lunedì 22 gennaio 2018

Kill Ugly Radio

Rimasi inerme sdraiato nel buio dopo aver messo un disco che tolsi quasi subito, perché tanto lo avevo ascoltato che non mi interessava più. Dalla bottiglia che avevo posato vicino alla sedia mi versai da bere e andai a prendere dei cubetti di ghiaccio dal frigo. Per quelli che come me avevano due anime, era davvero difficile andare avanti. Ero metà di quello che avrei voluto essere, ero metà in tutto quello che facevo, e questo bastò per riempirmi d’ansia. Tutti i voli finiscono a terra, c’è poco da fare. Mi versai dell’altro whisky sopra il ghiaccio che avevo già nel bicchiere, e presi a bere lentamente. Me ne stavo fermo su lato opposto della strada senza sapere dove andare, dove svoltare, o cosa cercare ancora. Non mi andava di mollare, senza un segnale di riconoscimento, un ultimo sussulto. La vita ci riserva una montagna di dispiaceri considerai, nello stesso momento in cui la signora Nunzia per via della sua insonnia, fece arrivare dalla radiolina la canzone che stava ascoltando. Respirai profondamente alzando la faccia all’insù, e inalando l’aria in brevi ansiti, guardai l’orologio. Per consolarmi ho messo Debris, una canzone dei Faces. Ci sono cose che ti porti appresso per sempre. Il 16 agosto del 1977 avevo quattordici anni ed ero seduto insieme a mia madre sul divano di nappa marrone, nel soggiorno di casa. Il giornalista del telegiornale recitò: “Il Re del rock’n’roll Elvis Presley è morto alle 14.30 per un attacco cardiocircolatorio nel bagno della sua casa di Memphis. Aveva 42 anni” Fuori dalla mia finestra ascoltai le voci dei bambini festosi, ma anche della follia del mondo. Non capivo come poteva essere accaduto in quel giorno luminoso, assolato, limpido e caldo, a quel ragazzo che aveva trasformato il blues, nella musica più eccitante che conoscevo. Sono rimasto in silenzio seduto su quel divano, con addosso una tristezza infinita. È davvero insopportabile il livello di stronzate che dobbiamo tollerate ogni santo giorno della nostra esistenza. A ciascuno la sua merda. Niente che non sappiamo. Bugie e cicatrici, sporche macchinazioni. Se sei famoso però ti sistemeranno per bene, e ci sarà qualcuno che guadagnerà un mucchio di quattrini dalla tua scomparsa. Delbert Sonny West fece la guardia del corpo per ben sedici anni a Elvis, ed è lui che raccontò che il Re ingoiava pillole dalla mattina alla sera, e si iniettava droghe con piccole siringhe di plastica a peretta negli avambracci, nelle gambe, nei polsi. Spesso lo aveva aiutato lui stesso. I medici cercarono di tenerla nascosta la verità, era pur sempre un bianco del sud Elvis “The Pelvis”, mica un negro qualsiasi. C’è sempre un’aria schifosa da respirare in questo mondo, e devi strizzare gli occhi come un topo, perché non puoi guardare il sole per troppo tempo. I veri artisti sono pazzi, ma hanno la capacita di tornare indietro dal loro viaggio interiore per descriverlo, e tramutarlo in arte. Lou Reed è uno dei padri spirituali del rock’n’roll. La sua tristezza, il suo terrore, la sua angoscia, puoi sentirli zigzagare ovunque nelle sue canzoni, mentre danzando vengono verso di te. DNA, Arto Lindsay, Glenn Branca, Contortions, Lounge Lizard, Suicide, sono una parte della sua enorme prole. Musicisti che come lui hanno messo in evidenza lo squallore, la paranoia, il lato oscuro della vita. Cuori di tenebra. “Cominciate a suonaredisse il manager alla band, così vi fate le ossa e fate esperienza”. Fu in uno di questi momenti che una rabbia straordinaria attraversò e scosse il rock’n’roll. Come succede quanto ti viene data troppa libertà, qualcuno poi se la riprende e, alla fine, il rock’n’roll l’hanno fatto diventare persino scrupoloso, lui che è sempre stato insaziabile e ingordo. Così prima di diventare troppo vecchio, il rock è morto. È accaduto come in “My Generation” degli Who. E’ sempre la frenesia che ci fotte. Quella frenesia di andare a vedere, a destra e a sinistra, che ci fa sbattere la testa negli spigoli dei nascondigli in cui rovistiamo. Cartoline ingiallite dal tempo. Uno squinternato hotel, voci stridule e folli. Una radio che sputa musica country. Artisti radicali che provano un pezzo. Non c’era nulla di falso e costruito in Lulu che se ne stava ore e ore a provare canzoni con Black Jack, agghindato con una grossa collana di strass e un acconciatura stile Riccardo III, e suonava la viola. Bob Dylan non ha mai amato la gente, ha sempre vissuto isolato per proteggersi dal bagliore tremolante di quel circo di cui è la principale stella. Lo sanno tutti ormai che è sempre stato il più bravo a scrivere canzoni. Ma lui non voleva sentirsi soffocato, ingabbiato. Anarchico e palesemente a disagio con il mondo, ha sempre quell’aria da pugile sconfitto. Come a dire: “non mi rompete i coglioni”. La mano affonda nelle tasche dei pantaloni, un fazzoletto, delle carte modificate, tabacco e cerini. Nella downtown le sconfitte sono truccate. Society la canta Eddie Vedder nella colonna sonora di “Into The Wild”. Un film che mi ha fatto piangere. “Non lo possiamo dire eccovi la libertà, adesso farete quello che vorrete il governo non c’è più. La gente non saprebbe cosa fare. Si divorerebbe a vicenda come belve. Bisogna prima emanciparli. Il rock’n’roll ha questa funzione.“ (Frank Zappa) Persone anziane che comandano il mondo. C’è chi si definiva hippy, altri beatnik, altri ancora giocatori alla ruota della fortuna. “Freak Out !” è un album doppio pieno zeppo di trasgressione, di sentieri ancora oggi inesplorati, è musica libera dalla schiavitù sociale. Un invito alla creatività. Ero una specie di ribelle da ragazzo, di quelli che mal sopportavano le ingiustizie. Per questo, quando ho incontrato il rock’n’roll, mi sono sentito a casa mia. Manifestava tutta la mia rabbia, e mi consentiva di comunicare con gli altri. Attraverso la musica ho imparato a resistere. Quando è arrivato il punk, ho capito che mi faceva diventare davvero matto. Era la mia energia vitale, erano le mie barriere che cadevano, il mio viaggio mentale. Fu allora che presi ad avere cura di me stesso, educandomi da solo. Il punk mi ha indotto a riflettere. “Spazio… bianco.  UCCIDETE LA BRUTTA RADIO Persone di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa (Non so… delle volte mi stufo di te cara, deve essere, ah, il tuo spray per capelli, o qualcos’altro) Persone di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa (Sento il suono di piedi che marciano… in Sunset Blvd. fino Crescent Heights, e qui al Pandora’s Box, abbiamo davanti una enorme quantità di Persone di Plastica) prendetevi un giorno e fatevi una passeggiata Guardate questi nazisti governare la vostra città. Poi andate a casa e datevi una controllata. Pensate che noi stiamo parlando di qualcun altro… ma voi siete Persone di Plastica Oh cara, ora… sei così noiosa Ooo-Ooo-Ooo Ooo-Ooo-Ooo Ooo-Ooo-Ooo Ooooooooh!” (Plastic People – Frank Zappa).
C’è sempre un vincitore che viene esaltato al di là dei suoi meriti. Succede sempre dopo ogni elezione. Un giochino meschino che va avanti da sempre. Si prendono cura del tuo pensiero, ti gestiscono la vita, e come magnaccia ti consigliano la soluzione più saggia. Un mondo pieno zeppo di pregiudizi, di sputasentenze, di gente che si crede emancipata. Potreste dirmi per favore dove stiamo andando? Dove porta questa strada? Scusate ma mi sento un po’ preso per il culo, a camminare in fila indiana. E’ tutto buio. Che ci faccio qui? Ecco, chissà cosa direbbero oggi questi finti progressisti che ci massacrano le palle dalla mattina alla sera, di uno come Frank Zappa. Già a suo tempo la stessa sua razza, lo ha spinto e confinato verso quella tribù di invisibili. Perché era uno che ti disorientava Francesco, che ti prendeva a calci nei denti. Era uno che cercava di capire, e questo gli metteva paura. Durante i suoi show, lo spettacolo era arricchito da trovate sceniche pensate ed elaborate per non far calare mai la tensione. Baby-doll volanti, una giraffa di peluche masturbata da una marionetta, che eiaculava panna montata sul pubblico. Veri marines saliti sul palco a mostrare il loro animo, su un bambolotto che recitava il ruolo ingrato di un vietnamita. “Strumenti didattici” dichiarò Frank che rapiva i cuori degli audaci. Di certo le radio non mandavano mai le sue canzoni, e il pubblico rock convenzionale lo detestava, ieri come oggi. Troppo complicato per chi aveva solo voglia di fare surf, scopare, e imbottirsi di qualcosa, sentendo musica. Gente che a loro insaputa era stata già presa a bastonate sulla schiena. Sapete come va a finire ai piantagrane, li sbattono sulle prime pagine dei giornali, e dopo li chiudono in una scatola gettandoli in fondo all’oceano. Liquame che cola dalla televisione, lo strumento per dominarti il pensiero, la spazzatura con cui ti nutrono, fino al giorno in cui non gli servirai più. Non cercare aiuto. Nessuno baderà a te. La tua mente è totalmente controllata, è stata fusa nello stampo e tu farai come ti viene detto finché i diritti su di te saranno venduti. Tutto bene gente… Non toccate il selettore!” (Frank Zappa).
Quando ti devono annientare ti dipingono come fascista, comunista, xenofobo, nazista, sobillatore, usano tutto quello che gli fa più comodo. Sei come una bestiola, da curare e ammansire. Ho visto i poveri con il naso all’ingiu’ che risalivano la città. Mille euro al mese, più ottanta euro di bonus… sospensione… Viva L’Italia.
Bartolo Federico

martedì 16 gennaio 2018

Il tempo non aspetta nessuno

Seduto in un bar bevo caffè, e fumo di tanto in tanto qualche cicca. Me ne sto con le tempeste sonore di Bob Dylan nelle orecchie, e cerco delle risposte che non troverò mai. Qualche giorno fa sono andato per l’ennesima volta all’ufficio di collocamento. Un impiegato simpatico come un becchino delle pompe funebri mi ha detto che non c’era trippa per gatti, per cui facevo meglio a ripassare tra qualche mese. Nel frattempo frusciai ad alta voce: “vengo a mangiare da lei”. Il tizio ha fatto finta di non capire. Me ne sono andato camminando a testa bassa e rovistando nei pensieri più infimi, mi sono diretto verso il quartiere dove sono cresciuto. Avrei voluto fare un sacco di cose nella mia vita, anche amare qualcuno, invece non facevo un cazzo di niente. I miei genitori avevano fatto sacrifici immensi per farmi studiare, perché sin da piccolo promettevo bene, e il loro sogno era quello di avere un figlio da chiamare Dottore. Avevano puntato tutto su di me, e io avevo fatto del mio meglio per non deluderli ma, a dire il vero, anche allora avrei voluto dileguarmi tra gli spiritati vagabondi della notte. A cosa sono serviti tutti quei sacrifici pensai mentre mi alzavo per andarmene dal bar, se sono uno dei tanti che rimpingua la fila dei disoccupati? Me ne sto in giro facendo cose odiose, come il venditore porta a porta. Perché in questo cazzo di paese, vendere è l’unica prospettiva che ti viene data. Certo, qualcosa rifilo e qualcosina riscuoto, ma è sempre troppo poco per tirare avanti. Mi sento bello e inguaiato, e non ho un piano di riserva. Il tempo non aspetta nessuno, figuratevi uno come me.
“Il tempo non aspetta nessun uomo e non mi aspetta. Sì il tempo non aspetta nessuno e non aspetta me. Sfrutta la tua estate, raccogli il grano. I sogni di una notte svaniranno all’alba. E il tempo non aspetta nessuno.” (Time Waits For No One – The Rolling Stones).

A furia di prendere randellate si diventa duri come il marmo. Così i minuti passano e anche le ore… e poi i giorni, i mesi e gli anni. Insomma, il resto del nostro tempo se ne va via in un baleno, lasciandoci storditi e anche nauseati. Chissà perché teniamo duro di fronte a tutto. Siamo fatti così noi uomini. Non pensando che alla fine si diventa qualcun‘altro e si è vecchi in un colpo solo. Ho raggiunto Maria al suo negozio, perché quando ho voglia di parlare lei è l’unica che ascolta le mie disgrazie. Non appena mi vede sull’uscio della porta, mi mostra un sorriso complice e, avvicinandosi, mi enfatizza schietta: per essere qui, sei di nuovo nei guai”. Da ragazzi avevamo provato a stare insieme ma non aveva funzionato, era finita che quasi ci odiavamo. Facevamo le cose pensando di compiacerci, ma in questo modo si combinano solo casini. In compenso, da allora, non avevamo più segreti fra di noi. Ero andato da lei pensando di raccontarle le mie pene ma, non so perché, non mi andava più di parlarle, e per la prima volta mi sentii a disagio. Allora presi la sua mano, e lei sospirando si lasciò andare: “Bart quando esci dai sogni e vieni a vivere in questo mondo? Quando lo farai?”
Il tempo può tirar giù un palazzo o distruggere il viso di una donna. Le ore sono come diamanti non sciupatele. Il tempo non aspetta nessuno non regala niente. Il tempo non aspetta nessuno. E non vuole aspettarmi. (Time Waits For No One – The Rolling Stones).
Mesto me ne sono tornato nel mio buco. Non me la sono sentita di speculare ancora sulla sua bontà, sul suo garbo… ma è anche tempo di mettere le cose in chiaro con me stesso. Perché nella solitudine il divino sparisce per sempre. Mi sono messo ad ascoltare dei vecchi dischi, così ad un tratto come se fossi passato con una ramazza su quella nuvola di polvere che copre i ricordi, mi sono sentito più confortato. Dopo tanto tempo mi sono riconosciuto nell’ombra… ed è stata una bastarda e romantica The Last Chance Texaco di Rickie Lee Jones, che ha riportato a galla certe cose. Quelle cose che nascondiamo dentro di noi che, non marcendo, non si mettono a puzzare. Anche se attraversando troppe strade, lasciano sempre una scia di rimpianti e nuvole. Fu amore travolgente e passionale sin da quando ancora ragazzino, nel 1979, tenni in mano la copertina del suo omonimo disco di debutto. Era lei la donna che aspettavo e con cui sarei scappato verso la frontiera, con qualche blues nell’autoradio a farci compagnia. Mi aveva folgorato quello scatto che ritraeva Rickie con quell’aria da bambina capricciosa, mentre fumando uno sigarillo, se ne stava assorta nei suoi pensieri. Era lei la donna dei miei sogni, dei miei deliri notturni, delle mie scopate selvagge. Carne e anima, vizi e dolcezze. Era tutto quello che avrei voluto avere. Me ne restai appeso alle sue canzoni come un ragazzo in amore, tra cicche di sigarette, gabbie e barattoli, poltrone di pelle coi sedili sfondati, riviste ingiallite, una tromba di plastica, libri strappati, bottiglie vuote, pezzi di ferro, una lampada ad olio. Una tenda bruciata, un trenino elettrico, tre seggiole, un tavolino, qualche lacrima e ninnenanne suonate da un carillon mezzo rotto. Era come se ci facevo davvero l’amore con quella donna, che mi scorticava l’anima con quella voce che altalenava acuti lancinanti a bassi minacciosi. E’ lei la ragazza distesa sul cofano nella copertina di “Blue Valentine”, il disco del randagio di Pomona, quel Tom Waits suo compagno di scorribande notturne e anche amante. Una storia la loro, che una volta finita lascerà un brutto segno nel suo cuore Quando arrivò Pirates nel 1981 lei era ancora una vagabonda non paga di storie sporche e viziose. Fu nuovamente un incantesimo, e un lungo fremito mi attraversò. I demoni che nascondeva dentro di lei, erano anche i miei. Così quella poesia disperata e magica con cui teneva in bilico le sue canzoni palpitanti e fatali, miste a quella voglia di fuggire, mi dicevano di nuovo la verità su quel freddo che avevo dentro e che mi faceva scricchiolare le ossa. Non si può entrare da nessuna parte senza la chiave, in nessun cuore… ma in quei giorni avevamo gli occhi alla stessa altezza. Mentre girovago nel mio buco guardo la foto appesa al muro, risale a quando ero bambino e stavo in braccio a mia madre. C’è anche mio padre con i baffi neri che sorride. È proprio vero che non si ha mai abbastanza tempo, se non per pensare a se stessi. Mi ha fatto bene ritrovarla mi sono sentito addosso lo stesso rovescio di pioggia, e quel tentativo disperato di trovare una via d’uscita… ma il tempo non aspetta nessuno, figuratevi uno come me.

Si la stella passava dolcemente, la corrente continuava a scorrere. Si eravamo tranquilli e rilassati. E la guardavamo volare. E il tempo non aspetta nessuno. E non vuole aspettarmi. E il tempo non aspetta nessuno. E non vuole aspettarmi. (Time Waits For No One – The Rolling Stones).

Bartolo Federico 

mercoledì 10 gennaio 2018

Promesse Spezzate

 L’amore è solo dentro quelle stupide canzonette da quattro soldi, che fanno arricchire quei cantanti e discografici da strapazzo che le mettono ancora in giro. Sono scritte e suonate a immagine e somiglianza dei loro sogni… ma chi cazzo se ne frega del festival di Sanremo, con tutti i problemi che abbiamo. Per uno come me poi, che ha preso da tempo brutte abitudini e non ha più fiducia in nessuno, l’amore è solo una bella e sana scopata, quando capita. Il mio compare di tavolino è davvero un tipo loquace, e da un bel pezzo mi cicaleggia vicino l’orecchio le sue inquietudini. “Li sento già gli innamorati, seguita a dire inveendomi contro; ehi stronzo, l’amore e quello che ti cambia la vita, che ti fa volare, e ti riempie di speranza”…. e bla, bla, bla, via discorrendo. Ma a queste cose ci credono solo quei poveracci, che ancora abboccano a quelle filastrocche. Certo, quando sei giovane e preda dei furori infantili, sei giustificato: l’amore ti abbaglia la vista e il cuore, e ti rende vulnerabile. Dopo, è come la pioggia e il vento. È un farsi compagnia, un tentare di comprendersi nell’infinita differenza dei caratteri di ciascuno di noi. Allungò un braccio e ordinò un whiskey. “Per sopportare meglio il marciume che mi porto appresso”, asserì. Ho udito il sibilo della macchina del caffè dietro di me, e sorridendogli ho vuotato il mio bicchiere. Mi sono messo a fumare, cercando di far passare le ore di quel giorno di merda. Sono solo stronzate quelle canzoni. Non hanno niente a che vedere con l’amore, folle, ribelle, disinteressato e infuocato. Quello che ti contorce le budella e ti ubriaca di passione. “Il fatto, amico mio, è che vogliamo prendere tutto per noi, senza mai pagare niente”, concluse, gettandosi dentro le viscere il J&B che il barista gli aveva posato sul tavolino. Poi, con tono scuro mi chiese: E tu, da quanto sei andato a fondo? Non è un posto cattivo il bar scommesse dove mi trovo. Si sta tranquilli. Il titolare è un ragazzo che ci lascia anche fumare… ma non troppo. Da lì dentro posso vedere la gente passare di fretta, e sbirciare anche una fetta di cielo. Non è poco. La maggior parte dei clienti sta radunata attorno a un tavolino in fondo alla sala dove prepara le proprie scommesse, senza fare troppo baccano. Navigano nella speranza di acchiappare, quantomeno, i soldi per la spesa dell’indomani. Sembra di essere sospesi in un altro mondo, c’è una strana atmosfera. Come se John Coltrane si fosse celato da qualche parte e suonasse un blues, in modo lieve ma doloroso. Mi piace questo posto… e anche quella ragazza con tutti quei capelli sciolti di fronte a me che ha due labbra fantastiche. Sembra una puttana, non lo dico in senso sprezzante, ma solo per individuare le tipe per cui un uomo è pronto a fare follie, pur di possederle. Le altre che uno incontra sono come l’aperitivo prima del pranzo domenicale, come una pietanza un po’ sciapa. Questo loro lo sanno bene. Difatti sono le più stronze, le più dure, le più arrabbiate di tutte. Sono rientrato nel mio piccolo buco, e ho guardato le cose di cui mi circondo. Le chitarre, i dischi, la scrivania, i libri, e il divano malandato che mi ha lasciato in regalo il vecchio inquilino. Sullo scrittoio c’è la mitica macchina da scrivere di mio padre, che però non uso mai. Ho staccato il cellulare, ho acceso lo stereo e messo del blues a ciclo continuo. Sono andato alla finestra, dietro di me la musica si è fatta sempre più straziante. Si resta soli senza rimedio. Succede sempre così quando hai smesso di piacere. Chiodo schiaccia chiodo è la migliore soluzione. Ho preso la chitarra e con le dita ho sfiorato le corde. Era intonata e pronta a suonare. Non è altro che un combattimento la nostra esistenza, fatta di rinunce, tristezza, piccoli e grandi dubbi. Allora si retrocede verso la trincea, stanchi esausti, e non si ha più voglia di combattere, ma solo di starsene lontani dal genere umano. Rintanati in silenzio nel proprio pertugio. Quelli che hanno visto la mano della fortuna cambiare rotta sanno che non c’è proprio nulla da vincere in questa vita. Lei se n’era andata alla chetichella. Era fuggita di mattina presto. Come anche a me era capitato di fare. Succede, a chi confessa qualcosa, che provi un senso di paura, di vuoto. Può anche darsi che non aveva retto alla mia confusione… ma non mi andava di darle alcuna colpa. In fondo, non volevo neppure saperlo il perché. Sono andato a lavoro a piediè davvero piccola la mia città. Un paio di chilometri e l’attraversi tutta. Ho pensato a mia madre mentre camminavo. Una donna sola, battagliera, austera. Fumava Marlboro pacchetto duro, che comprava a stecche. Dopo passò alle Merit. Quando la penso, lo sento ancora presente quell’odore di sigarette che le impregnava i capelli ispidi. E la rivedo seduta vicino alla finestra della cucina, silenziosa e assorta, con il busto piegato in avanti che si regge il viso fra le mani. Ho attraversato la strada e ho sentito dentro di me Bessie Smih cantare Shipwreck Blues. Come molta gente che soffre di depressione, anche lei nascondeva la bottiglia. Si comportava normale, mentre era esattamente il contrario. Se ne andava a fondo, imbarcando acqua da tutte le parti. Non era riuscita in alcun modo a trovare una rampa di salvataggio… e quei gorghi se l’inghiottirono piano piano. Era una bella donna, mia madre, sfortunata in amore come lo sono in tanti. Io l’ho amata – e anche molto – così com’era. Gli ultimi settecento dollari destinati alla droga li trovarono nascosti nella vagina a Billie Holiday. Li aveva guadagnati in quel letto d’ospedale, dov’era ricoverata. Aveva venduto ad un giornale i diritti sulla storia della sua vita. Ogni tanto servirebbe fare come Sleepy John Estes per dimenticare ogni cosa. Schiacciare dei pisolini nei posti più impensati… è davvero un buon modo per staccare la spina e risollevarsi. John viveva a Brownswille, una squallida periferia del Tennessee, un esistenza precaria e indigente, insieme ai genitori e a quindici fratelli. “Quando sei nero, questo basta per farti vivere nella miseria”, ripeteva. Da piccolo fu colpito da un sasso e perse la vista dell’occhio destro. Suo padre gli regalò una chitarra che lui iniziò a suonare nelle feste e ai banchetti, facendosi accompagnare dal mandolinista James “Yank” Rachell e da suo cognato Hammie Nixon all’armonica. Un bluesman Sleepy dalla voce rauca e sofferente, che arrivava a spezzarsi di commozione nei momenti più intensi, eseguendo un blues semplice e scarno, ma assai emozionante. L’aria era di nuovo fredda. Mi sono fatto un caffè e versato due dita di Jack Daniels in un bicchiere. Ho acceso la lampada sulla scrivania. Non mi va di firmare assegni in bianco, ed è per questo che non ho mai preteso nulla da nessuno. Ho sentito un freddo pazzesco, e nella penombra della stanza ho visto molte cose di me. Mi sono reso conto che sono stanco di fingere e di dire bugie per cercare di salvarmi ad ogni costo. Ho sentito una profonda tristezza attraversarmi. Al diavolo! Alle volte occorrerebbe lanciarsi a volo d’angelo nel precipizio e senza paracadute. Il rullo del piano di Poor John Blues mi ha fatto tremare di paura. Sleepy John Estes iniziò a registrare nel 1929 in una stanza del Peadboy Hotel di Memphis per la casa discografica Victor. Fu in quelle sessions che incise anche una rivisitazione magnetica del classico Milk Cow Blues di Kokomo Arnold. Bisogna stare attenti che non si finisca di sognare. Può accadere tutto in una volta, senza che nessun campanello d’allarme ce lo segnali… ad un tratto si diventa pigri, abulici, e non si vuol fare più niente, neanche parlare con le nostre ombre. Me lo disse lei una sera, mentre eravamo seduti a tavola, che l’esistenza è una messa in scena. C’è ne andiamo tutti quanti in giro, con la nostra pantomima, calandoci sempre più nel nostro personaggio… e non c’è verso che si cambi finzione. Siamo attori e registi del nostro film. Ho fatto una smorfia ed ho pensato che, alla fine, sono quelli che hanno smesso di dire bugie ad essere chiamati pazzi. Sleepy John Estes era come un cane che aveva preso troppe botte, e non si fidava più di nessuno. Sin da ragazzo gli piaceva starsene da solo, e camminare nell’oscurità. Non aveva paura, era in quei meandri che, in fondo, si sentiva a suo agio. Aveva un carattere ruvido, difficile, e con l’ombra del male di vivere sempre presente nella sua anima. Fu una vita durissima la sua. Se penso ad un volto per definire il blues, quello è il suo. Senza dubbio. Dopo le incisioni per la Victor, se ne andò a Chicago, dove incise per la Decca e anche per la Bluebird, vivendo, però, sempre in modo assai precario. Arrivò a registrare anche con la Sun Records, prima che Sam Philips scoprisse Elvis. Era diventato quasi cieco: si ritirò e scomparve di scena, finendo nel dimenticatoio più assoluto. Nel 1962 lo riscopre, alloggiato in un fienile con la moglie e i suoi cinque figli alla periferia di Brownsville, il regista David Blumenthal che stava girando un documentario sul blues. Una musica nata nella povertà e nell’ignoranza che, a dispetto del tempo, non ha perso un grammo della sua magia. Una musica indefinibile perché racchiude dentro di sé lo spirito stesso dell’uomo. Il blues non si scrive ma si vive”. Questo me lo ha detto Johnny Shines. Non sempre, ma è possibile dimenticare. Le strade traboccano di bar, di visi, di sorrisi, di cose che lei non avrebbe potuto darmi. Nel primo pomeriggio qualcuno aveva suonato più volte al citofono, ma non avevo risposto. Sleepy John è morto nella povertà più assoluta, i suoi funerali furono pagati da Michael Bloomfield e Ry Cooder, suoi grandi estimatori. Come sempre mi ha soccorso la musica. Mi ha salvato dal precipizio. Forse, sarà stata colpa della luna, ma avevo trovato ciò che cercavo. Quando ho smesso di prestarle attenzione, ho pensato che a quell’ora della notte solo i lupi mannari erano in giro, e chi viaggia dalla parte opposta della strada. Il dolore, però, si era tramutato in rabbia, ed allora sono uscito. I miei passi risuonavano sul selciato, e faceva un freddo boia. Ho camminato per dei chilometri, nascosto nel buio. I blues continuavano a venire giù, come in un diluvio. Nudo, diritto, silenzioso, immobile, ho ascoltato il vento… ed era come se mi parlasse. In quelle folate ho avvertito l’anima di mia madre, e anche di altri che non ci sono più. E’ probabile che non abbia saputo comprendere il suo disagio e prendermi cura di lei. Avevo il morale a terra. Forse non ho capito mai nulla… ma forse un giorno… Forse, domani… 

Bartolo Federico