domenica 27 aprile 2014

Dentro E Fuori Le Ombre



Dion se ne stava nudo, seduto sulla poltrona vicino la finestra e completamente imbottito di droga. La camera era buia e anche le strade del sobborgo erano tetre e silenziose. Aveva lo sguardo perso nel vuoto mentre scrutava fuori. Doveva essere onesto con se stesso per uscire da quella situazione in cui si era cacciato, ma al momento non c’erano vie di fuga. Un piccolo rumore lo fece trasalire. Si grattò il viso e guardò a terra. Dopo gli spaventi della notte, provocati da quei strani sogni, la mattina seguente fece una gran fatica ad uscire dal letto, ma si strascicò lo stesso nella piccola cucina e quì si preparò una tazza di caffè italiano, appoggiandosi con le spalle alla parete per tenersi in piedi. Era veramente preoccupato per come si erano messe le cose. Si sedette e con le braccia appoggiate sul tavolino si resse il mento, e nel silenzio si concesse anche un breve pianto. La sua testa era un ingorgo di paranoie e ansie e, senza volerlo, ripensò a quell’incontro con quel prete, che lo aveva turbato. Si fece una doccia e indossò degli abiti puliti. Prima di uscire di casa suonò con l’acustica due vecchi blues “Devil Got My Woman” e “Preachin’ Blues”. Era quasi mezzogiorno quando gironzolando per il quartiere a luci rosse salutò Melania, una ragazza dai capelli color miele. Incrociò anche altre donne che conosceva, persone dagli sguardi tristi, avidi, allibiti, attoniti. Girò l’angolo e un uomo che teneva in spalla un grosso stereo con  i piedi immersi in una pozzanghera di fanghiglia, sparava musica rock con il volume a palla. Dion amava l’America e quelle strade che erano il luogo dove era cresciuto, anche se c’era puzza di piscio, merda e ali di pollo fritte. Ad un tratto, qualcuno gli lanciò un petardo tra i piedi che lo spaventò  quasi fino a fargli scoppiare il cuore. Mezzo isolato più avanti nel locale di Nick Gentile, un suo amico siciliano, si sedette e bevve una birra. Da dietro il vetro della cucina il cuoco lo scorse e gli mandò un piatto di polpo bollito, condito con olio, pepe e limone, perché sapeva che gli piaceva. Ma lui lo toccò a malapena. Guardò fuori oltre la soglia le strade della discriminazione. Doveva in ogni modo trovare il rispetto per se stesso, si ripeté scendendo lungo il marciapiede. 


         Each time I jumped behind the wheel of a pin-striped custom Oldsmobile. The guys would bow and the girls would squeal. King of the New York streets. Local bullies i deflated. Back street jive that i translated. Top ten girls were all that I dated. King of the New York streets. I didn't need no bodyguard. I just ruled from my backyard. Living fast, living hard. King of the New York streets. Well, I was wise in my own eyes. I awoke one day and I realized. You know this attitude comes from cocaine lies. (Dion - King Of The New York Streets)
 

         Dion DiMucci era nato nel quartiere del Bronx in una famiglia italo-americana. Da piccolo accompagnava il padre per i teatri, un cantante di vaudeville, di quelle commedie leggere in cui alla prosa vengono alternate strofe cantate. Era giovane ed amava divertirsi, anche se doveva tenere a bada il suo atteggiamento da bullo, che tante volte lo aveva messo nei casini. Quando ascoltò il country di Hank Williams e il blues del Delta, il suo cuore prese a  battere forte, perché quella musica era un sogno attraverso cui finalmente guardare il mondo. Dion And The Belmonts erano formati da: Angelo De Leo, Fred Milano e Carlo Mastrangelo, tutti giovani bianchi italo americani, suoi comuni amici. Il nome lo presero da una via del Bronx, e divennero famosissimi  negli anni cinquanta infilando un successo dietro l’altro: “I Wonder Why”, “Teenager In Love”, “Where Or When”, “When You Wish Upon A Star”, “No–One Knows”, ballate rock melodiche, vocalmente elaborate, che vendettero all’epoca ben sette milioni di dischi.

         La casa era buia, tirò la tapparelle della finestra e gli scarafaggi corsero nell’angolo. Accese la radio. Ora devi andartene, prendi quello che ti serve quello che pensi possa durare Ma qualsiasi cosa tu decida di conservare, faresti meglio ad afferrarlo in fretta Ecco laggiù il tuo orfano con il fucile che piange come un fuoco nel sole I santi stanno arrivando ed è tutto finito ora, bambina triste. (It’s All Over Now, Baby Blue- Bob Dylan). Sul suo viso si formò una strana smorfia.


         Non ci vuole molto a costruirsi un inferno. Era andato a comprarsi una dose ma il il pusher era stato ammazzato sotto i suoi occhi. Era scappato via terrorizzato e adesso il suo cuore batteva all’impazzata, tanto che non riusciva neanche a parlare per lo spavento. Quello che desiderava era solo allontanarsi da lì, prima che giungesse la polizia. Una tipa che aspettava l’autobus si accese una sigaretta, nello stesso momento che una vecchia e malandata Buick, guidata da un nero corpulento, gli passò vicino quasi sfiorandolo. Aveva il gelo addosso. Alle quattro del pomeriggio l’autobus arrivò alla fermata, gocciolante di pioggia.


         Nel 1959 Dion e i suoi Belmonts rischiarono di salire sull’aereo che, schiantato al suolo, causò la morte di Buddy Holly, Big Bopper e Richie Valens. Si salvarono solo perché, non potendo permettersi la somma da pagare, proseguirono in pullman il loro viaggio. Dopo aver sciolto i Belmonts nel 1960,  Dion intraprese la carriera solista, raggiungendo un successo ancora maggiore con brani come ”Runaround Sue” ”The Wanderer” e ”Love Came To Me” che dimostarono che il successo avuto era dovuto alla sua bellissima e personalissima voce. Non andava da nessuna parte, lui, senza la musica. “Oh Baby Please Don’t Go Down To New Orleans You know I love You So. Before I Be Your Dog I Get You Way'd Out Here, And Let You Walk Alone. La città era inondata di fango per la pioggia torrenziale che si era abbattuta in quei giorni. Camminava di fretta, mettendo i piedi nelle pozzanghere, ma era stanco e voleva trovare un rifugio in cui nascondersi. 


         Entrò in chiesa e prese posto in una panca in fondo alla basilica, appena in tempo per assistere al finale della funzione. Pregò per se stesso e questo lo rincuorò un poco, ma non gli tolse di dosso quella tristezza che lo aveva preso in custodia. Don Angelo si avvicinò e gli strinse la mano senza lasciarla andare. Lo guardò fisso negli occhi e notò la sua espressione afflitta e gli diede un buffetto gentile sulla guancia, ma non fu un gesto di semplice cortesia. Dion lo percepì. Non sapeva come comportarsi, non era mai stato in chiesa né tantomeno a colloquio con un prete. Ma quel sorriso che aveva di fronte gli riempì il cuore di una serenità sconvolgente. I Beatles inclusero Dion nella copertina del loro album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts”. Una luce accecante lo svegliò, era quella del lampadario che aveva dimenticato acceso. La pioggia aveva smesso di cadere. Rimase sdraiato ancora un po’, poi si alzò. In cucina si versò un bicchiere d’acqua e si sedette al tavolo, aspettando che il caffè uscisse. Gli dolevano il collo e anche le spalle per la tensione che aveva accumulato, e si scrollò come per rimuovere quel peso dal suo corpo. La droga gli aveva rubato la luce dal suo cuore, ed era in preda alla paranoia che lo portava al pianto, alla veglia, dentro pensieri terribili. Era un silenzio interiore difficile da reggere per chiunque. Aveva bisogno di parole di speranza per potercela fare a scampare da quell’inferno. Forse era un po’ matto. Ma chi non lo è? Nel 1968 Dion prese a suonare folk-rock e scrisse canzoni in collaborazione con Tony Fasce. Nello stesso anno la sua casa discografica gli impose di cantare Abraham, Martin and John”, una canzone scritta da Dick Holler in memoria di Martin Luther King. Il brano ottenne il disco d’oro ed il quarto posto nelle classifiche di vendita. Il pezzo è contenuto nell’album “Dion”, che è uscito sempre in quell’anno e dove si possono ascoltare cover di brani di Leonard Cohen, Fred Neil, Joni Mitchell, Lightnin’ Hopkins, e Jimi Hendrix.


         Le cose di sempre si possono vedere anche in maniera diversa, basta avere nuovi orizzonti ed una fede che ti sorregge. Dion aveva trovato consolazione in Cristo e nella sua misericordia. Noi uomini con le nostre debolezze alle volte siamo come Giuda, altre volte come il ladrone. Ci smarriamo nei nostri labirinti, andando incontro ai nostri demoni dai quali rischiamo di non tornare più indietro. Ma questa volta la carità di Gesù’ gli aveva teso la mano, ricordandogli chi era davvero e perché era al mondo. Sentì un formicolio alle mani e gli occhi che gli bruciavano. Qualche volta non ci si accorge di cadere, se non quando si è a faccia in giù. Nel 1975, in cerca di rilancio, pubblica “Born To Be With You”, un disco prodotto da Phil Spector. Un album introspettivo di un uomo che è avanzato nella sua anima, piena zeppa di infermità, afflitta da scelleratezze che ha compiuto e che ancora lo continuano a terrorizzare. Pazzi, vagabondi, eroi, cicatrici sul corpo che non vanno via. Imbroglioni, spie, e gente senza identità. Il juke box attaccò la canzone e rivide un’epoca intera sotto i suoi occhi. Rock ‘n’roll, canzoni pop, doo woop, ragazze tristi e ragazze allegre. Non si può ignorare la musica che ti martella nell’anima, e tra la folla annusò l’odore dei fiori. Adesso canta con gli occhi spalancati sul mondo, per dire quanto il mondo lo ha spaventato. “Born To Be With You” resta uno tra i suoi dischi più belli.


         Salì per le scale che c’era odore di sigaretta, erba e disinfettante.  Aprì la porta d’ingresso di casa e non appena dentro, avvertì dei passi veloci nel corridoio di sopra e qualcuno gridare. “Che cosa c’è che non va, nelle nostre vite incasinate?”, si chiese. Prima ti illudono e poi ti sparano su per il buco del culo. Era una giornata nuvolosa, e si lasciò cadere sulla poltrona ma questa volta era lucido e vigile. Il suo amico Lou Reed glielo aveva sibilato che quella non era una strada da percorrere perché era tutto buio in quel sentiero. Si sa come funziona, prima è la curiosità a spingerti dentro, dopo è solo la stupidità a farti restare. Dion ha fatto una carriera incredibile con dischi pubblicati da songwriter, che fanno sbiancare anche i nomi più altisonanti del cantautorato americano, per quanto sono belli e preziosi. Ma lo sappiamo che il mondo è sempre ingiusto con i buoni, anche se questo non ci basta a giustificarne le ragioni. Dion finì in fretta la birra. L’inquieta band lo aspettava sul palco, sapeva che, una volta che lui fosse andato su, lo spettacolo sarebbe esploso. Il basso pulsava frenetico e il ritmo si fece sempre più incandescente. Si aggiustò il berretto e qualcuno cominciò a ballare. Quando fu davanti al microfono sentì le orecchie che gli pulsavano nel cranio, ed ebbe anche le vertigini. Il sassofono srotolò delle note in un’atmosfera che ormai era diventata magica. Tutto il pubblico era in piedi e aspettava impaziente che lui cantasse. Li guardò per un lungo istante e i suoi occhi si trasformarono in quelli di tutti loro. Nemmeno gli angeli, pensò, potrebbero consolarmi più di così. One, two, tree, four. La zanzariera inchiodata alla parete copriva la finestra aperta,e la luce gialla della strada illuminava la stanza. Bevve l’ultima goccia di whiskey, si accese una sigaretta, e fece ripartire per l’ennesima volta “(I Used To Be A) Brooklyn Dodger”. Quando sei a casa finisci sempre per consumare le carte. Seduto da solo davanti alla finestra. 



Bartolo Federico

venerdì 11 aprile 2014

Cani Randagi

La famigliola aveva trovato alloggio sulla carcassa bruciata di un vecchio furgone Volkswagen. Chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro gli aveva invece pignorato la casa e gettati senza pietà nella disperazione più cupa. Si dice che quando gli avvoltoi si posano su un albero quell’albero comincia a morire. “Arrangiatevi!” ripeté il solerte funzionario dell’Agenzia di Stato, non trattenendo un ghigno di soddisfazione verso quella donna che lo supplicava, già chiedendosi come avrebbero fatto adesso senza più una dimora. I poveri sono sempre lasciati da soli. Ed essere soli è come allenarsi a morire. Del resto, anche il mondo fa sempre finta di avere comprensione per i poveri, ma, se sparissero in un botto, i ricchi farebbero salti di gioia. Insomma, ci sarebbero meno esseri spregevoli in mezzo alla strada a chiedere l’elemosina, a vivere di espedienti. Perché ai poveri nulla è concesso se non di crepare. Sono esseri depressi, irritabili, pulciosi. Gente che scivola nell’alcool, che ruba e cammina sbandando. Che non si lava e puzza maledettamente. Solo ad alcuni di loro è concesso di lavorare e così questi disgraziati fanno di tutto per piacergli, per lasciarli contenti a quelli benestanti. Sperando in chissà cosa. Ci vogliono uomini tristi per cantare il blues. C’è la fila lì fuori.
Sonny Boy inizia a usare fraseggi complessi e articolati con uno stile molto pulito, che egli colora con effetti propri. Adopera l’armonica come un prolungamento della voce ed è il primo ad inspirare invece che soffiare dentro la griglia, utilizzando,  come mai nessuno, le mani e la lingua per modulare le note. Ne esce fuori un suono selvaggio, riconoscibile da subito. Sonny Boy Williamson, insieme a Blind Lemon Jefferson, Robert Johnson e Blind Boy Fuller, fu uno di quei re del blues che morirono giovani. Lo trovarono per strada, riverso in una pozza di sangue, con un punteruolo per ghiaccio conficcato nella tempia. Quel sorriso contagioso che spandeva quando suonava si era tramutato in una smorfia di dolore. Chi lo vide per l’ultima volta raccontò che stringeva ancora l’armonica tra le mani. Con il successo Sonny Boy stava ringiovanendo dentro, stava perdendo per strada le menzogne e quella paura di dovere obbedire che gli era stata inculcata sin dalla nascita nei campi di cotone. Troppa grazia per uno nato povero e per di più di colore. Laggiù nel Delta dicevano: Uccidi un negro ne trovi un altro; uccidi un mulo ne compri un altro..
Quel giorno era come se non ci fosse, appannato com’era, sotto i banchi di pioggia. Al centro di riabilitazione per ex alcolisti, mi avevano suggerito che dovevo ripartire da quello che avevo, che dovevo fermarmi, perché la strada mi avrebbe consumato. Me lo ripeterono all’infinito di piangere quanto ero capace, stando a loro mi avrebbe fatto bene. Tornando a casa posteggiai l’auto e, non so per quale strano motivo, mi sedetti sulla banchina sotto la pioggia con il bavero della giacca alzato.
Le canzoni sono come sogni sognati ad alta voce. Così, mentre guardo le nubi minacciose che incombono nuovamente nel cielo, la melodia struggente di Please Be With Me mi fa credere di essere come davanti a uno specchio offuscato dal vapore che quando con un panno lo togli ti offre il tuo riflesso. E’ l’amore o sono io a cambiarmi così velocemente? Guardo fuori, mi sento libero, mi siedo sul letto, immagino le cose che sono state... 
...Il Magro tirò dalla sigaretta e il vento gli portò via il fumo a fior di labbra. Restò a fumare li sulla porta del club. Aveva appena finito di far piovere poesia con la sua magica chitarra, sempre addosso, sempre il suo portafortuna. Quando finì di fumare, con un gesto brusco lanciò via la cicca che, sbattendo sul muro, formò un fascio di scintille che gli sembrarono piccole stelle. S’incamminò sulla stradina laterale e nel buio pesto della notte sparì per sempre.

Lei trafficava in cucina preparando la cena, quando, ad un tratto, disse senza guardarmi: “non avrei mai pensato che la nostra vita potesse ridursi a questo”. Stavo alla finestra scrutando la pioggia cadere. E mi sentii impotente e vuoto come un tamburo. Così me ne restai in silenzio ad ascoltare il rumore dell’acqua che batteva sul colatoio di metallo. Eravamo stati giovani, ribelli, pieni di speranza e fiduciosi. Tutte cose che il tempo forse si era inghiottito in un botto. Cenammo senza dire niente. La pioggia non aveva smesso di ruzzolare e dall’altra parte del vetro non si vedeva più nulla. Sapevo che niente era più al suo posto, che tutto era cambiato. I soldi se ne vanno alla svelta quando non ne entrano altri. Così l’acqua alla gola ce la si trova all’altezza del naso. Forse mi sarebbe bastato lavorare di più in estate e tutto sarebbe andato per il meglio. Dicono che quando piove è la volta che un uomo ha il Blues. (Rainy Day Blues - Lightnin’ Hopkins). Appena finito di cenare mi sedetti vicino la finestra e accesi una sigaretta. Soffiai il fumo sul vetro che si intorbidì. E nel silenzio di me stesso, quasi fosse un gospel, cantai i versi di quel blues, quel vecchio blues che mi portavo appresso come un talismano: Il sole splenderà sulla mia casa un giorno, il vento si alzerà e porterà via il mio blues, porterà via il mio blues… (Seduto Sotto La Pioggia Ho Avuto A Che Fare Con Il Diavolo tratto da Viaggiatori Nella Notte)



martedì 8 aprile 2014

Un Dolore Dietro Agli Occhi.

Alle volte la vita è davvero complicata, pur rompendosi in brandelli quel faro di luce pare che resti sempre acceso sulle nostre piccole miserie. La radio stava per trasmettere musica per i perdenti, così annunciò lo speaker che prosegui dichiarando che quella notte era a tutti loro dedicata. Facciadiluna strizzò gli occhi per non farsi sopraffare dal sonno e accelerò leggermente. If you ever change your mind. About leavin', leavin' me behind. Oh, oh, bring it to me. Bring your sweet lovin'. Bring it on home to me, oh yeah.
La camera dell’hotel Imperial era come quella di tante pensioni a buon mercato sparse per il mondo. Un letto di legno con la formica marrone scorticata e annerita dal tempo. Una lampadina sotto un paralume di lamierino e un armadio di legno lo stesso colore del letto. Si accomodò sulla sedia e si accese una sigaretta. Poi si tolse il cappello. Non mi serve la tua compassione chi fugge dice che le strade non sono più per i sognatori I cacciatori di taglie e i fantasmi che vendono ricordi vogliono anche loro una possibilità
            Dischiuse gli occhi in preda agli incubi che era ancora in quella stanza orribile con la luce della lampada accesa. L’aveva sognata che lo accoltellava, aveva visto le sue mani e la lama del coltello trafiggerlo. Il suo vestito si era macchiato del sangue che davanti usciva copioso dal suo ventre. Lei continuava a fissarlo con quegli occhi freddi aspettando solo di sferragli il colpo di grazia. Erano stati insieme molte volte, avevano fatto l’amore in maniera selvaggia, e anche feroce, fino a perdersi. Ma la paura gioca brutti scherzi e riesce a trasformare due amanti in perfetti estranei. Quello era il suo unico amore, un amore alla rovescia. Era una solitudine senza fine, la loro.
Dopo un po’ l’amore, come molte altre cose, finisce di ardere, rimuginò azionando la manovella dello sciacquone del bagno e guardando l’acqua scendere giù nel buco nero. Prima di rimettersi a letto, inghiottì un lungo sorso di bourbon dalla fiaschetta. L’alcol era la sua cintura di sicurezza, il suo antidoto per il panico. Solo che andando avanti in quel modo alla fine la sua mente si era annebbiata e non sapeva più come distinguere i sogni dalla realtà. Restò riverso sul letto  in preda alla confusione senza arrivare in alcun modo a fare chiarezza dentro di sè. La radiolina accesa sembrava che gli stesse parlando e tastandogli il polso con il sax di John Coltrane che suonava Violets for Your Furs. All’improvviso ti aggrappi ad una speranza, ad una nuova possibilità di salvezza. Non tutti lo sanno ma, mentre si affonda, si continua a nuotare muovendo spasmodicamente i piedi e spostandosi dal nulla verso il nulla. È banale dirlo, ma nasciamo come moriamo, sempre soli.
  Lei si era girata per andarsene quando aveva capito di che pasta era fatto. Lui l’afferrò da dietro le spalle, ma era come un gesto di preghiera, di supplica, affinché non andasse via. Un tentativo di tenere con sè l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo. Erano due strade che si erano incrociate e per un po’ diventate una cosa sola. Ma quella maledetta paura li aveva separati. Quella paura di non farcela, di dovere giustificare sempre tutto e tutti, si era trasformata in rabbia e man mano in odio.Riempì il bicchiere fino a tre quarti. La radio a pile sempre accesa sul comodino borbottava un blues di John Lee Hooker. L’avevano visto insieme quel film di Jean-Luc Godard Fino All’Ultimo Respiro, uno dei titoli mitici della Nouvelle Vogue. Gli era sembrato di assomigliare a Michel Poiccard, il protagonista. Un pazzo che per sopravvivere si era tuffato nella notte mescolando realtà e sogni. Una vita che aveva un doppio fondo, di chi vuol vivere senza limiti e si spinge sempre oltre fino ad azzerarsi. Proprio come era successo a lui.
 Sul rettilineo il posto di blocco della polizia era ben visibile. Facciadiluna scrutò il cartello per capire dove si trovasse. Era nuovamente pronto a colpire senza esitazione. Proseguì a rilento fino che non arrivò a cento metri da loro. Quando gli intimarono di fermarsi afferrò la pistola e, brillando di pioggia, diede gas.
(Facciadiluna tratto da: Viaggiatori Nella Notte)


venerdì 4 aprile 2014

Cuori Senza Riposo

Mi ero imbottito di quei blues scontrosi e poco confortanti, che amavo ascoltare quando volevo fare chiarezza con me stesso. E siccome queste cose mi accadono sempre di notte, per dimostrare quanto ero forte, mi ero lavato le ferite e stavo sprofondato nell’ombra, in attesa dei primi colori dell’alba, che chissà perché tardava a venire. Avrei dovuto sistemare quella porta del bagno che cigolava fastidiosamente ad ogni colpo di vento, pensai, intanto che accendevo una sigaretta e tiravo qualche boccata. Era una notte anonima e senza sfondo, una delle tante notti che avrei preso volentieri a calci se le mie ossessioni non avessero deciso di assalirmi e vendicarsi per i soprusi e le angherie a cui le sottoponevo.
Da un po’ di tempo a questa parte si era aperto un conflitto d’interessi tra me ed i miei chiodi fissi; avevamo avviato il conto alla rovescia, per vedere chi si fosse arreso prima. Mentre brancolavo, decisi che questa volta non sarei fuggito, ero pronto a sfidarle in un duello all’ultimo sangue, come quelli che avvenivano tra pistoleri nel polveroso west. Fu così che mi ricordai di Lone Wolf, il Re della Solitudine, il mio eroe dei fumetti di quando ero bambino e leggevo l’Intrepido nella veranda di casa di mio cugino Alfio. In un attimo mi trasformai in lui. Con il poncho e il cappello calato sulla fronte, tirai un risolino stanco e vuoto, un risolino da lupo ed aspettai paziente che facessero la prima mossa. Stavolta le avrei sbirciate con un ghigno di disprezzo e fulminate all’istante, non appena avessero allungato la testa. Con il mio Winchester in acciaio brunito.
Mi ero messo ad aspettarla, con la bocca impastata di nicotina, ed un freddo nelle ossa che mi faceva battere i denti. Ci avrebbe pensato Bob, come sempre, con le sue parole, a tenermi compagnia. Era stata una gran fortuna, averlo incontrato per la prima volta, quel pomeriggio di non so quale anno. Quel pomeriggio che sembrava privo di vitalità, destinato a sparire come altri mille pomeriggi da lupo solitario, si rianimò tutto ad un tratto. Quando Blonde on Blonde, planò sul piatto del giradischi modello anni settanta, la pioggia era venuta giù e la strada luccicava di tutti quei sogni e speranze con cui mi ero riempito le tasche e la testa. Che poi molti di quei sogni non si siano avverati è un’altra verità. 
 Lasciai vagare un sorriso, mentre il vento affrancava il cielo dalle nuvole che l’avevano preso in custodia per tutto il giorno. Una nuova notte era arrivata. Nella penombra, mi feci trasportare dal tempo che passa e ci porta con sè per sempre. Avevo dimenticato molte cose ma altre, ne ero certo, non avevano dimenticato me. Misi su Astral Weeks di Van Morrison e riempii il bicchiere di Jack Daniels n°7. Volevo conservare qualcosa di umano prima di lasciarmi andare al cinismo più esagerato.
 Passavo il mio tempo a girare in tondo, forse avevo bisogno di sole, di calore, di una nuova pelle. Lei era arrivata. La vidi dalla finestra posteggiare l’auto. Era vestita alla moda, stretta nel suo impermeabile nero, i capelli raccolti sotto il basco di lana con un ciuffo ribelle che le fuoriusciva da un lato. Aveva fascino. Quel fascino, neppure troppo discreto, di chi sa che ha delle carte da giocarsi. Scese in fretta dall’auto e per non bagnarsi dalla pioggia velata che cadeva sulla città, camminò sicura a grandi passi verso il portone di casa. Mi affacciai al balcone e la pioggia mi calò lungo la faccia. Una faccia divorata dalla tristezza, come quella di Leonard Cohen.
Entrò in casa sfoggiando un sorriso a buon mercato. Andò in cucina e tornò con una tazza di caffè, si sedette sulla poltrona davanti alla mia e, fissandomi con uno sguardo che mi trapassò da parte a parte, disse: “da come sei conciato non esci da giorni. Che ti succede? Hai davvero una brutta faccia!”. Si comportava con arroganza, come avevo fatto  anch’io con la vita. 
  La guardai mentre accavallava le gambe; era attraente, ma era bene chiamare le cose con il proprio nome. Era solo una questione di sesso quella che ci congiungeva. Non che la cosa mi dispiacesse, anzi, ma era un gioco al massacro. Dovevo fare attenzione, dosare ombre e luci per essere credibile; e lei doveva essere solo più curiosa e, probabilmente, anche più profonda. Glielo dissi parlando lentamente, a voce bassa, cercando in tutti i modi di non ferirla. Mi versai un dito di whisky per non cedere allo sconforto.Era andata via così come era arrivata. Da quella stessa porta era uscita per sempre dalla mia vita, con un passo lento e senza mai guardarmi negli occhi. Non me lo meritavo. Ma era stata la cosa migliore per tutti e due. Non sapevo fingere, non potevo sempre essere in guerra con tutto e tutti. Mi sentivo stanco, sfinito, e avrei voluto dormire. Misi un cd di Willy il lupo mannaro e mi abbracciai alla pioggia che continuava a cadere. E intanto che lui cantava con la sua voce rotta dall’emozione quelle note per un amante assente, mi addormentai.
(Lupo Solitariotratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

giovedì 3 aprile 2014

Un Nuovo Giorno

Oggi è sabato e il tempo è incerto. Dalla mia finestra guardo il sole che sta scemando lentamente dietro la collinetta e sono quasi ubriaco. Il telefono continua a squillare ma me ne sto fermo su questa sedia a cercare di afferrare il significato delle cose che seguitano a sfuggirmi. Così, senza accorgermene, finisco per scolarmi la bottiglia di vino da due euro al litro. Desidero andarmene da qualche parte, è da tempo che voglio cambiare aria perché a stare fermi le cose peggiorano di giorno in giorno. Tengo le palpebre strette, il capo reclinato e intanto penso che non ho mai fatto realmente parte di questa società e che il distacco tra me e il mondo si fa sempre più grande. Ma è solo colpa mia se adesso non riesco più a tenere a bada l’inquietudine. Ho i capelli arruffati e la faccia tirata. Mi alzo e vado in cucina a bere un bicchiere di acqua minerale. Qualcuno suona alla porta di casa, lo mando affanculo, che non mi rompa i coglioni chiunque esso sia. Per il momento ho voglia di dormire e che mi lasci a sudare e imprecare mentre qui da solo impazzisco. 
 “Deve fare il furbo per riuscire a farcela in questo mondo” mi ripete lo strizzacervelli della mutua. Per un attimo mi guardo allo specchio che sta sulla parete proprio di fronte a me. Il foulard di seta legato al collo è assai simile a quello che usavo quando avevo diciassette anni e di cui allora mi servivo per affrontare i miei primi giorni di pioggia. Ho ancora i capelli lunghi alla Jim Morrison, sono vestito di nero e porto scarpe a punta di camoscio, come quelle che aveva Bob Dylan in una foto scattatagli  durante gli anni sessanta. E mi sento spacciato. Con questa faccia da stupido che mi ritrovo dove vuoi che vada, penso. Forse ad inseguire la pazzia della notte per poi restarmene supino a guardare il soffitto mentre ascolto la pioggia cadere.
 Esco dall’ambulatorio con l’inventario delle mie disgrazie, e decido di andarmene a zonzo per la città. Arrivato nei pressi del porto, un gran via vai di militari mi mette in allarme e, siccome sono assai allergico alle divise, nella confusione che si è creata tento di cambiare rotta ma, dopo un occhiata un po’ più attenta, capisco che non ho nulla da temere, che è solo una parata militare in memoria di non so che cosa. Ascolto la fanfara suonare l’inno nazionale, poi mi accendo una sigaretta e sputacchio di lato. Ci sarà sempre la guerra e ci sarà sempre gente pronta a scannarsi. E in quell’istante prendo nota che ho perso l’ultimo scampolo di fiducia, l’ho cacciata da qualche parte ma non ricordo più neanche dove. Forse l’ho spinta in fondo al corpo insieme alla speranza e l’ho mandata giù talmente in profondità che è finita nell’intestino insieme alla merda.
 Nel corso della notte mi sono svegliato più volte con l’angoscia che mi attanagliava il cuore. E alla fine ho deciso di non dormire più, tanto i miei incubi avrebbero continuato a perseguitarmi e non me lo avrebbero permesso neppure se avessi voluto. Come chiunque, ho sempre fatto molti errori ma non ho mai cercato scuse o trucchi per difendermi. Forse non ho mai spiegato fino in fondo cosa mi accade dentro, ma è sempre stato troppo faticoso. Così, mi sono sequestrato da solo e sono rimasto in silenzio. Non ho rimpianti per questo, perché dovrei averli adesso che sono come una vecchia abat-jour posata sul comodino ad illuminare i ricordi. Adesso che intorno a me vedo solo i pezzi di un uomo sparpagliati per la stanza.
 Cammino su e giù per la stanza e tutto mi sembra una fregatura. In cosa si sono trasformati i miei sogni non lo so più. Certo ci sono un sacco di persone sbronze come me a quest’ora della sera. Da dove comincio allora? Forse da quel libro che devo scrivere. Mi riempio il bicchiere mentre una fredda tristezza mi attraversa il cuore. L’ho imparato su me stesso che quando si cammina dal lato infernale non si torna più indietro. È una notte molto buia e sento le sirene nella strada. Credo che lascerò dondolando questa città. 
(Pezzi Di Un Uomo tratto da: Viaggiatori Nella Notte)