponeva. Guardiano notturno nei cantieri edili, imbianchino, autista, anche piccoli lavoretti a servizio di chiunque mi pagasse la giornata. Cercavo di andare avanti,al contrario di Matilda, che dopo il licenziamento era precipitata nella notte più nera. Si era distaccata da tutto e da tutti, non riusciva a reagire a quello stato di cose. Era finita per inghiottirsi dentro se stessa, ogni giorno di più. Il suo fu un viaggio spaventoso nelle tenebre. Mi versai un whisky e accesi una sigaretta. Il buio si era insediato nella stanza. Per non restare da solo, cercai il suo disco preferito, Closing Time di un giovanissimo Tom Waits, allora scombussolato di romanticismo. La puntina si poggiò frusciando: Una ninnananna alla mia piccola, non piangere tesoro. Ci sono gocce di rugiada sulla finestra, caramelle di gelatina nei tuoi pensieri. Stai scivolando nel mondo dei sogni mentre reclini, lentamente il capo (Midnight Lullabay). Mi alzai dalla poltrona per prendere il posacenere. Lo feci lentamente, molto lentamente, per paura che andassi del tutto in frantumi.

Mentre il cielo diventava color rame, quella città mi sembrò un posto non peggiore di altri. Entrai in un bar qualsiasi e mi sedetti sullo sgabello vicino al banco. La cameriera mi accolse con un sorriso opaco e senza quei formalismi del cazzo che mi mettevano a disagio. La osservai mentre preparava il mio Johnny Walker etichetta nera. Era bella, ma di quella bellezza artificiale. Troppo perfetta, per uno come me. Quando mi passò il whisky e si mise a parlottare del più e del meno, mi sembrò più vera di come mi era apparsa di primo acchito. Un altro viaggiatore della notte, rassomigliante a Jena Plissken, prese posto accanto a me. Mi scrutò con occhi vitrei e ordinò un bourbon liscio. Lo sai il giorno distrugge la notte. La notte divide il giorno. Ho provato a correre. Ho provato a nascondermi. Fatti strada verso l'altro lato (Break On Through - J. Morrison)

Erano tre anni che non stavo più con una donna. Da quando Matilda si era ammalata. Da quando diceva che voleva addormentarsi, per non svegliarsi più. Allora non provai mai a forzarla, e pensandoci adesso, probabilmente sbagliai. Forse lei non si era sentita più desiderata, ma io l’amavo con tutto me stesso e avevo solo paura di ferirla, di farle del male. A volte, non sai mai qual è la cosa giusta da fare. Uscii dal bar e presi a camminare senza meta per la città. Era solo un modo per non impazzire del tutto. Non riuscivo a dormire e, per seminare i miei spettri, vagare nell’ombra era diventato quasi un obbligo. Le volte che mi capitava di non aver voglia di muovermi, restavo chiuso in casa. Mi accadeva di chiamarla ad alta voce e continuare a farlo pensando che lei mi rispondesse. Ma i morti non parlano. Reami di felicità, reami di luce. Qualcuno è nato per vivere benissimo. Qualcuno è nato per stare in delizia. Qualcuno è nato per una notte senza fine.. (The End of the night - J. Morrison). Quella mattina risvegliatomi, misi sul fornello la macchina del caffè e aspettai che venisse fuori. Lo versai in due tazze e ancora fumante ne portai una a Matilda, che sonnecchiava raggomitolata nel letto. La baciai tra i capelli come facevo sempre, lei scoperchiò le coperte e mi abbracciò. Fu un abbraccio inconsueto, forte e lungo. Ma solo dopo mi resi conto che non lo aveva mai fatto in passato. Prima che tu diventi incosciente. Vorrei un altro bacio Un'altra possibilità di grande felicità. Un altro bacio, un altro bacio. I giorni sono luminosi e pieni di dolore. Prendimi nella tua sottile pioggia (The Crystal Ship – J. Morrison).

Anna mi attese tutto il giorno sotto il portone d’ingresso. E non permise a nessuno di avvicinarsi e neanche di contattarmi al telefono. Quando mi vide svoltare l’angolo del palazzo, mi venne incontro. Non ci fu bisogno che dicesse nulla, lessi tutto in quello sguardo perso nel vuoto, in quell’abbraccio senza fine che mi diede. Se ne era andata per sempre, ingerendo barbiturici. Così è la vita. E’ così che tutto finisce! Anna aveva suonato alla porta, senza ottenere risposta. Suonò ancora una volta. Niente. Alla fine, apri con la chiave e la trovò riversa sul letto. Dal controllo che fecero gli inquirenti non risultò che avesse lasciato alcun biglietto per spiegare il suo gesto. A quel punto la mia guerra era terminata. Perché, finchè lottiamo, ci aggrappiamo alla speranza; dopo si penetra sgomenti dentro al buio. Nel nulla più assoluto. Yeah, vieni/ Quando la musica é finita/ Quando la musica é finita,/ Spegni le luci /spegni le luci(When The Music’s Over – J. Morrison). Qualcuno mi consigliò di lasciare quella casa, ma non l’ascoltai. Era l’unico modo per sentirla ancora viva, per continuare a parlarle, per seguitare ad amarla. Il cielo si punteggiò di stelle. Attraversai la notte, prima con passi lenti, poi sempre più spediti. Un viaggiatore solitario si spinge sempre più lontano. Ma fino a dove si può arrivare? Dove bisogna che si fermi? Nessuno lo sa con precisione. Entrai in casa che erano quasi le cinque della stessa notte, il giorno dopo. Mentre ululavo alla luna, nella semioscurità avevo notato due ragazzi che camminavano abbracciati, come Dylan e Susan Rotolo, nella foto di copertina di The Freewheelin. Le era sempre piaciuto quello scatto, sosteneva che noi assomigliassimo a quei due. Abbassai le palpebre che quasi mi s’incenerirono e mi venne un capogiro che dovetti appoggiarmi alla parete. Quando mi scollai, il cuore prese a battermi in maniera inaudita e iniziai a sudare freddo. Nel chiaroscuro del salottino, strinsi quell’ellepì e mi avvicinai alla finestra. Scostai la tenda, una bava di luce penetrò. Tirai fuori il disco e un foglietto cadde a terra. Lo raccolsi e, con le mani che mi tremavano, lessi quell’ultimo brandello di vita: Sei l’essenza di tutti i miei sogni, Al. Ti amo. Come un’altra, voglia Dio, possa amarti. Matilda.



A ricordo di Jim Morrison, Re Lucertola.


Bartolo Federico - Gennaio 2012




sabato 7 gennaio 2012

Lupo Solitario.

Mi ero imbottito di quei blues scontrosi e poco confortanti, che amavo ascoltare quando volevo fare chiarezza con me stesso. E siccome queste cose mi accadono sempre di notte, per dimostrare quanto ero forte, mi ero lavato le ferite e stavo sprofondato nell’ombra, in attesa dei primi colori dell’alba, che chissà perché tardava a venire. Avrei dovuto sistemare quella porta del bagno che cigolava fastidiosamente ad ogni colpo di vento, pensai, intanto che accendevo una sigaretta e tiravo qualche boccata. Era una notte anonima e senza sfondo, una delle tante notti che avrei preso volentieri a calci se le mie ossessioni non avessero deciso di assalirmi e vendicarsi per i soprusi e le angherie a cui le sottoponevo.

Da un po’ di tempo a questa parte si era aperto un conflitto d’interessi tra me ed i miei chiodi fissi; avevamo avviato il conto alla rovescia, per vedere chi si fosse arreso prima. Mentre brancolavo, decisi che questa volta non sarei fuggito, ero pronto a sfidarle in un duello all’ultimo sangue, come quelli che avvenivano tra pistoleri nel polveroso west. Fu così che mi ricordai di Lone Wolf, il Re della Solitudine, il mio eroe dei fumetti di quando ero bambino e leggevo l’Intrepido nella veranda di casa di mio cugino Alfio. In un attimo mi trasformai in lui. Con il poncho e il cappello calato sulla fronte, tirai un risolino stanco e vuoto, un risolino da lupo ed aspettai paziente che facessero la prima mossa. Stavolta le avrei sbirciate con un ghigno di disprezzo e fulminate all’istante, non appena avessero allungato la testa. Con il mio Winchester in acciaio brunito.

La notte si era rintanata nel suo sgabuzzino. Stropicciato ma vivo, ne ero uscito anche questa volta. Rimisi a posto quel cd alla moda, che l’industria discografica furba e rapace aveva pubblicato per il centesimo anniversario della nascita di Robert Johnson. Quel cd in cui avevano masterizzato i suoi blues in modo impeccabile e serviti in una confezione di lusso. Ma il blues, se vuole essere tale, deve stare scomodo altrimenti somiglia a qualcos’altro o è un’altra cosa. Quando misi quel compact nel lettore, a momenti mi pigliava un colpo. Non me le rammentavo più, quelle canzoni; la chitarra era nitida e pulita, la voce di Robert mi sembrò irriconoscibile. Abituato, com’ero, ad ascoltarlo sul vinile, tra fruscii, salti di puntina, polvere e alone di mistero, quel cd non si addiceva per nulla ad un tipo come lui e neanche a me. O almeno così volevo pensare. Si finisce sempre per credere a ciò che fa più comodo. Raccattai dallo scaffale il mio vecchio 33 giri, sgangherato e pieno di graffi, e i demoni della sopravvivenza ripresero a pungermi. A certe cose non bisognerebbe mai forzare la mano. Certe cose vanno custodite così come ci sono state donate.

E' un inquieto ed affamato sentimento. Che non dice niente di buono, quando tutto quello che dico lo puoi dire altrettanto bene. Tu hai ragione da parte tua, ed io ne ho dalla mia. Siamo rimasti indietro per un mattino di troppo ed un migliaio di miglia (One Too Many Mornings -Bob Dylan-)

Mi ero messo ad aspettarla, con la bocca impastata di nicotina, ed un freddo nelle ossa che mi faceva battere i denti. Ci avrebbe pensato Bob, come sempre, con le sue parole, a tenermi compagnia. Era stata una gran fortuna, averlo incontrato per la prima volta, quel pomeriggio di non so quale anno. Quel pomeriggio che sembrava privo di vitalità, destinato a sparire come altri mille pomeriggi da lupo solitario, si rianimò tutto ad un tratto. Quando Blonde on Blonde, planò sul piatto del giradischi modello anni settanta, la pioggia era venuta giù e la strada luccicava di tutti quei sogni e speranze con cui mi ero riempito le tasche e la testa. Che poi molti di quei sogni non si siano avverati è un’altra verità. Rimasi ammutolito, impietrito di fronte a quel fiume di parole e musica che mi inondava il cuore. Senza alcun preavviso, un pazzo svitato era piombato nella mia cameretta. Quel tizio rullava musica con una facilità disarmante, cantando come fosse in trance mistica. Chi era mai quell’uomo che aveva speso tutto quel che aveva di sè, in intensità, emozioni e poesia? Di che razza umana era? E che musica era mai, quella? Blues, folk, rock, musica da circo, musica d’amore, d’autore, musica classica, sinfonica, cacofonica, psichedelica. Mai nessuna etichetta avrebbe potuto imbrigliare tanta bellezza, perché quel tizio mi offriva una via d’uscita al grigiore e mi faceva correre verso il sole. Come non mi capita più da ormai molto tempo. Da quando la notte si è presa tutto di me.

[Astral Weeks - Van Morrison Album Cover Art]Lasciai vagare un sorriso, mentre il vento affrancava il cielo dalle nuvole che l’avevano preso in custodia per tutto il giorno. Una nuova notte era arrivata. Nella penombra, mi feci trasportare dal tempo che passa e ci porta con sè per sempre. Avevo dimenticato molte cose ma altre, ne ero certo, non avevano dimenticato me. Misi su Astral Weeks di Van Morrison e riempii il bicchiere di Jack Daniels n°7. Volevo conservare qualcosa di umano prima di lasciarmi andare al cinismo più esagerato. Accesi la lampada sulla scrivania vicino la finestra, l’orologio segnava le tre ,il cielo era pulito e sterminato e per strada c’era una luce fredda come il mio cuore. Avrei voluto sentirla parlare, sarei rimasto ad ascoltarla, mi avrebbe fatto bene. Quel disco in genere mi scuoteva, ed era uno dei pochi che teneva testa a Blonde on Blonde, mi rifletteva sempre le cose che avevo voluto dimenticare. Mi annusava ogni anfratto dell’anima, perché suonava intimo e greve e lo faceva in modo indagatorio e senza nessuna enfasi. Mi preparai un caffè ristretto che bevvi seduto davanti alla finestra. Non era che poi fossi cambiato, ero solo invecchiato. Troppi incroci, troppa strada fatta contromano per restare liscio e lucido. “Oh bambino mai a chiedersi perché”, insisteva Van Morrison, mentre gli occhi del cuore si coprivano di cataratte. Sapevo che ci usavamo ,che ci consumavamo lentamente, intanto che le strade secondarie si riempivano di altri sogni che non si sarebbero mai avverati. Bevvi a garganella quel che restava nella bottiglia.

Passavo il mio tempo a girare in tondo, forse avevo bisogno di sole, di calore, di una nuova pelle. Lei era arrivata. La vidi dalla finestra posteggiare l’auto. Era vestita alla moda, stretta nel suo impermeabile nero, i capelli raccolti sotto il basco di lana con un ciuffo ribelle che le fuoriusciva da un lato. Aveva fascino. Quel fascino, neppure troppo discreto, di chi sa che ha delle carte da giocarsi. Scese in fretta dall’auto e per non bagnarsi dalla pioggia velata che cadeva sulla città, camminò sicura a grandi passi verso il portone di casa. Mi affacciai al balcone e la pioggia mi calò lungo la faccia. Una faccia divorata dalla tristezza, come quella di Leonard Cohen.

Ora ti dico addio, non so quando tornerò. Mi muoverò domani verso quella torre giù lungo la strada. Ma lo saprai da me donna, dopo molto che sarò andato. Ti parlerò dolcemente da una finestra. Nella torre della poesia” (Tower of Song).

Entrò in casa sfoggiando un sorriso a buon mercato. Andò in cucina e tornò con una tazza di caffè, si sedette sulla poltrona davanti alla mia e, fissandomi con uno sguardo che mi trapassò da parte a parte, disse: “da come sei conciato non esci da giorni. Che ti succede? Hai davvero una brutta faccia!”. Si comportava con arroganza, come avevo fatto  anch’io con la vita. Chissà chi era in cella fra noi due, pensai guardandola. Ma non aveva nessuna importanza saperlo e restai in silenzio. La mia era una lotta con me stesso ed era la più difficile. Lottavo contro le mie speranze, i miei sogni, la mia stessa incapacità, contro il mio passato che mi riacciuffava, sempre e comunque. Non mi andava di spiegarglielo, non avrebbe capito. Me lo disse lei stessa, un giorno, nuda sul letto, che ero un tipo difficile, di quelli che sfuggono, di quelli che.. non sapeva neanche lei come definire. “Relegati al sesso abbiamo premuto contro i confini del mare vedendo che non c’erano rimasti oceani liberi per spazzini come me. Sono arrivato in coperta benedicendo la flotta rimasta ed allora acconsentii al naufragio. A mille baci di profondità (A Thousand Kissess Deep – L. Cohen)

Chiusa nella sua torre d’avorio, sopravviveva ai suoi party, ai suoi falsi amici, gente che era morta e non lo sapeva. La guardai mentre accavallava le gambe; era attraente, ma era bene chiamare le cose con il proprio nome. Era solo una questione di sesso quella che ci congiungeva. Non che la cosa mi dispiacesse, anzi, ma era un gioco al massacro. Dovevo fare attenzione, dosare ombre e luci per essere credibile; e lei doveva essere solo più curiosa e, probabilmente, anche più profonda. Glielo dissi parlando lentamente, a voce bassa, cercando in tutti i modi di non ferirla. Mi versai un dito di whisky per non cedere allo sconforto.

Era andata via così come era arrivata. Da quella stessa porta era uscita per sempre dalla mia vita, con un passo lento e senza mai guardarmi negli occhi. Non me lo meritavo. Ma era stata la cosa migliore per tutti e due. Non sapevo fingere, non potevo sempre essere in guerra con tutto e tutti. Mi sentivo stanco, sfinito, e avrei voluto dormire. Misi un cd di Willy il lupo mannaro e mi abbracciai alla pioggia che continuava a cadere. E intanto che lui cantava con la sua voce rotta dall’emozione quelle note per un amante assente, mi addormentai. ”Dille che aspetterò/Al solito posto/Con gli stanchi ed estenuati/Non c’’è scampo/Al bisogno di una donna/Devi sapere/Come chi è forte diventa debole/E il ricco diventa povero/Stai correndo con me/Non toccare la terra/Siamo quelli dai cuori senza riposo/Non quelli in catene. (Slave To Love – Bryan Ferry)

A Paolo Vites, con stima.

Bartolo Federico - Gennaio 2012


domenica 1 gennaio 2012

Scarpe Volanti.





Seduto sui gradini della sua casa di legno osservò il deserto. Era ridotto a brandelli e, nonostante capisse che quella frenesia da tossicomane alcolizzato che lo dominava lo avrebbe portato diritto alla tomba, si accese l’ennesima sigaretta e bevve un lungo sorso di rum. Il cuore accelerò i battiti e lo picchiò nel petto nello stesso istante in cui un odore di merda sopraggiunse. Che strano, pensò. La notte lo attraeva e, nel contempo, lo spaventava; era scura e gelida ma per altri versi anche confortante. Dondolò su se stesso e raccolse da terra la Gibson color tabacco. Con la mano sinistra prese un accordo di Mi maggiore e, sommessamente, nella brezza leggera, tossì un blues rauco. Un coyote, celato nell’ombra, stette ad ascoltarlo.

Il whiskey dev’essere il mio letto di morte. Dimmi dove mettere a giacere la testa. Non con me è tutto quel che lei disse. Sul far del mattino. Se avessi un biglietto da un dollaro, credo, certamente andrei in città a bere sino a riempirmi. Sul far del mattino. (Dollar Bill Blues)

Quel giorno, prima che il cielo si facesse scuro e un vento freddo prendesse a soffiare, se la filò con il suo pick-up. Ci aveva caricato il necessario ed era sparito da quella città in cui non c’era nulla da fare, specie per un uomo schivo come lui. Guidò dall’alba al tramonto, osservando la pioggia cadere e contemplando sé stesso. Bere era diventato il suo chiodo fisso; nulla di cui vantarsi, certo, ma non era andata sempre cosi. Quando era bambino aveva un sacco di idee su come sarebbe stato il suo futuro e poi, crescendo, aveva ridimensionato tutto e si era limitato a parare i colpi, cercando di soffrire il meno possibile. Nessuno di noi può prevedere il futuro e che cosa ci succederà. Magari uno crede di riuscirci, ma non è vero. Ed allora facciamo cose insensate, balziamo di qua e di là, come cavallette impazzite, restiamo in attesa che le cose tornino a essere come non saranno più.

La stamberga di legno gli si era parata davanti all’improvviso, un giorno che si era spinto più in là del solito nei suoi pellegrinaggi attraverso il deserto. Quella baracca, che un tempo aveva dato riparo a viaggiatori solitari, hoboes e pionieri, cadeva letteralmente a pezzi, ma lui s’innamorò all’istante di quel luogo. Con una pazienza certosina la rimise in sesto e, alla fine, ci andò a vivere. Rientrò in casa e mise a posto la chitarra, si accovacciò sulla branda guardando le travi del soffitto. Un raggio di luce penetrava dalla finestra colpendolo direttamente sugli occhi. L’aria era fresca, bevve un’altra lunga sorsata. Si rimise in piedi, arrotolò una sigaretta e stette immobile per un lungo istante nella penombra. Afferrò nuovamente la chitarra è biascicò una canzone, una di quelle canzoni in cui si metteva a nudo. Una di quelle canzoni che feriscono fin dentro l’anima, se percepisci le voci e quello strano brusio delle cose che ci circondano.

Non devo raccontarti delle bugie Non credo che sia saggio Hai dei bei occhi Vorresti starmi alla larga non valgo molto come amante è vero ora sono qui e poi sarò via e triste per sempre Ma sono certo di volerti. Cieli pieni di argento ed oro. Prova a nascondere il sole. Non si può fare a lungo. (No Place To Fall)

Quando entrò in quel bar, si sedette su uno sgabello di legno accanto a dei messicani che bevevano e chiacchieravano tra di loro. Il banco era di mogano scuro. Di fronte, nel mobile dietro il banco, c’era uno specchio dove poteva osservare gli altri uomini dietro di lui. Notò che erano per lo più solitari, sbandati, assorti dentro i loro guai. Non fece in tempo ad ordinare, che la puttana che lo aveva preso di mira appena entrato si avvicinò con garbo e lo guardò dritto negli occhi. Loretta era bella da lasciarlo senza fiato, sembrava piccola e sperduta ed era diversa da tutte le ragazze che aveva incontrato. Lo sentì a pelle, gli fece un effetto dirompente, tanto da pensare che con quello sguardo lei potesse osservarlo fin dentro le viscere. Ma fu un attimo. Subito dopo abbassò gli occhi e quell’euforia svanì nel nulla, lasciando spazio solo alla paura, a quel brivido freddo che lo smarriva, all’angoscia senza limiti che lo permeava. Si sentì triste e colpevole di chissà quale misfatto senza che avesse fatto nulla di male.

Oh, Loretta è solo una ragazza da saloon indossa il sette sulla manica Balla come brilla un diamante Racconta bugie che adoro credere Ha 22 anni circa e occhi allegri color nocciola Butta via il mio denaro come cascate d’acqua Mi ama come vorrei amarla io (Loretta)

Sputò via la cicca che spense schiacciandola con la punta dello stivale. Stava alla finestra, dietro il vetro polveroso, e guardava la vecchia ferrovia in disuso. Tutto intorno regnava il silenzio, ma gli sembrò di vedere qualcosa e schiacciò la faccia nel vetro freddo. Di notte i vagabondi si nascondevano da quelle parti. Rannicchiati sulla terra fredda, con il corpo che gli doleva, sentivano i crampi alle gambe e alla schiena mentre aspettavano che il treno merci passasse per saltarci su. Gli erano sempre piaciuti i vagabondi perché anche lui, come loro, amava guardare le nuvole che se ne andavano senza meta nel cielo. Uomini dimenticati, quelli, che probabilmente avevano la colpa di avere il cuore al posto giusto. Uomini che celavano storie incredibili e conoscevano quelle ballate antiche che parlavano di banditi buoni come il pane, di ferrovie e di quanto era duro il mondo con la povera gente. Amava quelle canzoni, lo facevano sentire orgoglioso di ciò che era diventato. Il buon Dio li abbia in gloria i vagabondi, pensò.

Non si accorse neppure che si era fatto giorno. Nella piccola cucina preparò del caffè e su del pane raffermo spalmò del burro di arachidi. Mangiò, continuando a fumare tra un boccone e l’altro, ascoltando nel silenzio il proprio respiro. Era cresciuto in una famiglia facoltosa che si era arricchita con il petrolio. Negli anni della sua fanciullezza aveva cambiato più volte residenza per via degli affari di suo padre. Questi continui spostamenti non gli permisero di avere radici da nessuna parte. Durante il periodo universitario si era ben distinto, poi il buio e la paura lo vennero a prendere. In quell’alba fredda, strisciando come un crotalo, qualche ricordo si fece timidamente largo e si meravigliò non poco perché la sua malattia gli impediva di farlo. Quando i ricordi si spengono é come avere detto addio a tutto ciò che conosci, a ogni cosa che hai amato; il vento furioso ti sommerge, lasciandoti ansante e tremante, riempiendoti gli occhi di polvere e di ruggine. Cosi, a poco a poco, si muore.

Giorni pieni di pioggia Il cielo sta venendo giù ancora Mi sento proprio stanco di queste solite vecchie tristi canzoni, Bambina non sarà lungo il tempo prima che io allacci le mie scarpe volanti (Flyng Shoes)

Aveva il morale a terra ma, come per molti che soffrono di disturbi psichici, voleva sembrare sereno, dare l’impressione di essere perfettamente normale, quando sapeva bene che non era così. Il suo spleen lo portava alla deriva, doveva decidere solo se affondare lentamente o tutto in un botto. Bisognava assumere le redini del comando, tenendo una vita più regolata. La lampada ad olio era rimasta accesa e la baracca sembrava accogliente o cosi pareva ai suoi occhi. Una pioggia sottile iniziò a cadere. Dalla finestra imperlata di pioggia osservò la strada. Il vento aveva preso a soffiare. Mandò giù d’un fiato un bicchiere di whisky, si alzò e infilò una mano nei pantaloni, tirò fuori quel foglio raggrinzito su cui aveva appuntato quei nuovi versi e con la chitarra cercò una melodia.

Sui venti della tristezza la luce è dolente e le catene sono strette. La libertà sta cantando. Aggràppati al buio fino a quando non avrai cambiato canzone. La tristezza mi laverà e subito mi asciugherà. Il mondo mi nasconderà, ma lei saprà ritrovarmi e quando mi troverà mi porterà a casa. (When she don’t need me)

Aveva già inciso dei dischi ma non era per nulla soddisfatto dei risultati ottenuti. In quella capanna in mezzo al deserto stava cercando di capire dove sarebbe potuto arrivare. Il materiale che aveva scritto gli sembrava buono; qualche sua vecchia canzone, a furia di provarla e riprovarla, aveva preso più consistenza ed un rantolo di fiducia lo spingeva in avanti. La musica era la sua ancora di salvezza. Aveva il viso magro e nei suoi occhi si leggeva tutta la sua sofferenza, il suo male di vivere, ma avrebbe in ogni modo inciso quelle canzoni. Si tolse il cappello e fumando guardò lontano, verso il deserto. Scese lentamente i gradini che lo portavano fuori dalla baracca e prese a camminare tra i sassi. Un coyote lo osservò da dietro una siepe. Camminando prese a contare i passi e si sentì sospeso sopra il deserto; un breve attimo con le sue scarpe volanti. Si voltò è tornò indietro. Rientrò in casa e si sdraiò sulla branda cercando finalmente di dormire. In lontananza gli parve di sentire il fischio sottile di un treno.

Bartolo Federico - Gennaio 2012