lunedì 5 giugno 2017

Andiamo Non Importa Dove

L’album “All That May Do My Rhym” di Roky Erickson uscito nel 1995, è stato da poco ristampato con una nuova copertina e ad ascoltarlo oggi è come starsene nuovamente nella California dei vagabondi con un sacco in spalla, e certi sogni sudati e stonati sotto il cappello. Erano però quelli i giorni in cui si aveva ancora fiducia nel prossimo, si dormiva in spiaggia attorno a un falò e c’erano viandanti che ti sbucavano da tutte le parti a qualunque ora del giorno. Allora non vi era alcuna fretta di arrivare, nessun whatsApp o tweet che ti stressava la vita, perché non contava dove eri diretto, quello che importava era la voglia di sentire strisciare sulla tua pelle quel brivido caldo che ti sconvolgeva, solo per dire che anche tu eri passato da lì. Era il tempo dell’autostop, dei viaggi mistici e dell’incanto degli spazi aperti, mentre le nuvole t’inseguivano e l’odore dell’erba ti sfangava le narici. Una miriade di sognatori scarburati e inquieti attraversava l’America nella polvere e nel silenzio, dentro una ebrezza profonda e quella voglia di andare a sentire e vedere cosa stava succedendo. Aveva solo diciassette anni Roky Ericsson quando ad Austin in Texas, nel 1965 fondò con Tommy Hall (uno che suonava il jug elettrico, una damigiana in cui si soffia sull’imboccatura) insieme al chitarrista Stacy Sutherland, Ron Leatherman al basso e John Ike Walton alla batteria: i 13th Floor Elevators. Nel 1966 pubblicano “The Psychedelic Sound Of”, un disco diventato leggendario e riconosciuto come un capolavoro della psichedelica. Un suono ruvido e grezzo, pieno zeppo di atmosfere allucinate e abrasive, contenete l’impetuosa hit You’re Gonna Miss Me, portata in dote dallo stesso Erickson, che poco tempo prima l’aveva incisa col gruppo degli Spades. Musica quella di “The Psychedelic Sound Of” che fluttua dentro le suggestioni allucinate e sconvolte, di musicisti dediti ad un uso massiccio di droghe. Il tempo di un secondo e bellissimo disco “Easter Everywhere” pubblicato nel 1967 (a parere mio superiore al blasonato esordio) e si dà alla fuga perché trovato in possesso di marijuana. Al suo rientro ad Austin viene arrestato e, non ancora ventenne, conosce l’oblio del manicomio criminale e del trattamento crudele e disumano dell’elettroshock. Non aveva ancora ben capito dopo quella crisi isterica cosa gli stava succedendo, con quel sangue che gli colava dal naso per finire sui jeans. Senza rendersene conto diventa un viaggiatore affaticato dal veleno dei psicofarmaci, uno che allunga il passo sotto un sole cocente, attraverso mondi contorti e facce stralunate di zombie e marziani; tutte oscurità che lo tengono bloccato e lontano dalla scena musicale per un lungo periodo. Quando nel 1973 torna ad esibirsi è molto provato, la malattia mentale lo tiene ancora saldo in pugno, come fanno anche i discografici che si comportano da vere sanguisughe, privandolo delle royalties dei suoi dischi e riducendolo in assoluta povertà. I suoi occhi sono rossi e segnati dal dolore, e se pure scompare subito dopo quelle apparizioni, nuovamente negli abissi, continua a scrivere canzoni per fare ritorno nel 1980 con “Roky Erickson and the Aliens” e nel 1981 con “The Evil One”, accompagnato nei due dischi prodotti da Stu Cook, dalla band degli Aliens (ex Creedence Clearwater Revival). Suona un rock blues canagliesco, asciutto e nervoso, dove si coglie gettata sui fianchi delle canzoni, anche qualche pezza di amarezza. Roky Erickson resta un personaggio di culto, ma è grazie al supporto e incoraggiamento che ha dai suoi ammiratori, che nel 1986 si ripresenta con “Don’t Slander Me”, un disco con una registrazione finalmente all’altezza dei suoi corrosivi brani, e della sua monumentale voce. Le sue canzoni ormai sparpagliate come carte nel vento, vengono qui raccolte e messe in fila in modo da sembrare come un branco di lupi affamati che ballano al ritmo di un rock’n’roll indiavolato e fuori di testa, per lasciarti azzannato e sanguinante nella notte. Se poi ci fosse davvero anche un dio del rock, la sua Bermuda, una grandiosa figlia di puttana, dovrebbe avere un posto in prima fila in quel presunto olimpo. Come sempre però il futuro di Roky è identico al suo passato, e lui resta solo e nel più completo anonimato, a scartavetrare la vita, sostenendosi con le sole esibizioni dal vivo. Nel 1995 viene fuori questo “All That May Do My Rhym”, che non è altro che un mix delle sue canzoni riviste in chiave acustica, più vicine allo spirito di Bob Dylan e di Van Morrison, che a quel suono garage eccitante e dalla faccia pesta e divorata, a cui siamo abituati. Ha un aria davvero rilassata Roky, tanto che mentre canta indossa zaino e sandali e, come un novello Jack Kerouac, viene preso da quell’andare non importa dove… antiborghese, antimilitare. Un mondo fatto proprio da schiocchi e babbei che hanno creduto in un momento di alta frenesia e grande ingenuità che si potesse cambiare il mondo con le chitarre e la musica rock, sgasando e frenando in quelle fughe solitarie attraverso il deserto, insieme a chi cercava le risposte nel vento e alla poesia eccitata di Allen Ginsberg. Adesso, come si fa a spiegare che quel mondo è invece morto e sepolto, che quello spirito di ribellione è rimasto soffocato sotto rotoli di catrame, di odio, di sogni infranti e promesse mai realizzate? Quel modo di spillare la vita non esiste più, perché quella moda è tramontata, e le cose sono cambiate e non c’è più nessuno a prenderti su per un passaggio, neanche a pagarlo a peso d’oro; ma è quel viaggio da “beato” che si sente scorrere dentro queste canzoni e la sua voce è tranquilla libera e pura, (alle volte però riprende le sue naturali spigolosità) scorrendo incontro a quell’emozione, perché l’animo di Roky Erickson è come quello di un bambino che non ha mai conosciuto la malizia, ma soltanto la confusione selvaggia di chi si è perso nella quotidiana disperazione di vivere.

Bartolo Federico



domenica 4 giugno 2017

Children Of The Revolution

Le Violent Femmes (nome di una marca di assorbenti) sono state una delle cose più sorprendenti venute fuori dalle cantine, nei tanto vituperati anni ottanta. Tre giovani e talentuosi musicisti Gordon Gano, Brian Richie e Victor De Lorenzo, che hanno messo a soqquadro il rock’n’roll rompendone gli schemi classici, e creando una cosa che fino a quel momento non esisteva; definirli dei geni credo non si faccia torto a nessuno. Suonavano un insieme di folk, country, blues, e rockabilly, azzerandolo ai minimi termini e cantando con una voce malata, figlia del sommo Lou Reed. Con una drum and tranceaphone, un contrabasso, e una chitarra stridula e sbilenca, ottennero un suono primitivo, peccaminoso, a cui iniettarono una massiccia dose di energia e furore punk. Per farla breve una miscela unica ed esplosiva. Nel 1983 il loro omonimo album, inciso per la gloriosa etichetta Slash, lascia di stucco tutti quanti, con il suo acustico sferragliare e rivoltarsi dentro le radici della musica americana, cosa che successe pure con il loro seguente “Hallowed Ground” del 1984, dove Robert Johnson e Hank Williams, venivano cosparsi da un affascinante voodoo gospel, nel caos più devastante e rivoluzionario mai sentito fino allora. Un disco che usufruisce del sax di John Zorn, del banjo di Tony Trischla, e dell’autoharp di Christine Houghton. Nel 1986 pubblicano il loro nuovo lavoro, “The Blind Leading The Naked”, guidati da Jerry Harrison dei Talking Heads; e anche qui trovano un nuovo approccio sonoro. Quello che viene fuori è un attacco cardiaco di rock, blues, ed estro psichedelico, (c’è Sun Ra in Candlelight Song) mischiato a reliquie di ogni genere che i tre hanno raccattato per strada. “The Blind Leading The Naked” è un viaggio nell’eclettismo supremo delle femmine violente, anche se il miracolo accade quando arriva il rifacimento di Children Of The Revolution, una hit di Marc Bolan. Una cosa unica e irripetibile questa versione, una di quelle rare volte in cui la cover supera di gran lunga l’originale, consegnando per sempre alla storia, questa fantastica band.

Bartolo Federico


giovedì 1 giugno 2017

Nuotando Verso La Luna

Jim Morrison e Ray Manzarek frequentavano la stessa scuola di cinema dell’UCLA a Los Angeles, California, ed erano diventati amici. Passavano notti intere a sconvolgersi, prendendo acidi e cercando di avere delle visioni. Era il loro tentativo di aprire le porte della percezione parlando di arte, cinema, teatro, jazz, e di quella musica diabolica che è il rock’n’roll. Nell’anno 1965, due settimane prima che finisse l’università, Jim disse a Ray che se ne sarebbe andato a New York. Dopo qualche settimana dal termine dei corsi Ray Manzarek se ne stava a bighellonare sulla spiaggia di Venice, quando girò gli occhi e scorse una sagoma che assomigliava a Jim Morrison; si avvicino incuriosito e vide che era proprio lui. Ray gli chiese come mai non era partito, Morrison gli rispose che aveva deciso di restare, che adesso abitava sul tetto della casa di David Jacobs (un loro amico dell’UCLA) e che scriveva canzoni. Colpito da questa confessione, Manzarek gli chiese se gli poteva cantare qualcosa. Jim si sedette sulla sabbia, e con gli occhi chiusi prese a intonare Moonlight Drive: “  Avanti nuotiamo verso la luna Uh-huh scaliamo il flusso del mare, penetriamo dentro la sera che la città dorme per celare. Nuotiamo via stanotte, amore sta a noi adesso tentare. Parcheggiati lungo l'oceano nel nostro giro alla luce lunare. Avanti nuotiamo verso la luna Uh-huh, scaliamo il flusso del mare, arresi a ogni mondo che attende e su un fianco ci si va a ripiegare. Nulla lasciato aperto e nessun tempo per decidere siamo scesi dentro a un fiume nel nostro giro alla luce lunare. Piano, io ti amo e ti guardo scivolare. Cadendo per foreste umide. Nel nostro giro alla luce lunare. Giro di mezzanotte alla luce lunare. Andiamo bimba, che in giretto ci andiamo a fare. Giù, giù lungo la sponda del mare. Ci andiamo davvero vicino, Ci andiamo davvero ad attaccare, bimba stanotte ci andiamo ad annegare. Andremo giù giù giù." Quando Jim finì di declamare quei versi, la prima cosa sensata che gli venne in mente fu di domandargli se voleva formare un gruppo. John Densmore alla batteria e Robbie Krieger alla chitarra, si unirono al piano blues e allucinato di Ray Manzarek, e alla voce seducente del messianico Jim Morrison. Con un sound oscuro e inquietante, ancora oggi underground: nacque il psyco-rock dei Doors. Una band che fu un fenomeno non solo musicale, ma anche letterario e che, come i Velvet Underground, è entrata nell’immaginario rock di tutti i tempi. Monnlight Drive con la sua atmosfera ammaliante e desolata, fu pubblicata nel 1967 nel loro secondo album “Strange Days”.