giovedì 29 dicembre 2016

Un Buco Nel Cielo


Il cielo sulla sua testa si era fatto rossiccio e quella stella sperduta gli parve una borchia per capelli. La notte era calata ruvida come una ballata rock di Frankie Miller. Non c’era più niente in questo fottuto mondo che gli importasse, disse pensieroso fissando la strada buia e rigirandosi tra le mani la bottiglia vuota. Un vento umido proveniente dal mare saettò sul suo viso. Era caduto ancora una volta, ma non era una novità neanche questa per uno precipitato in terra ancora prima che nascesse. Spinse il tasto del play che stranamente schioccò come un bacio sulla guancia e la canzone ripartì. Melinda era mia fin al momento che la trovai stretta a Jim mentre lo amava. Poi arrivò Sue mi amava intensamente questo è quello che ho pensato. Io e Sue. Ma anche questo finì. Non so cosa farò. Ma fino a che non troverò la ragazza che vuole rimanere e non giocherà alle mie spalle. Sarò quello che sono. Un uomo solitario. Un Uomo solitario (Neil Diamond - Solitary Man). Hai voglia a spingerli da qualche parte, a seppellirli nell’immondizia o sotto fiumi di alcool, i ricordi tornano sempre, specie quelli più dolorosi. La strada silenziosa era gialla di luna. Strinse per un attimo gli occhi che gli bruciavano maledettamente e congiunse le mani a mo’ di preghiera. Nel palazzo di fronte si accese la luce di un bagno. Si sbottonò la camicia bianca intrisa di sudore e una smorfia gli irrigidì il volto. Il pallore del suo viso celava una rabbia mortale. Era sbucata all’improvviso quella donna, alta, bella, con uno charme tale da mandarlo in tilt come non gli era capitato mai in vita sua. Forse era un fantasma sbucato da chissà dove e a cui lui non doveva dire nulla. Adesso, però, seduto nell’abitacolo, sembrava che portasse tutto il peso del mondo sulle sue spalle e, a guardarlo negli occhi, faceva davvero spavento. Con quell’aria da animale ferito sembrava una ballata aspra dei Thin White RopeE qualcuno al telefono seppe le cose che io avevo sempre conosciuto Colonne sonore canticchiate ai sogni che avevo dimenticato Ho amato il telefono, parlato col segnale di linea Mentre la gente sui marciapiedi fuggiva da me (Diesel Man –Thin White Rope). L’orologio a cucù sulla parete dell’ingresso misurava inesorabile il passare delle ore. Si racconta che il canto del cuculo è profetico, capace d’indicare la buona e la cattiva sorte. Poco prima che quell’uomo arrivasse, sua madre era solita chiuderlo a chiave nella viscere buie della sua stanza e solo dopo che il cuculo cantava tre volte gli riapriva la porta. Aveva otto anni, e questo succedeva ogni qual volta suo padre si allontanava per lavoro. Un commesso viaggiatore, suo papà, che ogni quindici giorni faceva il giro dei suoi clienti fuori città assentandosi anche tutta la settimana. Aveva memorizzato le gesta di sua madre e sapeva che quel giochino, così lei lo chiamava, stava per iniziare. Poco prima che quell’uomo arrivasse si sistemava i capelli, si profumava il collo e indossava sotto la vestaglia una sottanina nera di seta. Poi accendeva il giradischi e ascoltava quella canzone. Sempre la stessa. Mi ricordo quando noi eravamo due bambini e puntavamo le pistole dai cavalli a dondolo. Bang bang. Io sparo a te. bang bang. Tu spari a me. Bang bang. E vincerà bang bang. Chi al cuore colpirà (Bang Bang - Dalida).  Lo chiamava “Bang Bang”, era così che lo chiamava da sempre sua mamma. Avvicinandosi al suo viso, glielo raccomandava che quello era un segreto fra di loro e che doveva restare tale per sempre. “Ricordalo, Bang Bang, ricordalo”, gli ripeteva, “non dirlo mai a nessuno”. Lui, così piccolo, non capiva e si limitava ad annuire stringendosi forte alle sue gambe. Quando era chiuso nella stanza per non sentire i gemiti aveva imparato a svuotare la mente, a non pensare a nulla. Restava immobile seduto sulla poltroncina, inebetito chiudeva gli occhi e vedeva tutto nero. Ed era come se morisse. Solo il canto del cuculo lo scuoteva. Ma era un fremito che durava un attimo. Nella penombra dell’abitacolo si guardò le mani ingiallite dalla nicotina e quelle dita diventate tozze da sembrare gonfie. Erano mani possenti, le sue, mani che avrebbero potuto uccidere. Tali e quali a quelle di suo padre. Tre uomini in abiti eleganti con cravattino e scarpe lucide lo distolsero dai pensieri. Parlottando tra loro gli passarono accanto, e gettandogli un occhiata svogliata scomparvero nella notte. Aveva come l’impressione che dovesse stare sempre in castigo tanto che non ci capiva più nulla delle cose del mondo. Troppo dure le batoste che aveva ricevuto. Ma giù nei vicoli, se abbassi la guardia, ti fanno fuori in un baleno. E i teneri di cuore hanno vita breve. Accese una sigaretta, anche se si sentiva la gola grattare, e tirò una lunga boccata bruciando il filtro che divenne molle. Abbassò il finestrino e una folata di vento lo fece rabbrividire. Come una canzone dei Beasts Of BourbonRidestato nella stanza di Johnny, Mama era proprio lì accanto al suo letto e le mie mani intorno alla sua gola, desiderando che entrambi fossimo morti. Pensi che sia pazzo, Mama, e tu? Ho appena ucciso il cagnolino di Johnny. Pensi che sia fuori di testa, e tu, Mama? Faresti meglio a farmi rinchiudere (Psycho - Beasts Of Bourbon). Con le dita si trastullò per un po’ sul volante. Poi si ricordò di prendere la pillola per i nervi che teneva nel taschino della giacca. Tirò fuori l’astuccio, ne staccò una e la inghiottì. La luce dei fari di una macchina che transitava in senso opposto illuminò per un attimo il marciapiede. Qualche isolato più avanti, sepolto nel buio riconobbe un uomo. La sua faccia era indubbiamente smorta, ma sinistra. Però su di lui non sortì alcun effetto. Mise il nastro di Otis Redding e Hard To Handle popolò le ombre. Era chiaro che non gli faceva bene rimuginare nel passato, ma quello torna sempre quando meno te lo aspetti ringhiandoti nell’anima. Certo, aveva fatto di tutto per dimenticare, ma alle volte dimenticare è quasi impossibile. Ho lasciato la mia casa in Georgia. Diretto verso la baia di Frisco. Perché non avevo niente per cui vivere. E sembra che niente incrocerà la mia strada (Sittin’On The Dock Of The Bay - Otis Reeding). Il cuculo aveva cantato tre volte e poi altre due. Le aveva contate con le dita della manina, tenendola aperta sulle ginocchia. Come pietrificato, se ne restava seduto immobile aspettando che sua madre lo facesse uscire. Dopo il primo cucù aveva udito dei passi nel corridoio ma era tornato subito con la mente nel vuoto, non immaginando nessuna cosa. O forse fingendo a se stesso. Finalmente la porta della stanza si schiuse. Con la coda dell’occhio vide entrare due poliziotti in divisa che si avvicinavano delicatamente. Uno di loro lo prese in braccio e si accorse che si era bagnato. Bisbigliandogli di stare tranquillo, con la sua grossa mano gli coprì il viso mentre lo portava fuori dalla stanza. Ma l’odore pungente della morte è inconfondibile, lo senti anche se sei un bambino e lo avverti perché ti penetra nelle narici quasi fino a sfondartele. Velocemente l’agente percorse il corridoio, ma lui gli spostò la mano e vide il corpo di sua madre nuda riverso in terra. C’era sangue, sangue sui muri, sul pavimento, sui quadri, sulle maniglie. Persino sull’orologio a muro. C’era sangue dappertutto. Vide anche quell’uomo accasciato sulla porta della stanza da letto con un profondo taglio nel petto. L’agente lo caricò alla svelta dentro un auto cercando di tenergli con molto garbo la testa bassa, ma bang bang, sempre con un gesto fulmineo si divincolò e dietro la siepe incrociò lo sguardo di suo padre. Lo scorse lì, fermo, ammanettato, con gli occhi stralunati e le sue grandi mani tinte di rosso. E fu quella l’ultima volta. Non c’è solo odio nel mondo. Non ci sono solo buchi nel cielo. C’è solo un destino che non puoi rinnegare. Due amanti aspettano di morire. Joe si è ammalato in guerra, tra le vene e la mente. Sammy si è ammalato a causa di tutte le bugie. Due amanti aspettano di morire…C’è solo una lacrima che continua a volar via… (Two lovers Waitin’ To Die - Green On Red) Anche se Bang Bang riusciva a svuotarsi la testa, quelle urla disumane non potevano essere ignorate. Suo padre li aveva uccisi con una crudeltà inaudita.  Durante quei momenti aveva azionato i meccanismi che ci portano a rinchiuderci nella nostra linea di difesa. Come una pietra scagliata in uno stagno forma dei cerchi che man mano si dilatano e si estendono per poi scomparire nell’infinito. Bang bang era scomparso da quel luogo e si era messo a volare nello spazio tra le nuvole. Ma quella puzza di morte, lui, la sentì sempre incollata addosso. Pure adesso la percepiva mentre sbucavano fuori dalle ombre anche i più piccoli dettagli. Quando fu tutto finito suo papà aveva azionato il giradischi e messo quella canzone. Sempre quella. Sempre la stessa. Ora non mi ami più Ed ho sentito un colpo al cuore Quando mi hai detto che Non vuoi stare più con me Bang bang… E resto qui Bang bang A piangere Bang bang hai vinto tu Bang bang Il cuore non l'ho più. (Bang Bang - Dalida).  Non era più tempo d’ ingannare nessuno, neppure se stesso. Lei aveva un bel viso liscio che assomigliava a Rickie Lee Jones. Indossava una giacca di pelle nera striminzita e una camicetta bianca di raso sopra un jeans attillato. Quando arrivò sorridendo e salì in macchina, si strinse contro di lui. Quel calore che lei emanava lo aveva scosso fino dentro le ossa e sentirsi vivo, per uno che aveva le carte del destino nate male, era una sensazione indescrivibile. Guardando la strada mentre calava la notte, aveva parlato e ancora parlato, fino a spurgarsi l'anima. Poi si era librato nel cielo, ma questa volta lo aveva fatto un attimo prima che non riuscisse più a piangere. Quando riaprì gli occhi lei lo stava guardando e sfiorandolo con un bacio si accorse che c’era ancora una certa tensione in lui. “Adesso puoi levarti quella faccia da lupo”, gli sussurrò con dolcezza accarezzandogli i capelli. Lui avviò il motore, inserì un nastro e fece partire Burn, una canzone dei Dream Syndicate. Il cielo era scintillante di un blu intenso. Lei si girò nuovamente verso di lui e, affondando lo sguardo nei suoi occhi, si accorse che per la prima volta gli sorridevano. Ma puoi sentirlo nel cuore. Sentirlo nell’anima. Sentirlo andare intorno finché non perdi il controllo. Sono solo poche cose che non possono essere raccontate. Non lo senti bruciare? (Burn - Dream Syndicate).

Bartolo Federico



lunedì 26 dicembre 2016

Non Fate Prigionieri I Cuori Di Rock'n'Roll



Lei dentro un abito rosso lo scrutò nella penombra. Lui con lo sguardo un po’ annebbiato dall’alcool, gli accennò un sorriso. Era una notte umida di un sabato qualunque. Il traffico scorreva lento lungo l’arteria principale e Coney Island Baby una canzone di Lou Reed, risuonava da qualche parte nella mia testa. Là nel buio accadono cose terribili che ti cambiano per sempre, disse il ragazzo. E prese a raccontargli di quando a quel concerto, quegli assassini entrarono sparando all’impazzata sugli spettatori. Ai primi colpi restai immobile, pietrificato dalla paura. Poi non sapendo cosa fare mi gettai in terra, e caddi sopra il corpo di una ragazza che invece era stata centrata dalle pallottole. Mentre con gli occhi chiusi mi fingevo morto, sentì il suo sangue caldo bagnarmi il viso, per poi lentamente colarmi lungo il collo come una lacrima. Quando gli spari cessarono, mi alzai e vidi intorno a me centinaia di cadaveri, e macchie di sangue dappertutto. No, non si può morire in quel modo” osservò la ragazza. E con un gesto materno gli cinse un braccio. Siccome non ho mai creduto alla versione ufficiale dei fatti continuò il ragazzo, da quella sera ho sempre alimentato un dubbio. E poiché uno ne trascina altri, non faccio che tormentarmi. Restano troppi lati oscuri. E non sapremo mai la verità. Parigi quella notte sembrava davvero un cumulo di brillanti spenti. E l’affermò mantenendo un tono calmo. Al bar assistetti per caso a quel dialogo. Ero seduto accanto a quella coppia, e quando capii di cosa stavano parlando origliai volutamente. Poi a tarda notte rientrato a casa, colpa di quella smania che mi aveva reso nervoso e pensieroso, continuai a bere. Nel tempo ero diventato uno di quelli che avrebbe voluto vivere senza fastidi, senza preoccupazioni. Ma finché si è vivi, bisogna mettere in conto che ti succedono cose che non vorresti. Cose che ti colgono di sorpresa, e ti lasciano ammutolito e lacerato. Nessuno sa cosa ne sarà di noi. Mi alzai alle prime luci dell’alba e spensi la radio che era rimasta accesa, poi andai in bagno a vomitare. Invecchiando anche l’alcool mi dava problemi. Faceva cumulo con quelle crepe che continuavano ad aprirsi dentro di me. Così quell’onda gelida che spesso mi assale, fece la sua comparsa nel primo sole del mattino. Continuavo a non capire come avevo fatto a bruciare quel poco di talento, che in fondo pensavo di avere. Ero andato alla deriva naufragando lentamente, senza metterci nemmeno troppa fatica. Ma non era il momento di fare inventari e riposi sul giradischi Take No Prisoners, un doppio live di Lou Reed registrato al Bottom Line di New York, nel 1978. Un disco pieno di rabbia e caos. Musica splendida e travolgente, libera di andare dove gli pare. Un Lou Reed austero, acido, iconoclasta, che canta canzoni ombrose, abbigliate con nuovi travestimenti. Impregnate dall’odore di cera e plastica bruciata, e da un dolore pungente, che non va mai via. Questo disco traccia un nuovo ritratto della sua complessa personalità. Alle volte sembra di essere precipitati dentro un night club, altre in mezzo a gente che sotto palpebre cadenti, ha occhi maligni. La sua voce echeggia il cupo della miseria metropolitana, degli sguardi stinti, che spariscono sotto nuvole di fumo. Di tossici che la notte insegue con occhi inceneriti. E di quella bambina preda del buio che in pantaloncini corti e maglietta scollata sulla schiena, cerca quello che è rimasto di lei. Solo guardando in basso si scopre la verità, il reale significato della vita. E il male per Lou Reed resta sempre fuori dalla luce del sole. Per farla breve ho il morale a terra. Ma mi comporto come una persona normale. Vado a lavoro, parlo, ascolto. Voglio continuare a dare agli altri, l’impressione di essere perfettamente integrato. Ma è vero il contrario. Mi sento sommerso sotto tonnellate di pioggia. Annaspo e vaneggio, mentre mi dirigo verso il nulla. Avendo in qualche modo imparato a riconoscere le bugie, non mi fa più neanche tanto male. E poi ho sempre i miei dischi e alcuni libri, come ancore di salvataggio. Ricorda che la città è un posto divertente. Qualcosa come un circo o una fogna. E adesso, la città è una fogna per me, tesoro. (Coney Island Baby) I segni delle sconfitte alle volte non vanno mai via. Facciamo finta di non saperlo ma andiamo tutti quanti verso gli stessi posti, facciamo le stesse cose, che qualcuno prima di noi ha già fatto. E allora perché spargiamo tutto questo dolore? Perché non ci meravigliamo più di nulla? Ce ne restiamo avvinghiati a quelle cose che ci hanno scaldato il cuore. Canzoni, poesie, e amori che ci hanno ferito profondamente, lasciandoci attoniti con la testa sul cuscino. Sembra strano ma quando eravamo deboli, eravamo forti. Poi abbiamo trovato la nostra ragione d'essere, e allora giù a bere un altro bicchiere, per celebrare il nostro decadimento. Abbiamo cercato di tenere tutto il piacere del mondo stretto nella morsa delle nostre dita, di approfittarne in quei giorni quando il presente, il futuro, il passato, non erano niente. E a quelle parole che rotolavano dentro di noi, gli siamo andati contro, le abbiamo sfilacciate, ammucchiate, e nella notte dato fuoco. Mentre c'incendiavamo di musica. Fin quando stremati lo abbiamo confessato all'alba di un giorno qualunque, a questo stupido mondo, che era proprio quello che stavamo cercando. Quel qualcosa che ci meravigliasse un po'. E' di artisti che ha bisogno il mondo, perché in loro sopravvivono le nostre paure e la nostra beatitudine. Ma come sempre gettiamo tutto noi uomini, con il nostro sonnecchiare sprecone. Schiviamo tutto noi uomini, con la nostra arroganza. Sparpagliati come stelle nel cielo corriamo nella notte, cercando di scimmiottare i nostri eroi. Ma siamo uomini soli. Un po' come i cani. Teneri e fedeli. La vita è piena di delusioni, di sogni rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Ma tutto sommato la speranza non costa nulla. Anche quella di diventare ricchi e famosi, non costa nulla. Gli Spirit suonavano musica davvero difficile da etichettare. Erano tra i pochi a sapere mescolare il pop, (uno dei più grandi riff rock rimane la loro I Got A Line On You) con spunti jazzistici, musica psichedelica e limpide armonie vocali. Musicisti eccelsi, impeccabili, ma non per questo privi di cuore. Ed Cassidy aveva suonato la batteria con Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Art Pepper, Cannonball Adderley. Quando a Los Angeles incontra Randy California, un chitarrista fantasioso e originale che aveva accompagnato Hendrix e Jimmy James The Blue Flames, insieme a Mark Andes, John Locke e Jay Ferguson, danno vita a uno dei gruppi più atipici della scena rock americana. The Family That Plays Together venne fuori nel dicembre del 1968, e conteneva sette canzoni che suonano ancora misteriose e inquietanti, ambigue e tenebrose. Ma anche oniriche e rilassanti. Riuscendo ad aprirsi un varco in quei frammenti di luce che in un modo o nell’altro, ci tengono vivi. Alle volte non riesci a respirare e quel morso che ti attanaglia, non si placa in alcun modo. Nella strada una voce roca e profonda, fece oscillare gli ascoltatori. Con gli occhi chiusi David Johansen sta cantando Somebody Buy Me A Drink.  Dopo una carriera da rocker di razza (il suo Live It Up è uno dei più grandi dischi dal vivo di musica rock) e aver mutato pelle diventando l’intrattenitore Buster Poindexter, nell’anno duemila registra insieme al suo gruppo gli Harry Smiths (dal nome del fautore dell’Anthology Of American Music) un omaggio al blues, la musica con cui è cresciuto nelle strade nel Bronx. Un viaggio nel fango del Mississippi fumando a testa bassa, e cantando canzoni impregnate del sudore di tutti quelli che sono fuggiti su strade polverose, con il demonio alle calcagna. Canzoni che azzardano e si stagliano fiere all’orizzonte, dove un bagliore le illumina di passione. Blues selvaggi per cuori impavidi, cantati da una voce piena di pathos e ruggine. Anche se uno fa finta di niente s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri. David si fermò ansimando come un cane. In quel grande vuoto poteva anche marcire di malinconia. E allora si mise a canticchiare Sunny. Quella canzone lo faceva sentire meglio. Il suo cuore riprese lentamente a battere. La musica lo ripuliva, e quel sogno era come un’ambulanza che lo soccorreva. Così riprese a camminare a testa alta, con il passo di chi non ha più paura. “E musica che potete sentire in ogni luogo, alla radio, nelle strade, blues, soul, country, rock, musica religiosa e suoni del traffico, della folla, della strada e dei prati, il suono del silenzio della gente. Questo scriveva il chitarrista Mike Bloomfield nelle note di copertina di A Long Time Comin’ l’album d’esordio targato 1968, degli Electric Flag. Con Michael c’è anche il vecchio amico Nick Gravenites, Buddy Miles, Barry Goldberg, e Harvey Brooks. Una sezione di fiati completa l’ensemble, per un progetto stilistico ambizioso. La band è davvero esplosiva, soprattutto dal vivo. Si esibiscono con buon successo al festival di Monterey, e partecipano alla colonna sonora del film The Trip. Ma in studio forse per colpa di certi arrangiamenti, non riescono a essere convincenti. Sicuramente Bloomfield è l’esatto opposto di una rockstar. Un uomo stracarico di tormenti interiori. Un carattere schivo e taciturno, che lo mette in difficoltà a stare sotto le luci della ribalta. Soffre anche di una grave forma d’insonnia, tanto che comincia a farsi di eroina. Prima di formare gli Eletric Flag tra il 1964 e il 1965, suona in studio con Bob Dylan in Highway 61 Revisited. In seguito farà parte della Butterfield Blues Band, e dopo aver accompagnato per un pezzo di strada Eddie Vinson, forma i Flag. A Long Time Comin rappresenta uno spaccato di quell’epoca del rock, quand’era più facile tuffarsi su qualche strada, e dare gas ai propri sogni. Ci sono dentro queste canzoni i frastuoni ossessivi della città del vento, e i suoi rumori. E anche i miei giorni innocenti. La musica è condivisione. E’ come una buona bottiglia di vino, del buon cibo, una scopata coi fiocchi. Cose che vanno godute fino in fondo. Non riesco a farmela passare però quest’angoscia, che mi fa sentire un relitto. Non posso pensarci a come sarà stato. A come si saranno sentiti quei ragazzi al Bataclan, mentre gli sparavano addosso. Mi ha cambiato per sempre quella notte, quel rantolo d’umanità che serbavo me l’ha portato via. Penso a tutte le occasioni che si sono persi, alle cose che non riusciranno a fare, perché qualcuno in nome di non si sa che cosa, si è preso il loro tempo. Una volta la terra è stata un paradiso terrestre. Sono rimasto avvolto nel buio mentre aspettavo i primi raggi del sole. La mia cucina è in miniatura e dà su un piccolo cortiletto sporco e pieno di vecchie cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel che resta di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per gatti. Un ventilatore a colonna, un saldatore elettrico, un rullo per pittura, mazze da carpentiere, uno scappello a punta. Un cane arrotolato su se stesso, dorme sempre a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo, da ragazzo giocavo a carte, bevendo succo di pera mischiato a gin. Presi una birra e accesi lo stereo. Con mio fratello da bambini, giocavamo ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contai più di cinquanta. Ero cresciuto in quel quartiere dove conoscevo tutti, e in qualche modo in quel luogo mi sentivo al sicuro. Ma nel tempo molte cose sono cambiate. Molti luoghi della mia memoria sono spariti, per fare spazio a brutti palazzi, e a inutili centri commerciali che stanno sterminando tutto il mio passato. Alle prime note di God Bless The Child, alzai il volume dello stereo. Aveva sempre uno strano effetto quella canzone su di me. Rimasi a guardare fuori dalla finestra la strada che si faceva buia. Quando la musica terminò, stappai la birra e mi sedetti sul bordo del letto. Dopo mi distesi e mi addormentai di colpo. Certo che non sarebbe male se ci fosse qualcosa che ci facesse distinguere da subito, i buoni dai cattivi. Ma alle volte basterebbe guardarle da vicino le cose, per vederle. Il mio quartiere è abitato da operai, gente umile, alla buona. Fin da piccolo ho imparato frequentando quelle strade, che c’erano solo due modi per cavarsela nella vita. O ci penetravi inzuppandoti fino alla testa, col rischio di soffocare, oppure era meglio risalire il fiume spingendo lentamente la canoa, in modo tale da potere vedere i giorni che passano. Lo avevano svenduto in nome del progresso il quartiere, quei fantocci dei politici. I piccoli negozi avevano chiuso, ed erano arrivati i cinesi ad arraffare tutto quello che potevano, per aprire i loro punti vendita e riempirli del loro ciarpame. Ma la sera al bar da Gino, arriva ancora gente di ogni risma. Musicisti, pittori, scrittori, mattoidi, ubriaconi, malviventi, truffatori, e borsaioli. Randagi e qualche depresso. Adesso c’è anche un gruppo d’intellettuali che ci fa base. Molti però non ci vanno più perché tra un bicchiere e un altro, questi fighetti del sapere, con quell’aria del cazzo che si ritrovano, sembra che li canzonano. Non so perché ma mi ricordano tanto quei finti sovversivi degli anni settanta, oggi ricchi e famosi, alla corte del potere politico-televisivo. Grandi facce di merda. La vecchiaia avanza prendendomi per il culo. Anzi ci prendiamo a vicenda per il culo, tanto per spassarcela un po’. L’altra volta ho infranto la mia pigrizia, e sono andato al bar per incontrare qualche vecchio amico. L’atmosfera era malinconica, come una ballata dei Tindersticks. Sono tornato a casa molto presto. Al ritorno un marocchino si è avvicinato per vendermi qualcosa. Per la prima volta in vita mia l’ho scansato. Lui mi ha guardato e ha scosso la testa. Avrà pensato ma cosa ho fatto? E ha continuato a guardarmi, fin quando non ho girato l’angolo. Quando sono rientrato a casa accovacciato sul divano, mi sono chiesto a che punto ero con la mia intolleranza. C’è stato un tempo in cui la terra promessa per il rock era la Francia. Parigi ha accolto tutti quei bastardi che il music business cacciava a pedate. Accadeva nel 1980 quando il punk la più grande rivoluzione culturale di massa, si stava spegnendo sotto le grandi luci del mondo, e i due amici Patrick Mathé e Louis Thevenon gestori del negozio di dischi Music Box, e della piccola etichetta Flamingo Records, decidono di trasformarsi in New Rose Records, etichetta che prese il nome da una canzone dei Damned. Tra nuove band e gruppi musicali francesi la New Rose, ha dato un’opportunità a questi fuggitivi del rock: Willie Alexander, Alex Chilton, Sky Saxon, Roky Erickson, The Real Kids, Charlie Feathers, Tav Falco, True West, Calvin Russell, Gun Club, Dead Kennedys, Cramps, Green On Red, Giant Sand, The Primevals, Alejandro Escovedo, Bo Diddley, Alvin Lee, Robert Gordon, Elliott Murphy The Slickee Boys, Paul Roland, Dr Feelgood, That Petrol Emotion, The Chesterfield Kings, Maureen Tucker, The Inmates, Percy Sledge, Johnny Thunders l’anima maledetta delle New York Dolls, e molti altri ancora. Stamattina mi sono alzato e fuori pioveva. La pioggia picchettava sulla veranda noiosamente. Me li ricordo bene quei giorni quando anch’io volevo tutto e subito. Con gli anni però ho dovuto imparare ad avere pazienza, a tessere la tela, ad aspettare il momento propizio. Ma non vado orgoglioso di questo. Perché le cose più belle sono quelle che hai lasciato scritto da qualche parte, sul muro dei ricordi. Un caldo e umido pomeriggio di settembre, io e lei in una piccola stanza d’albergo. La radio accesa che suonava Bermuda di Rocky Erickson. Abbiamo fatto l’amore con voracità e trasporto, standocene aggrappati l’uno all’altro come ad uno scoglio. Poi abbiamo dormito a lungo. Lei aveva diciannove anni, io venti. E’ sempre quello che non hai previsto che ti mette al tappeto. Il vicolo è stracolmo di spazzatura, di bottiglie di liquore, e piatti sporchi. Ma anche di gente che barcolla e cade. Il rock della New Rose ha i denti macchiati di sangue, e la faccia spigolosa. Il più delle volte soffre di nausea, e sente il corpo fluttuare. Vaneggia ed è costretto a mentire, per sfuggire a chiunque voglia ingabbiarlo. Le chitarre ringhiano e prendono fuoco. Dietro le sbarre di una prigione qualcuno strizza gli occhi, e con la mano si tocca quel rozzo tatuaggio rammendato sul braccio. Rock’n’roll Heart c’è scritto. Nient’altro. Non mi piace l’opera e non mi piace il balletto e i film della nouvelle vogue francese mi urtano be’, sarò stupido, visto che so di non essere brillante ma dentro di me ho un cuore da rock and roll sì, sì, sì, nel profondo ho un cuore da rock and roll. (Lou Reed) E’ tremendo osservare come ce ne sono di cose e persone smarrite nei ricordi, che non si muovono più. Quando uno invecchia non sa più chi risvegliare. Ascolti e vai! Sali in cima e scendi, guardi dappertutto. Come un uccello rapace, ti fiondi sulla preda. Un passo, due passi, adagio, non vedi nessuno. Bentornate angosce. Si cade a pezzi come rottami. Niente di grave. La gente sbraita e rompe le palle. Ma siamo tutti tremendamente soli in questo mondo.



Bartolo Federico




domenica 18 dicembre 2016

Romantici Bastardi


Il rock è uno sbuffo di vento, dentro la nebbia. L’innocenza perduta. Ma soprattutto il coraggio. Quel coraggio di andare fino in fondo alle cose. Attraversai la stanza e rimasi fermo davanti alla libreria, mi chinai nella fila sottostante dei dischi e scartabellai le copertine. Trovai degli spartiti per chitarra infilati in una custodia, e un vecchio disegno, che ritraeva lo strano profilo di un uomo con un buffo naso. Il vento fece cigolare le finestre. Mi versai della vodka ghiacciata in un bicchiere a palla, e me ne stetti assorto seduto sul divano. Bere alle volte migliora la visione delle cose. Non appena accesi lo stereo A Apolitical Blues s’infilò con prepotenza dentro la stanza, grattando e fumando, la musica del diavolo. Lo fece poco prima che quella mezza luna gialla, sparisse dalla mia visuale. "Be' il mio telefono squilla e mi hanno detto che era il presidente Mao. Non ditegli niente, non ho voglia di parlarci adesso. Ho il blues apolitico, il più terribile dei blues" Ci sono posti perfetti per certo rock’n’roll. Come quegli hotel che sorgono nelle zone malfamate delle città, che hanno camere con le crepe nel tetto, e porte fatiscenti. Luoghi abitati da fuggiaschi, alcolisti cronici, attricette, puttane, spacciatori, e qualche sbirro in cerca d’informazioni. Ma anche da scrittori e romantici dal cuore gracile, come il Willie Nile dell’esordio(1980) e di Golden Down(1981), due dei miei dischi preferiti di sempre. Un songwriter Willie Nile influenzato da Springsteen e Tom Waits, che sotto la luna vagabonda di una New York deserta suona un rock poetico, elettrico e spigoloso. Una luce nel cielo secco e nero, per quegli angeli vagabondi che girano la notte a vuoto in cerca di un po’ di calore, di sole, e che al mattino non ricordano mai i sogni che hanno fatto. Posti perfetti quei motel per far venir fuori canzoni dure e piene di dubbi, ma anche ballate che parlano di quegli angeli che pur con gli occhi scivolati all’indietro, non hanno smesso di farsi domande. Across the river, arcoss the bay people starving, every day nearly naked, pale and wan with crowds of people, looking on. Hearts and pounding, heads are still as tears begin to fall, I'm dreaming. (Across The River) Una pioggia furiosa batteva sui tetti delle case, andai in bagno e con l’acqua gelida mi lavai la faccia. Dalla finestra osservai il cielo farsi ancora più scuro, mentre dallo stereo la voce di Lowell George attaccò Dixie Chichen. Alle volte certi dischi rispecchiano il tuo stato d’animo, altri ti spingono verso le tue radici. Con i Little Feat sono diventato adulto, e ci ho regolato un sacco di conti interiori. Nei giorni in cui anch’io mi sono alzato al mattino con la gola raschiata dalle troppe sigarette, e un freddo nelle ossa, che non se ne andava in nessuna maniera. Ma quelle canzoni sembrano ancora possedere la chiave della serratura. Non sai mai il perché questo accada ma serpeggiando, sterzando e stridendo, sanno come arrivare in cima alle scale del tuo cuore. Sailin’ Shoes (1972) e Dixie Chichen(1973) suonano quel blues&roll maledetto, che ti fa tremare come una foglia nel buio della notte. Ha con sé quel furibondo richiamo della strada, che con le sue speranze e i suoi desideri, conficca i suoi speroni nella profondità della tua anima. Hanno il ritmo dello sferragliare dei treni, e il sapore delle cose perdute. E’ come se tutto il sangue caldo del Mississippi, scorresse dentro il corpo di Lowell George. E poi quando arriva Roll Um Easy una di quelle ballate dolenti e drogate di romanticismo mistico, i falliti del mio stampo sentono di poter riprendere a sognare. Oh I am just a vagabond. A drifter on the run. And eloquent profanityIt rolls right off mq tongue. And I have dined in palaces. Drunk wine with Kings and Queens. But darlin', oh darlin'. You're the best thing I’ve ever seen. (Roll Um Easy) Da ricordare anche il doppio album Waiting For Columbus del 1978, registrato al Rainbow Theatre di Londra. Un album che sta sul podio dei migliori dischi degli anni settanta, insieme At Fillmore East degli Allman Brothers Band anno di grazia 1971. Waiting For Columbus è uno di quei live che se non lo hai mai ascoltato, ti sei davvero perso qualcosa nella vita. Sul palco i Little Feat suonano da paura, stirando le versioni dei loro classici in maniera impressionante. Quello che viene fuori è una musica solida, diretta, e mai troppo innocente, come non lo è mai il blues e la malinconia. Nonostante tutto questo tesoro musicale Lowell George, è uno di quei musicisti di cui si parla sempre troppo poco. E non c’è peggio di un agonia troppo lunga, per finire del tutto dimenticati. Con l’età che avanza sono diventato debole e vulnerabile, come lo era Lowell George quando devastato dai suoi vizzi nel 1979, pubblicò quel bellissimo disco solista che è Tank’s, I’ll Eau It Here. Ma si era spinto davvero oltre Lowell, per riuscire a venirne fuori integro. Nel maggio di quello stesso anno un attacco cardiaco si portò via un uomo sincero e vero, un musicista eccellente, un bambino sperduto nella grande terra desolata del rock’n’roll, che sapeva scrivere grandi canzoni con gli occhi e il cuore pieni di pioggia, e una malinconia indelebile cucita nell’anima. E’ una strada faticosa quella del rock. Non basta avere una voce, o sapere suonare in maniera iperbolica il proprio strumento. Ci vuole passione, lo splendore di un rigagnolo, la visione di un risveglio, qualcosa che brucia, che cade a pezzi dentro di te. Per suonare il rock’n’roll ci vogliono uomini pieni di paura, ricoperti di polvere e fango, che come granelli di sabbia sanno riempire la vita di chi li ascolta. Il cielo era ancora scuro, e i guai cascano sempre indosso a chi c’è già dentro. Poi però si trasformano in incubi, che ti perseguitano. Il bassista era stato in galera, e questo creava dei problemi a quel coglione del manager. Anche se l’accusa di omicidio era regredita in legittima difesa, non era bastato a tranquillizzarlo. Per questo quella chiamata d’ingaggio tardava ad arrivare. Ma nessun componente della band, desiderava prenderne un altro. Perché quel basso sapeva suonare lacrime e sangue. E questo per un gruppo di rock’n’roll è qualcosa di magico. Bob bevve del gin e modulò la canzone che stava provando in tonalità di Re minore. Suonò un accordo di Do, poi un Sol, e nuovamente un Re minore. Il testo scorreva bene dentro gli accordi. Doveva solo provare una variazione di note per il ritornello. Né parlò con il sassofonista che provò quel cambio. La sensazione fu grandiosa. Aveva cominciato a usare la cocaina per tenersi sveglio. E perché secondo il credo comune di chi la usa, lo faceva trombare come un indemoniato. E visto che lui voleva scopare a più non posso, s’ingozzava di roba. Una sera una banale discussione con il suo spacciatore, era finita in lite. Sembrava che tutto fosse rientrato, invece quel pusher lo aveva aspettato sotto casa armato di coltello. Era stata solo una mano iellata, la sua. Non voleva certo ammazzarlo. Ma si era ritrovato in un colpo solo nella merda fino al collo. Viviamo in un modo dove si adorano le proprie menzogne. Popolato da gente che sputa su qualsiasi cosa volti loro le spalle. Un mondo smarrito. Adesso Bob se ne stava fermo in quel caos. Depresso, incazzato e brillo. Ma la musica come sempre si prendeva tutto, anche quel mezzo sorriso, e tutti i suoi sogni. Solo la musica lo faceva vibrare, come i pazzi di Jack Kerouac. Sai che ho fumato un sacco di erba. Sai che ho spuntato un sacco di pillole. Ma non ho mai toccato niente che il mio spirito potrebbe uccidere. (Hoyt Axton- The Pusher) Ci credeva nel potere redentore del rock’n’roll. Era la sua arma di difesa per arginare quei deliri che alle volte lo opprimevano, fino a farlo quasi soffocare. Alzò il volume e le casse scricchiolarono. La pazienza è una cosa che s’impara. La vita ti allena ogni giorno. Ma se si perde l’entusiasmo, non si va da nessuna parte. Gli era già successo altre volte. Nel 1974 Nick Drake morì per un’overdose di Typatasol un antidepressivo. Così affermò l’autopsia. Ma forse fu soltanto il suicidio di un ragazzo che ascoltava silenzioso, il ronzare del giorno. Che guardava il mondo con stupore e perplessità, con quegli occhi chiari che ormai erano diventate fessure troppo strette. La depressione è un’arma micidiale. E nella stanza di Nick filtrava da ogni angolo, pronta a balzargli addosso in qualunque momento. Raccatta una manica di matti il rock’n’roll. Spudorati che aspettano solo che accada qualcosa di nuovo, che li faccia sbalordire, confondere, eccitare. E quei loro occhi tristi, sono celle di luce. Occhi che pungolano e strattonano. Forza e dolore. Urla nervose in stanze buie. Dove tutti però vogliono vedere che succede. I Modern Lovers capitanati da un giovanissimo Jonathan Richman, erano quattro fanatici ammiratori dei Velvet Underground e del rock anni 50. Il loro primo disco The Modern Lovers registrato nel 1973 e prodotto da John Cale (che nel 1975 produrrà anche Horses di Patti Smith) vide la luce nel 1976, con etichetta “Home of the Hits”. Era di colore nero con scritte blu. Roadrunner era la prima canzone del disco, e suonava senza tregua nel juke-box della boutique di Malcolm McLaren. Fu adottata dal gruppo dei Sex Pistols prima che il loro "Never Mind The Bollocks" con il suo fragore, scompigliasse il mondo del rock. Si sa che la giovinezza è un lusso è quando si è turbolenti e colmi di talento come quei ragazzi, può capitare di tutto. Col senno del poi converrebbe a tutti noi, giocarselo meglio quel tratto di vita. Nel 1974 i Modern Lovers non esistevano più, si erano già sciolti come neve al sole. Per i soliti motivi per cui litiga una rock’n’roll band. Così quando nel 1976 quel vinile arrivò nei negozi di dischi tutti gli elementi della band erano già impegnati su nuove strade, con altri sogni sotto il cappello. Jerry Harrison si era trasferito nei Talking Heads, David Robinson aveva formato i Cars, Ernie Brooks sbarcava il lunario suonando nelle band di David Johansen, ed Elliott Murphy. Nel 1973 Jonathan Richman e i suoi amici giocando a fare le stelle, scivolarono e svanirono per sempre nel dimenticatoio. Ma quando si è giovani si è troppo distratti, ingenui, e coglioni. E non si sa che le cose possono cambiare bruscamente, in modo repentino e irrecuperabile. In quel periodo se accendevi la radio e giravi la manopola, potevi sentire gente come i Doors, gli Stones, Hendrix, The Who, Stooges, New York Dools, Lou Reed. Poesia e rock messi insieme. Tutti vogliono aver successo con la propria arte. Pure i Moden Lovers che suonavano canzoni torbide, anfetaminiche, spiazzanti e convulse, che alle volte ruotavano anche su un solo assillante accordo, cercavano la popolarità. Ma con canzoni che ti fanno barcollare e cadere verso l’ignoto, avvolte dentro atmosfere che tinteggiano la mediocrità della vita, non si va lontano. Ma fu per quel suono rudimentale, noir e disadorno, che negli anni a venire Jonathan Richman e i Modern Lovers, diventano fonte d’ispirazione per una miriade di band che attraverseranno i sotterranei del rock. Dalle Violent Femmes, ai Feelies, passando per i Minutemen, Pavement, Sonic Youth, Died Pretty, Jazz Butcher, Sebadoh, Gang Of Four, Pere Ubu, e molti altri ancora. Tutti loro devono qualcosa a Jonathan Richman, se non altro perché questo ragazzo si è sempre rifiutato di fare parte di quel sistema usa e getta, caro all’industria discografica. Troppo duro e puro per diventare un mostro di cartapesta da adorare. La mia abitazione è situata in periferia, a nord della città. Una casa piccola e modesta, che i miei genitori hanno comprato con grandissimi sacrifici. Il giorno del mio quattordicesimo compleanno, mio padre firmò il contratto. E per la prima volta in vita sua delle cambiali, che non lo fecero più dormire la notte. Anche se le finestre e le facciate degli edifici limitrofi erano ancora tutti da dipingere, e fuori dai terrazzini c’erano appesi stracci, camicie stinte, pantaloni fuori moda, lenzuola, tovaglie da tavola, e bavette per bambini, quella fu una vera e propria svolta per la mia famiglia. Nessuno poteva mandarci via da quella casa, com’era successo altre volte. Un edificio abitato da gente comune, dalla vita anonima. Quando da ragazzo salivo le scale del palazzo, potevo sentire l’odore del cibo spandersi nei pianerottoli, le grida dei bambini, e le urla disperate delle loro mamme. Un trambusto continuo a qualsiasi ora del giorno. Adesso che è l’una di notte, e le luci nelle case del quartiere sono tutte spente, sdraiato sul letto ascolto in cuffia “I Wanna Sleep In Yours Arms”. Poi quando le cuffie hanno cominciato a darmi fastidio, me le sono tolte rimanendo a scrutare il vuoto. Fuori dalla finestra vedo solo un buco nero, come il mio cuore. Senza volerlo in un giorno qualunque, è andato tutto a puttane.
Nell’anno 1976, Keith Relf cantante e fondatore del gruppo degli Yardbirds, è morto fulminato dalla corrente, mentre provava a casa sua una nuova chitarra elettrica. Tommy Bolin chitarrista che aveva sostituito Ritch Blackmore nei Deep Purple, moriva all’Hotel Newport di Miami in Florida, poco dopo un concerto. La causa è da addebitare a un cocktail di droghe e alcool. Aveva 25 anni.
Anche se ci sentiamo come un guscio silenzioso e vuoto, quello è il momento in cui bisogna parlare con l’anima. È l’anima non è responsabile di nulla. La musica serve per comunicare. Il rock’n’roll è nato per questo. Per fare incontrare tutti quei disadattati che girano solitari per il mondo. È per loro che si è messo a nudo e ha manifestato la sua rabbia, la sua integrità, la sua passione, la sua fragilità. Il rock appartiene alla gente. È l’ancora di salvezza, prima del possibile naufragio. Dobbiamo liberarci di tutte queste etichette che gli mettono sopra, e anche di certi pseudo musicisti, che si credono intelligenti e visionari. Squallidi figuri. È pericoloso non meravigliarsi più di nulla. Dobbiamo continuare a fare resistenza. La musica è tutto quello che ci resta. La nostra energia vitale. Se non altro lei non ti giudica mai. La musica deve continuare a viaggiare, infettarsi, mescolarsi, e ricordarci che chiunque può salire su un palco, se ha qualcosa da dire. Chiunque. Mentre il frigo rumoreggia, posso contare su quelle cose che ho conservato nella nebbia e nel silenzio di me stesso. Le ho custodite per quei momenti in cui non voglio essere visto da nessuno. I tempi cambiano ma non sono sicuro neanche di questo. Patti Smith vide i Television esibirsi il 3 febbraio 1974 al Townhouse Theatre di New York, e definì quell’esperienza indimenticabile. Il loro disco d’esordio Marquee Moon del 1977 è un album introspettivo e inquieto. Un manifesto di quegli anni in cui la musica perlustrava altre strade, e nessuno cercava di soffocarla. Raccoglie dentro di se l’anima di quelli che sono fuggiti lungo tragitti secondari con il cuore pulsante, e le mani tremanti. Hanno un’aria matura queste canzoni, come se qualcosa di perfetto fosse sceso all’improvviso su questa terra. Qualcosa che è rimasta per sempre anche quando la luce si è spenta. Musica suonata per sottrazione, ossuta ed efficace. Non ci sono fronzoli, assoli riempitivi, e pose da star. E la musica non si perde mai dentro se stessa. Avevo solo quattordici anni allora, ma dischi così belli non ne ho più sentito. Sto pensando troppo e sono così confuso cantava Jonathan Richman nel 1998, in un album prodotto da Rick Ocasek dei Cars.
Siamo stati troppo accondiscendenti con chi tiene le redini del gioco. Ci siamo fatti infinocchiare dalle loro bugie, per poi sentirci soli di fronte alle nostre piccole verità. Tutti vogliono fare soldi, anche con il rock’n’roll, potete crederci. E come una vecchia troia lui batte il tempo, solo per il bisogno di sorprenderci, di salvarsi, e di andare contro qualsiasi discriminazione. La musica deve rimanere libera di brancolare nel buio, di contorcersi, perdere l’equilibrio, cadere e rialzarsi. Il rock deve continuare a sopravvivere. In un modo o nell’altro. Quando mi svegliai la luce fuori era ancora grigia, e la stanza silenziosa. Il mio cane mi ha visto muovermi e battendo la coda si è avvicinato, leccandomi il viso. Mi sono alzato e ho messo la caffettiera sul fuoco. Dopo ho acceso lo stereo, e ho fatto partire una canzone che mi era tornata in mente nella notte. Frankie Teardrops dei Suicide. Dalla finestra adesso entrava un pallidissimo sole. Frankie lacrimevole. Frankie ventenne. È sposato e ha un bambino.E ha un lavoro in una fabbrica.

Lavora dalle sette alle cinque.Lo fa per sopravvivere. Beh, bravo Frankie Frankie Frankie. Ma Frankie non ce la fa, perché la situazione sta facendosi troppo dura. Frankie non riesce a fare abbastanza soldi. Non riesce a comprare abbastanza cibo.E Frankie sta per essere sfrattato. Oh, bravo FrankieOh, Frankie, Frankie Oh, Frankie, FrankieFrankie è così disperato. Sta per uccidere sua moglie e i suoi figli.Frankie sta per uccidere suo figlio.Frankie ha impugnato una pistola. L'ha puntata verso il bambino di sei mesi nella culla.Oh Frankie(urla) Frankie sta guardando sua moglie. Le ha sparato(urla)"Oh cosa ho fatto? "Bravo Frankie Frankie lacrimevole.Frankie si è puntato la pistola alla testa.(urla). Frankie è morto. (urla). Frankie giace all’inferno. (urla).  Siamo tutti Frankie. Giacciamo tutti all’inferno. (urla)
S’incontrarono a New York nel 1971 al Project un locale d’avanguardia culturale, Alan Vega e Martin Rev. Il primo è uno scultore, il secondo un musicista jazz. Il rock’n’roll che è musica che abbatte ogni barriera, fece il miracolo di metterli insieme. Volevano fare una rivoluzione quei due, mettere gli uni di fronte agli altri. Cantavano la paura della guerra, le psicosi della vita quotidiana, le nevrosi, e la rabbia. Con un sintetizzatore, un piano, e un organo suonati da Rev, e il canto spettrale e schizzato di Vega. Il duo esordisce nel 1977 con un disco che è il più triste dei dischi punk di quel periodo. Frankie Teardrops è una sorta di Sister Ray dei Velvet Underground, un pezzo angosciante che parla di un operaio che spara alla moglie e al suo bambino, prima di uccidersi. Finalmente la “pop art” guardava la classe operaia, e quelli che avrebbero voluto una vita meno domestica. Gente pronta a scappare da qualunque parte del mondo, se non avesse avuto una fifa da morire. Senza chitarra e batteria quest’esordio resta a mio parere il più futuristico, il più folle, dei dischi, che ho sentito e amato. La vita è come un frammento di luce che finisce per oscurarsi in fondo alla notte. E questa vita in qualche modo, c’è la stanno rapinando con un tempo triste, che fa disgusto, anche a starsene fuori a trotterellare per strada. Sembra una lenta agonia. Ma non si può continuare a giocare con le carte degli altri, perché sono sempre truccate. Bisogna trovare un modo per sopravvivere. Dobbiamo cominciare a dare peso alla nostra esistenza. Ci sono cose cui solo noi possiamo rispondere. Bisogna ricominciare a cercare quella luce. Bisogna ricominciare a sognare. In un modo o nell’altro.

Bartolo Federico














venerdì 16 dicembre 2016

Corpo & Anima


Alle cinque e quarantacinque del mattino l’autostrada era un deserto. C’era solo una nuvola solitaria, che come un batuffolo di cotone ballonzolava nel cielo. Accesi la radio nel momento in cui due conduttori stavano commentando un’intervista che Keith Richard, aveva rilasciato al giornale Esquire. Mister Roll riteneva che Sgt Pepper’s Lonely Heart Club Band album dei Beatles uscito nel 1967, fosse un miscuglio di spazzatura. Secondo Richard era anche sbagliato considerarlo il miglior album rock di tutti i tempi. I due tizi come succede sempre quando ci sono di mezzo queste due band, erano invece di parere opposto. Imputavano a Keith di essere solo un vecchietto invidioso, e che questo suo livore era dovuto al fallimento che gli Stones avevano subito con il disco The Satanic Majesties Request, uscito nello stesso anno. Risi e attivi la freccia per entrare nell’area di servizio. Quella mattina l’aria era pulita e anche un po’ zuccherosa, e mi sentì compiaciuto di appartenere a quella pattuglia di amanti del blues, e di quelle canzoni che grattugiano la vita con suoni scarni e acuti. Canzoni in bianco e nero, povere ma dignitose, che non suonano mai troppo complicate. Sarò uno stupido valutai mentre sorseggiavo il caffè, ma la mia gente è rimasta ad alloggiare nei piani bassi del mondo. Sono spesso in affanno con le bollette, e l’affitto di casa, e quando cantano stonano quasi sempre sugli acuti. Quando ero un ragazzo è stato il rock che mi ha offerto una scappatoia dal grigiore della periferia in cui vivevo, e mi ha dato il coraggio di affrontare la vita guardandola da un altro punto di vista. Gliene sarò sempre grato. Scrollai l’uccello e mi sistemai la camicia a righe, che era identica a quella che indossava Tom Waits ai tempi delle foto promozionali dell’album Rain Dogs. Mi lavai le mani e uscii dalla toilette. Siamo come cacciatori di stelle mentre cerchiamo in tutti i modi di scovare nuove canzoni, per cibare lo spirito e la carne. Abbiamo dentro un demone che ci possiede. Lo stesso che aveva Harry Smith un antropologo, bizzarro e barbuto. Un collezionista di 78 giri, bramoso di scovare pezzi rari della musica americana. E’ con la sua collezione di dischi che la Folkways un’etichetta dedita alla folk music pubblica Anthology Of American Music nel 1952. Una specie di bibbia per tutti quegli uomini che se ne vanno in giro fumando in silenzio, e dormendo per strada. Un cofanetto diviso in tre volumi che parla delle gesta di persone sperdute, semplici, avvolte dentro una nuvola di polvere. Sempre ubriache di pessimo whiskey. Musica inquietante, piena zeppa di fruscii, di fantasmi, che si affacciano a ogni nota che viene scorticata da un banjo, o da una chitarra. Sangue e sofferenza. Musica popolare che ha l’affanno dell’uomo comune, del disoccupato, del migrante, di chi non sa più dove andare. Raccoglie dentro di sé immagini e speranze, rimpianti, ma anche entusiasmo e voglia di vivere, nonostante tutto. Ho spento la cicca sotto la suola della scarpa e mi sono diretto alla macchina. Un tempo le canzoni di Will T. Massey e Michael Mcdermott, erano come cuscini di stelle. Adesso i loro dischi sono copie umide e ammuffite, rintanate chissà dove. Due meravigliosi perdenti che erano tra quei musicisti che mi fornivano la colonna sonora per le mie fughe solitarie, in quella specie di sfida che avevo intrapreso con il mondo. Erano i giorni del vino e delle rose, delle asprine prese appena sveglio con gli occhi gonfi e rossi. Un dolore sordo mi ha attraversato dalla testa ai piedi. Ciascuno di noi ha qualcosa da perdere. Ma la vita cambia e non sarà mai più come prima. Lightnin’Slim aveva la pelle e i capelli neri come suo padre, una voce roca e profonda. Un giorno si comprò una chitarra e suonando sotto il ponte della ferrovia accordi semplici ed essenziali, gli venne fuori un blues. Un blues oscuro che sapeva di pioggia e nebbia, di sole e vento, e che si amalgamava perfettamente all’acqua stagnante. Il Bayou s’illuminò sotto i raggi del sole e Lightnin'Slim che una volta era stato Otis Hicks, seduto sotto il portico della sua baracca bevve della limonata ghiacciata, con dei ciuffetti di menta. Il blues non ti rende ricco, come invece fa la politica. Quella sì che fa diventare giganti uomini insignificanti, insulsi, banali. Gente che si occupa di costruire centri commerciali, finte autostrade, e qualunque cosa gli faccia guadagnare un sacco di soldi. Chissà poi perché a questi non li rinchiudono mai in un manicomio.  C'è chi si nutre di disprezzo, di odio, del sangue di gente lasciata sola a marcire sugli scogli di una spiaggia qualunque. La storia alle volte dovrebbe raddrizzare il tiro, e non prendersela sempre con gli stessi. Il mio amico è un nero del cazzo, uno che vorrebbero vedere morto, o appeso a una forca. Il filo della storia è questo, e non c’è rischio che si spezzi. Per esempio io sono uno di quelli che se ne sta svogliatamente a smanettare i tasti del telecomando, e sarà colpa mia credetemi, se non avrò da replicare quando mi rinfacceranno con stile sopraffino di essere uno stronzo, una carogna, che non ha fatto nulla per cambiare lo stato delle cose. Ma ho solo sentito bugie, su bugie. Che se la prendessero in quel posto tutti quei radical chic, con barbetta e occhialini alla Gramsci. Loro sì che stanno bene in uniforme. Io ho imparato a sbarcare il lunario, e a starmene tranquillo da una parte come dall’altra, in perfetto equilibrio. Fermo nell’oscurità. Adesso sento di poter mollare la paura, perché sono abbastanza alticcio. Il sole sta sbucando e in strada qualcuno ha tirato il grilletto, mentre i cani hanno preso ad abbaiare selvaggiamente. Signor presidente la ruota è ferma. Ma se la ruota si mette a girare, allora quello che è di sotto, sale di sopra. Quindi se può non disturbi troppo i cani che dormono. Nei miei sogni c’è una radio che suona Abba Zabba una canzone di Captain Beefheart, poi arriva anche Shane, She Wrote This dei Televison, e all’improvviso tutto va per il meglio. Finché vai avanti niente può ucciderti. Fanculo a tutta questa merda. Quei bastardi non sono i miei fratelli. Mi ha urlato un uomo in strada tra un frastuono terribile di clacson. Ma quanti romantici dondolano nel cielo? Lo sanno bene questi tizi che ci comandano, che stanno uccidendo degli uomini. Per loro è una sensazione fantastica. La gente però ha gli occhi chiusi e lo spiega in un altro modo. Come se fosse il volere di Dio. Ma quale Dio è così malvagio? Colpiscono tutti con la loro crudeltà, con le loro bombe. Bambini, ciechi, ammalati, orfani, vagabondi, che si dimenano nella tempesta furiosa. Ma forse un giorno arriverà un alba che porterà un po’ di vita. Non senti quel sole che splende? La marmotta che corre lungo il fiume. Dev'essere il giorno in cui si avverano tutti i miei sogni. Così felice solo di vederti sorridere sotto il cielo azzurro. In questo nuovo mattino, nuovo mattino. In questo nuovo mattino con te. (New Morning – Bob Dylan) Si forse accadrà che un giorno un contadino in ginocchio circondato da anatre e polli, con le mani scaverà un buco nella terra e pianterà un seme, e sarà come se tutto questo non fosse mai successo. Solo allora dirò una preghiera, e gli occhi mi si riempiranno di lacrime.
Da una radio accesa.
All' armonica a bocca c'è "Wild" Bill Phillips.
Ed ecco a voi Lightnin’Slim. 
Piove sulla mia follia. Certo che piove. Non importa il perché ma sono in vena di confidenze. In quelle ore che mi hanno messo a nudo è stato davvero eccitante rotolare e gemere, sembravo quasi sul punto di rompermi in mille pezzi.  Ad un tratto però mi sono fermato, per sentire il mio cuore battere. Minuti, ore, il resto del mio tempo l'ho passato tra l'inebetimento, e il delirio puro. Sono fatto così. Voglio solo incontrare altre anime che hanno come me quella stupida sciocca angoscia, che li perseguita. Mi sono stancato di parlare da solo. Mi sembra di barare, mentre me ne sto abbracciato a quelle cose che si nascondono nel buio. Essere se stessi è la cosa più' complicata che ti può capitare. Ti viene da impazzire cercando di difendere la tua anima. Ti rendi conto di quanto sia difficile anche scendere dall'autobus in mezzo al traffico, sghignazzando e traballando. Allora capisci che ti hanno fregato. Sei anche tu senza pretese, senza ambizioni. Hai solo voglia di startene tranquillo e rifiatare. Mentre coli a picco. Bisogna ricominciare da capo.... Una cosa disgustosa... Si lo so…. Un piccolo delirio... Supplementare…
Dalla radio accesa:
It's mighty crazy
It's mighty crazy
It's mighty crazy
That you keep on rubbin' at the same old thing
You know it's crazy
It's mighty crazy
It's mighty crazy
That you keep on rubbin' at the same old thing
You know I met a little girl
All short, down and blue
She saw me rubbin' and she started rubbin' too…
La luna sanguinava. Rimasi in silenzio e allontanai il bicchiere. Lo diceva quel gigante di Leadbelly che ci vuole un uomo con il blues, per suonare il blues. Quando udii cantare Son House la sua musica penetrò dentro di me, ansante e sbuffante. Fui sommerso da quel sentimento di disperazione e angoscia, che la sua voce roca e passionale mi trasmettevano. Mi strappò con ferocia la pelle dal cuore, e diventai rosso per la paura. Quell’uomo con la sua emozione aveva superato qualsiasi frontiera, e mi parlava a tu per tu. Mentre Son cantava facendo scivolare la lama di un coltello tra le corde di un dobro, la musica si fece ancora più straziante. Bastava solo guardarlo e chiunque avrebbe capito cosa significava essere un negro, e avere il blues nell'anima. Un uomo che insegue i propri sogni, non ha nulla da rimproverarsi. E le cose non avranno mai fine, finché c'è qualcun'altro che le racconta.
Dalla radio accesa:
Well who's that shouting?
John the Revelator!
All he ever gives us is pain
Well who's that shouting?
John the Revelator!
He should boe his head in sahe
Bye-bye
Bye-bye
Bye-bye
Bye-bye
Seven lies, …
Bye-bye…
Qui da noi il clima è sempre uguale. Non cambia mai. Come i politici. Ho incrociato le braccia e lentamente sono andato via. Mentre quel blues continuava a risuonare. Dopo un paio di canzoni country, e qualche altro blues strascicato che saliva a galla dal buio più' profondo, qualcuno soffiò sul microfono e la musica rock ripartì. Lucinda Williams arrivò con un semplice riff di chitarra. Con la sua voce impastata, inciampava e strascicava emozioni. Nella pianura sconfinata era come avere una passerella, tra il cielo e la terra. Sensazioni uniche. E lei che con le sue canzoni dolenti e bastarde, mi ha spinto nuovamente verso sud. Il posto dove sono cresciuto. E' bello poter parlare con qualcuno attraverso una canzone. Non ti senti così solo, come invece sei. Poi i suoi occhi hanno incrociato i miei. Siamo rimasti in silenzio stringendoci come angeli ubriachi, guidando un po’ ciascuno in quella strada che portava a Lafayette, o a Jackson, adesso non lo ricordo bene. Ci sono cose che non spariscono mai. Ho bevuto un altro sorso e ho chiuso gli occhi. In attesa di altri sogni.
Da una radio accesa:
Can't find a damn thing in this place
Nothing's where I left it before
Set of keys and a dusty suitcase
Car wheels on a gravel road
There goes the screen door slamming shut
You better do what you're told
When I get back this room better be picked-up
Car wheels on a gravel road…
Le canzoni dei Replacement erano immagini che sarebbero diventate familiari, a chiunque avesse avuto meno di trent’anni. Avevano l’aria minacciosa accompagnate com’erano da quel suono selvaggio, e da quel canto disperato di Paul Westerberg. Rappresentavano tutti quelli che avevano passato un’infanzia difficile, trascorsa nei centri sociali e nei ghetti, in mezzo a spacciatori di crack, e genitori in crisi di astinenza. Oh dottore fa un freddo cane qui fuori. Alle volte mi vengono dei blues che sono come un risucchio. Mi dia un piccolo consiglio dottore, una medicina per le mie noie, un soffio, un’elica, un sasso. Ho cercato in giro una via d’uscita, un riparo, con le mani dietro la schiena. Sono tornato sanguinante insieme al rock'n'roll. In quella stanza l’aria era impregnata di fumo, di sigarette e spinelli. Si suonava musica imperfetta, trascurata, spesso indecifrabile.  È questo però che la rende migliore. Il rock quando è sincero, colpisce allo stomaco, come un blues del delta. Li hanno cacciati a calci in culo i Replacement, mentre vomitavano la loro rabbia mista a quel desiderio di ricerca dell’anima. Fateli entrare, il resto verrà da se. Dissolvenza.
Dalla radio accesa:
I can wake up in the morning
Gonna stay up afternoon
Don't lie in a stutter
Get myself in my mood, yeah
Gonna get the corner baker
And I'll attend to my maker
I don't take no cigarettes
They got a mood…
La storia di Bob Forrest ti lascia la bocca amara, è come camminare lungo una strada buia, dove il sole non sorge mai. Le canzoni di Survival Songs un record uscito nel 2015, sono cantate da un sopravvissuto. Uno che è stato dentro l’inferno di alcool, cocaina ed eroina. Uno che non è morto solo per caso, o per fortuna, fate voi. Canzoni che disturberanno la quiete in cui vi siete bellamente ritirati, con le vostre convinzioni, le vostre certezze. Che vi metteranno a disagio. Canzoni balbettanti, nude, crude, suonate come sono uscite da quell’angolo di cuore che non è esploso, solo per caso, nel bel mezzo della notte. Se siete amanti dell’estetica lasciatele stare. Qui c’è solo un uomo con i suoi fantasmi e la voce traballante, che finalmente riesce a guardare il suo dolore. Bob Forrest è uno che ha tirato troppo la corda della vita, e intanto che urlava si aggrappava al rock’n’roll e al piano di Thelonious Monk. Era come una bagnarola bucata, imbarcava acqua da tutti i lati e andava affondo, vomitando le sue pene, nelle notti fredde e solitarie. Ha camminato su e giù per la strada, e la domanda che si faceva era sempre la stessa. Non capiva che quello che gli capitava era tutto dentro di se. Sono una ferita sanguinante queste canzoni. Sono il tempo che aspetta. Un delirio, che bisognava necessariamente strappare al buio. Come hanno fatto a suo tempo anche Johnny Thunders in Hurt Me, e Roky Erickson con The Holiday Inn Tapes. Canzoni perfette per chi invecchiando ha la faccia brutta e ripugnante dei suoi fallimenti, delle sue condanne. “See That My Grave Is Kept Clean” un blues terrificante di Blind Lemon Jefferson apre questo disco, e per la prima volta suona come un ritorno. Un ritorno alla vita. Non ci tiene nessuno a sapere la verità. Tutto si compra con le menzogne, la mediocrità. Lui l'aveva riconosciuto l'amore in una tromba di luce. Quando stava per cedere alle sue paure, tutto gli è parso più' chiaro. L'amore è tutto ciò che c’è. Anche questa è una rivelazione.
Dalla radio accesa:
Well, there's one kind-a favor I'll ask of you
Well, there's one kind-a favor I'll ask of you
There's just one kind favor I'll ask of you
You can see that my grave is kept clean
And there's two white horses following me
And there's two white horses following me
I got two white horses following me
Waiting on my burying ground…
Ancora con queste storie di perdenti e sogni andati a male. Di gente cresciuta in piccole città con il mal di testa perenne, e gli occhi tumefatti. Sempre alla ricerca di una via di fuga, per rendere meno amara la propria esistenza. Anime tormentate che con un pieno di benzina si sono infilati su percorsi tortuosi, incroci e curve a gomito. Strade che portano ad altre strade. Fin quando non ci si ritrova dentro un vicolo cieco. È come un senso di ebbrezza che ti offusca la vista, quel desiderio di un’ultima occasione, che brucia più di ogni altra cosa. E vale molto di più dell’innocenza, della libertà. Per molto tempo sono stato come un marinaio di una nave in secca, ero incapace di muovermi, di fare qualunque cosa. Sgocciolavo nel vento, come una bottiglia vuota. Le cose che tenevo in pugno se ne erano andate tutte in malora. Come un estraneo chiuso nel suo silenzio, non sapevo che stava andando così. Adesso però guardo la strada dall’interno dell’auto con la mano sui tasti della radio, e cambio stazione continuamente. Finalmente arriva una canzone di Jesse Malin dal suo New York Before The War album del 2015, ed è come un sogno che passa in questa merda di posto. Ci ho incollato le mie iniziali sul cruscotto della macchina, e anche sulla carrozzeria. Ieri mi sono comprato una chitarra nuova, che è un po’ come cambiare donna. Ti si attacca addosso e non c’è verso di mandarla via. Ho voglia di riempirmi il cuore di sabbia e vento, di trovarmi solo e smarrito, di sentire il sole dietro le spalle. La mia strada è questa. Quella dei pazzi che non riescono a scorgere nulla, se non gli spiriti nella notte. Ed ho benzina a sufficienza per correre lungo quella strada che ho lasciato.
Dalla radio accesa:
Wake me up when the world is dead
I think I missed you my whole life
With the un in your eyes
Every time I hear the sound of my international baby
Every time I fall asleep and wake up all alone
Bringin' it on
I lie awake and I watch the news
In a language I don't understand
But the blood still runs red…
Gli anni settanta roba datata, preistoria del rock, capelloni e spinelli, polvere e vento. La California. La terra dell’uva la chiamò Jack. E poi i Doobie Brothers. Si lo so non c’entrano un cazzo, adesso. Roba di facile ascolto, melodie raffinate dicevano i più intransigenti. Una macchina perfetta del rock business. Musica da radio a modulazione di frequenza. Certe cose non tornano lo so bene, e ci si sente ridicoli anche a sentire certa musica. Perché non sei alla moda, non sei figo, non sei al passo dei rottamatori. Ma io me ne fotto come ho sempre fatto, e vado dritto per la mia strada. Volevo tornare laggiù in qualche modo, per indossare ancora certi ricordi. Che male c’è? Mi piacciano sempre quelli che viaggiano fuori mano, anche se è solo per farti un dispetto. E poi in Stampede anno 1975 ci sono Ry Cooder, Bill Payne dei Little Feat, Maria Muldar, Curtis Mayfield, gente che si è tenuta lontano dalle grandi strade del business, e che si è cambiata d’abito dietro un distributore di benzina della Shell.
A suo tempo l’ho scovato quasi per caso, mentre se ne stava rannicchiato nel reparto dei forati della Warner. Bassifondi del rock, li chiamavano. Adatti alle tasche di sfaccendati, di gente che come me, non aveva mai una lira. Arrivò con uno strano sorriso in quei giorni della strada selvaggia, delle insegne al neon, delle cadute, dell’asfalto nero e lucente, della liberta, delle lacrime, delle passioni irrefrenabili, della mia impulsività. Con quell’aria da straniero che mi portavo appresso, era solo per un miracolo se restavo ancora in piedi. In quelle notti di seghe, di stordimenti, immaginavo il west, i saloon, i cespugli, i muri cadenti, e quelle vecchie case perse nella prateria. Stavo andando. Non so dove.
Adesso è solo un rimpatrio tra vecchi amici di sbronze. Ma allora era un continuo camminare senza stare in guardia, solo per vedere cosa nascondeva la notte nei suoi silenzi. E poi c’era sempre quella luna a forma di osso che s’ingrossava nel cielo, e illuminava i passi di chi ritornava a casa.
Dalla radio accesa:
The days grow short, the nights are gone
Since you were here, I can't go on
I cried for you, to no avail
Now my life runs cold when the night winds wail
But I cheat the hangman, cheated him many times before
The bell that tolls the hour has turned sweet lips to sour
Yes, I cheat the hangman and even when life has flown away
I leave a kiss behind…

Bartolo Federico