sabato 25 ottobre 2014

Portami A Ballare




Intanto che la radio strimpellava una canzone, fumavo standomene seduto con i piedi appoggiati sul cassetto più basso della scrivania. Aspirai profondamente e tirai fuori il fumo, facendogli fare le nuvolette indiane. Mi sentivo come anchilosato su quella sedia, ma non avevo altro da fare. Girai lo sguardo nella stanza, toccandomi la gamba intorpidita. Sul divano di pelle ormai scrostato, c’era appoggiata la mia Gibson J45. Sulla parete rivestita con carta da parati a fiori rosa, erano appese delle foto in bianco e nero che ritraevano la mia famiglia al gran completo. Spensi la radio e con uno scatto repentino mi alzai, restando fermo in piedi. Lo avevo imparato nel corso del tempo, che solo certi uomini ottengono quello che vogliono. E mi ricordai di come avevo immaginavo che sarebbe stato il mio mondo. Di come avevo sognato che mi sarebbero andate le cose. Ma alla fine tutto era rimasto solo nei miei deliri. Niente di particolare.
  
Syd Barrett era un musicista che sconfinava in territori inconsueti. Un tipo fuori dal coro, che però sapeva guardarsi dentro con onestà. Disegnava ombre con la musica, e fu il genio creativo del primo album dei Pink Floyd. Tutti però credevano che fosse solo un pazzo, e  anche tonto. The Piper At The Gates Of Dawn vide la luce nel 1967, ed è un disco ripudiato da tutti quei fan audiofili dei Pink Floyd appassionati di dischi come Dark Side Of The Moon, o Wish You Were Here. Colori acidi e rumori, immagini, campanelli, sveglie a cucù. Un flusso di sensazioni che servivano per aprire le porte della percezione. Musica che andava oltre lo specchio. E’ in questi solchi che si è consumata una generazione di cantautori, che hanno colto il lato poetico e visionario, di un viaggiatore dell’anima. Robin Hitchcock fra tutti. Spensi la sigaretta schiacciandola nel posacenere. Un'ombra furtiva si accartocciò sul divano e s’infilò nella buca della chitarra. Mi versai una tazza di caffè dal thermos, e mi rimisi a sedere. Non avevo mai pensato che Syd fosse pazzo. No. Niente affatto. 

Lucifer Sam, gatto siamese siede sempre al tuo fianco Sempre al tuo fianco Quel gatto è qualcosa che non so spiegare Jennifer Gentle sei la strega Tu sei il lato sinistro Lui è il lato destro Oh, no Quel gatto è qualcosa che non so spiegare.(Lucifer Sam)


Lo uccisero le cattive abitudini a Lester Bangs, un figlio di puttana che scriveva di musica. Un critico scomodo, polemico, e controcorrente, per la grande industria del rock degli anni settanta. Uno che voleva emulare fin troppo le cattive abitudini di Lou Reed. “Il più grande bastardo autodistruttivo che conosceva”. Innamorato com’era del rock’n’roll, incise anche un disco amatoriale nel 1981 a nome di Lester Bangs and the Delinquents. Morì nel 1982 a soli trentatre anni, per un overdose di Valium e Darvon, mentre ascoltava Dare degli Human League. Certo che fu davvero sfigato a crepare accompagnato dalla musica di quell’album, che suonava del pop elettronico commerciale. Se solo lo avesse saputo, si sarebbe  ascoltato  Rock’N’Roll Animal. 


Quando mi era mancato il lavoro avevo cominciato ad arrangiarmi con i risparmi che avevo raccolto. Ma ben presto mi ritrovai con le spalle al muro, e fui costretto a tornare da mia madre nella casa che mio padre le aveva lasciato. All’inizio la nostra convivenza fu alquanto difficile. Poi quando smussammo certe asperità, le cose presero ad andare molto meglio. Per non sentirmi troppo di peso  facevo la spesa, il bucato, e preparavo da mangiare. Lei si ritrovò più tempo da dedicare ai suoi gatti, alle amiche, e alla tivù. Il sabato sera andava a ballare con il gruppo dei parrocchiani, e rientrava sul tardi, quasi sempre un po’ brilla. Le persone più infelici probabilmente sono quelle che hanno ottenuto quello che hanno voluto. La gente s’incazza e si lamenta, ma a me non me ne importa più nulla. Ho imbracciato la chitarra, e suonato St. Charles dei Jefferson Starship. Lascia che ti racconti un sogno, Tu sai che nel sogno l'ho vista. Oh, San Carlo canta, e canta l'amore. San Carlo parlami stanotte, vorresti parlarmi d'amore?” Dopo ho acceso lo stereo e la luce della lampada sopra la scrivania. 


Se per un qualunque motivo fosse necessario definire il rock Who’s Next degli Who è perfetto per capire cosa significhi suonare questa musica. Daltrey, Entwistle, Moon e Townshend nel 1971 hanno firmato uno dei migliori dischi di sempre. Una cosa che mette quasi in imbarazzo per la bellezza sconvolgente, e impetuosa, che possiedono ancora queste canzoni a distanza di quaranta anni. Quando le ascolti capisci che non sai un cazzo. Ecco forse basterebbe ripartire da qui, perché il rock riconquisti un nuovo interesse. Una volta erano molte le cose che mi facevano paura. Molte più di adesso.


Un sabato sera accompagnai mia madre a ballare, aveva talmente insistito che mi sembrò scortese rifiutare. Quando arrivammo la sala era già piena. Sulla pista affollata le persone sembravano divertirsi. Lei con il suo arzillo accompagnatore, si mise subito in moto. Restai un po’ a guardarli poi mi accomodai al bar, ordinando un doppio whiskey liscio. Come ballerino non ero mai stato un granché’. “Che ci fai qui?” mi disse Leandra, sorridendo e aggiustandosi gli occhiali sul naso. Stava ritta davanti al mio tavolino. Mi alzai e l’abbracciai invitandola a sedersi. Era prevedibile che tornando in quei luoghi avrei finito per incontrarla.  Eravamo amici dalle scuole medie, e avevamo avuto una storia d’amore alquanto complicata. Era ancora una bella donna, con un bel portamento, e un modo di fare che ti metteva a tuo agio. “Ho finito per trasferirmi nuovamente qui, quando ho perso il lavoro, la casa, e anche l’equilibrio. Questo è tutto", conclusi. Lei mi guardò stranamente. “Quello che però non hai perso è la tua maschera”. “Hai sempre l’aria di chi non si fida di nessuno”. “Anche questo è vero", annuii”. Ordinai da bere per entrambi, e quando il barista ci portò i bicchieri, ci alzammo e andammo sul terrazzo a fumare. L’avevo amata abbastanza, pensai, da poterla ancora rimpiangere. “E’ cambiato tutto dentro di me Bart. Una volta ero davvero tosta, e credo di non essere impazzita perché il mio lavoro mi ha assorbito in tutto e per tutto. Ma anche questo alla fine è stato un errore. "Ti ho pensato in questi anni, ma mi sembrava un'umiliazione cercarti”. Le sorrisi amaro. Stavamo seduti a chiacchierare con un bicchiere in mano, a rinvangare tristezze. Quando tocchi il fondo tutto ti sembra uguale, ma non sentivo alcun dolore a stare li' con lei. Dopo mi guardò come per chiedermi qualcosa, ma non sapendo cosa, non dissi nulla. Appoggiò il bicchiere sul tavolino e se ne andò a ballare. 


Tornai a casa a piedi, attraversando la notte che si era arrotolata nel cielo, cupa e scontrosa. Ero nella parte nord della città, la parte più ricca. Le case erano nuove, e ben fatte. C’erano centri commerciali, e il vialone era tutto illuminato. Un tempo quella zona era solo campi, e alberi di agrumi. Ci venivo con lei a bordo della mia R4 per farci l’amore. Camminai a lungo fino alla casa di mia madre, e pensai a mio padre. Volevo una vita normale, non mi sembrava di chiedere chissà cosa. Solo una vita normale. Quando rientrai ero ancora da solo. Non avevo voglia di dormire e fumando una sigaretta dietro l’altra, pensai a lei.

Avevo bisogno di musica notturna, semplice, e senza grossi strappi. Qualcosa che mi permettesse di stare con me stesso. Recuperai l’album di esordio dei Dire Straits, e accesi lo stereo. La musica nel suo morbido battere si insinuò sotto pelle. Una volta avevo una donna che potevo dire mia, una volta avevo una donna, la donna è fuggita dove una volta c’era il fiume. Adesso c’è pietra. E' brutto, sai, quando si è soli (Water Of Love). Era il tiro giusto per tastare le mie cicatrici, e per rispondere ai miei quesiti. Quel languido tocco di chitarra mi rendeva meno cattivo. In passato non avevo avuto molta pazienza. Certo potevo fare di più, sapevo anche questo. Ma delle cose a cui tenevo ne parlavo poco, anche a me stesso. Non mi piaceva inventarmi nuove smorfie, solo per stare con gli altri. Cercare scuse, e fare trucchi, che non sarebbero serviti a nulla. Non mi apparteneva quel modo di fare. Quello che avevo conservato erano solo le canzoni, loro sì, che mi avevano aiutato a mantenere quella parte di me che non voleva cedere. 


La mia vita aveva preso una brutta piega, ma era pur sempre la mia vita, e qualcosa significava. Prima o poi, avrei ricominciato di nuovo a respirare. Sentii la porta chiudersi. Spensi lo stereo, e anche la sigaretta. Era stata una notte strana e dura, e non avevo più voglia di arrovellarmi il cuore. Il frigo ronzava, e la luce dei lampioni arrivava fin dentro la stanza. Attesi per vedere se mia madre avesse bussato alla mia porta, e quando non lo fece capi' che era piu' ubriaca del solito. Leandra era ancora dentro di me, perchè negarlo. Fu cosi' che nel tardo mattino mi assopii.


Bartolo Federico

sabato 18 ottobre 2014

Le Canzoni Che Ho Imparato



Il pomeriggio lo aveva passato davanti alla finestra, guardando dal vetro polveroso la strada silenziosa. La grande crisi economica aveva sepolto molta gente sotto il suo mantello di dolore, e la città pullulava di venditori ambulanti, e intrallazzatori. Le persone si aggiravano confuse e pronte a tutto, pur di racimolare qualcosa per tirare avanti. Si sedette sul letto prendendosi la testa tra le mani. Un gesto istintivo che faceva anche sua madre, quando era viva. Dopo un po’  la stanza fu avvolta dal buio. Si alzò fece una doccia veloce arrotolò una sigaretta, e fumando si rivestì. Prese la giacca di pelle appoggiata sul letto, le chiavi di casa, e uscì chiudendo la porta alle sue spalle. Fuori l’aria era fresca. Sotto l’insegna verde del chiosco, scambiò un cenno di saluto con Gertrude Stein, una sua vecchia amica.  In fondo al viale C.W Stoneking suonava il suo blues vagabondo, figlio di quell’incantesimo sonoro che i bluesman del Delta, avevano lasciato in eredità al mondo intero. Quando le strade diventavano buie, quel ragazzo accompagnato dalla sua band la Primitive Horn Orchestra, si lanciava nel richiamo di quelle anime sperdute, che vagavano solitarie per la città. Si fermavano tutti ad ascoltarlo. Persino Orazio il salumiere, un uomo scorbutico e di poche parole batteva il piede, e muoveva la testa a tempo. La sua musica possedeva immagini e suggestioni popolari, che calamitavano l’attenzione come gli accadeva anche ai bluesman negli anni venti e trenta, laggiù nel Mississippi. Alle volte per essere sovversivi basta una chitarra acustica, un banjo, e una voce scorticata dalla vita, che canta con passione storie vere. 


Sono sempre i poveri che ti danno una mano d’aiuto, che ti accolgono in casa loro, che dividono con te qualunque cosa possiedano. La città sembrava un mortorio.  Saracinesche di negozi sbarrate, locali chiusi, e poca gente per strada. Una volta erano i più anziani che parlavano e i più giovani ascoltavano, adesso invece non parla più nessuno, ci si scambia messaggi con i computer, o tramite i cellulari. Faccine e slide, passatempi, anche per qualche cazzone governativo. I vecchi sono la testimonianza di ciò che è accaduto, sanno cose che i ragazzi non possono neanche immaginare, o presupporre. Bisognerebbe ricucire quello squarcio. Camminava nel buio della notte, dove ancora può accadere qualunque cosa. Dei cani gli passarono vicino scodinzolando la coda. Suo nonno era nato sul finire del 1800 e non aveva mai imparato a leggere e scrivere. Nel corso della sua vita aveva visto dei cambiamenti epocali, ma non si era mai confuso davanti a niente. Era rimasto una persona semplice, e di buon senso. Ma quello che non riusci' mai a comprendere, fu la cattiveria e la cupidigia, che serbano gli uomini di fronte al denaro. Quello si, che lo lasciava senza parole.


I Sebadoh, facevano musica come fossero dei banditori che soffiavano nel microfono, prima di un asta. Lou Barlow, Eric Gaffney, e Jason Loewenstein non avevano tutte le rotelle al posto giusto, ma il loro suono carico di nebbia, e malinconia, era assai affascinante. Sapeva prendere percorsi imprevedibili, sgusciare di lato, e sprofondare nell’oscurità. Folk e rock, che si fondono magnificamente con il rumore di chitarre acustiche, elettriche, e voci inclinate che echeggiano direttamente dal sottosuolo del rock, in un paesaggio desolato, spazzato da un vento impetuoso. La domenica mattina ti svegliavi, e ti sparavi quel disco “III” e c’era di che esserne felici. Tenevi gli occhi chiusi e ascoltavi come in catarsi, quelle canzoni. Impossibile capirci qualcosa. In quella confusione avevi come l’impressione, che stavi ancora ficcato di traverso dentro un sogno. Nel sogno. Lui si fermò si piegò in avanti, e appoggio i gomiti sul muretto. Si tolse tabacco, cartine, e filtro dalla giacca, arrotolò una sigaretta e la accese. Mentre fumava osservò la sua ombra disegnata nel marciapiede, e gli fece un sorriso tenue. Lei lo stava aspettando seduta al bar. Il cameriere arrivò con i bicchieri di whiskey che avevano ordinato, e li posò sul tavolino. La ragazza parlava a voce bassa così da costringerlo a curvarsi, per non farsi sfuggire le sue parole. Dopo un po’ gli chiese anche come si sentisse. Lui fece finta di non aver udito, e rimase in silenzio. La ragazza scosse la testa, e bevve un sorso. Capì che non gli andava di parlare. Ma non si sentì offesa per quel suo rifiuto, rispettava il suo volere, e gli fece un sorriso tenue. 



"So Low" di Greg,  Eric,  e Jack Oblivian, non lo sentirete mai suonare per radio. Un combo di musicisti della stessa pasta bastarda di Tav Falco. In quel di  Memphis, una vera è propria leggenda del rock. Nella loro musica vive un mondo passato, che incontra un mondo a venire. È qui che la notte è completamente a suo agio. E’ come se guardassimo dentro un buco profondo, e scorgessimo nelle viscere della terra, qualcuno suonare. Quello che si origlia è un rumore di ossa frantumate, un suono irregolare, come un graffio nel disco di vinile nero. Un colpo di tosse è il rock’n’roll è polverizzato, nel borbottio di una tastierina, o di un sax che spazia in maniera molto free, di qua e di là. So Low è qualcosa che solo l’oscurità può comprendere. La musica è iniziata. Finché non rimane che il fruscio della puntina sul disco. Strizzò gli occhi, perché la luce del neon gli dava fastidio. Forse stava diventando pazzo, o forse lo era sempre stato. Lei era davvero carina, e lui era davvero un coglione. Ma quando il mondo ti cade addosso non hai tempo per l’amore, e per tutte quelle cose che ti fanno raddrizzare i sensi. Si teneva aggrappato ad una fune con una mano sola, ed era pronto a precipitare nel buio per sempre. Lei lo chiamò per nome, e lui si scosse per un attimo da quei pensieri. Aveva gli occhi arrossati, e graffi che non si vedevano. Ma certe cose facevano davvero fatica ad andarsene.


Il mondo è lo spettatore non il protagonista di quello che accade. E non è mai il mondo che cambia, ma sono gli uomini. Le cose a cui teniamo, chissà poi perché ci vengono sempre sottratte. Mentre altre di cui faremmo volentieri a meno, restano attaccate dentro di noi con una capacità di resistenza che lascia sbalorditi. Certe persone non tornano più.  Prima o poi anche lui se ne sarebbe fatta una ragione. Si può sempre chiudere gli occhi e parlarci, ma un giorno anche questo cesserà. E tutto sarà un ombra.

Songs The Lord Taught Us dei Cramps, fu registrato nel 1980 negli studi della Sun Records. Musica sporca e pervertita, che non poteva non piacere ad uno come Alex Chilton, che produsse il disco. I mitici tre accordi del rock’n’roll, qui furono riproposti nella sua forma più nefanda. In quei giorni che il mondo osannava i Police (mai nome piu' brutto, per una band di rock), una schiera di disadattati, di junkies, e bikers, trovò in Lux Interior e nella sexy Poison Ivy le loro star. E quella fu la colonna sonora per andare alla casa del diavolo. In questo disco è presente la lezione di Link Wray, di Robert Gordon, e di tutti i grandi sconosciuti del rock’n’roll , ma c’è anche dell’altro. Con i Cramps si tornava a fare l’amore nel retrobottega, a fumare e divertisi fuori da quel letamaio della cultura rock ufficiale. Gente con il culo a caldo gli sbraitava contro. “Una proposta schifosamente balorda”, “non sanno suonare”. Facevano paura quei delinquenti, con quel suono selvaggio che veniva dal cuore. Per molti i Cramps rappresentarono un monito contro la repressione culturale di certa sinistra, e quel rigore estremo di chi voleva, e ci vuole, tutti uguali intellettualmente. Una forma di difesa sociale, una rivincita dei poveri, degli sventurati, contro quella casta di tranquilli e rassegnati. Lo dicono i vecchi. Quelli che non sanno, devono basarsi su quello che accaduto prima. E’ tutto ciò che non è venuto dall’anima, verrà immancabilmente smascherato. 


Mentre la città si faceva sempre più buia, un taxi si fermò all’incrocio e qualcuno scese. Dalla via arrivarono rumori di clacson. Una pioggerellina leggera iniziò a cadere. Lui guardò al di là dei suoi capelli neri e si appoggiò con le mani al tavolino, come per confessarsi. Non ti mentirò mai. E lo disse con un filo di voce. Lei gli strinse la faccia tra le mani e lo baciò. Dopo si alzarono e si avviarono lungo la strada. Un uomo è sempre nel giusto quando insegue ciò che ama. Sempre.


Bartolo Federico






lunedì 13 ottobre 2014

Specie Sensibile



La notte come una vecchia baldracca era uscita traballante dal suo nascondiglio segreto, occupando qualunque cosa. Non avevo molto da fare perciò me ne stavo seduto nel buio della mia auto fumando e guardando la città. Tutto s’aggiusta nella vita, me lo ripeteva sempre mio padre. Ma adesso non ero più così sicuro di questo. Mi sentivo stanco di gironzolare, di camminare, e non trovare mai niente che mi somigliasse un po’. Accesi la radio per riascoltare un'altra volta Words From The Front, un vecchio disco di Tom Verlaine. La chitarra tagliente di Postcard From Waterloo non fece fatica a conficcarsi proprio dove c’era freddo e silenzio. Nonostante la musica sentì ugualmente dei passi che salivano dal marciapiede, poi pian piano s’affievolirono. E’ sempre meglio non farsi illusioni, serve a non perdere quel poco d’anima che è rimasta rintanata dentro di noi. La vita prima o poi si riprende tutto senza sconti. E’ così quella brutta smorfia che nascondiamo viene fuori, e si mette in bella mostra sul nostro viso, insieme ai nostri fallimenti, le nostre angosce, che solo a guardarci allo specchio diventa una fatica assurda. Days On The Mountain toccò spietatamente alcuni punti deboli rimasti scoperti e mi obbligò a stoppare i pensieri. Una macchina con più persone a bordo per qualche istante si accostò accanto alla mia. Erano quasi le undici e trenta e mi parve che la musica si muovesse inquieta, sotto quell’illusorio gioco di luci che la strada offriva a sua insaputa. 


Da giovane, con i miei genitori e mia sorella, abitavo in una casa in affitto vicino allo scalo merci. Dalla mia finestra potevo sentire a qualunque ora del giorno i locomotori dei treni, che aspettavano il carico per poi scivolare sulle rotaie. Nella città in cui vivevo non accadevano molte cose. Era triste e noioso quel posto, fatto di vecchi fabbricati anneriti dal fumo dell’acciaieria. La maggior parte degli abitanti ci lavoravano come operai, compreso mio padre, e tutti erano iscritti al sindacato. Ma allora le cose sembravano che funzionassero tanto che avevamo comprato il televisore, e la lavatrice, è il frigo era quasi sempre pieno. Ma non tenere gli occhi aperti a quegli operai era costato caro. Poi girarsi di spalle mentre lavoravano duramente li aveva belli e  fottuti. Lentamente giorno per giorno invece di difendere i loro diritti quei ciarlatani di sindacalisti, avevano svenduto le loro tutele, fin quando un  giorno la proprietà li aveva licenziati in blocco. In quattro e quattr’otto avevano smantellato i macchinari, ed erano andati a produrre da un’altra parte. La mattanza sociale sarebbe continuata sulla pelle di altri uomini, di altre famiglie. La città in breve tempo si svuotò tanto da sembrare un deserto. Prima che finissero i soldi della liquidazione di mio padre, andammo via anche noi. 



Tutti i lavoratori di questo paese viaggiano su questo treno dei braccianti e dei lavoratori. Ci sono magazzinieri, camionisti, e ragazzi che guidano le ruspe. Uomini che lavorano nelle acciaierie, nelle fornaci e nelle miniere. Attraverso le fabbriche fumose della città, sulle pianure infuocate di polvere. E gli scompartimenti sono tutti affollati su questo treno dei braccianti e dei lavoratori .( The Farmer- Labor Train- Woody Guthrie)


C’ero cresciuto in quel bar che puzzava di acqua di colonia e sigarette. Era l’unico posto della città dove potevi farti una partita a biliardo, e bere qualche birra. L’interno era gradevole, e gli uomini alla sera bevevano con il mento all’insù. Bruno il proprietario era un ex marinaio, a cui piaceva andare in fondo alle cose. Un tipo stravagante, dall’aria sfacciata, che sapeva sempre come alzare il morale e la temperatura. Un appassionato di musica, che ogni sera ci apriva i cancelli del cielo. Fu mentre che la pioggia cadeva a rovesci sulla veranda del bar, che conobbi i Dr Feelgood. Una band operaia, che suonava del rock blues ad alta gradazione alcolica. Capace d’infuocare la notte in quei luoghi frequentati dal sottoproletariato urbano, da disperati, sbirri e malviventi. Musica diretta al cuore di chi non riusciva a pagare l’affitto, ed era vestita fuori moda. Lee Brilleux suonava l’armonica e cantava, Wilko Johnson chitarrista, era il suo degno compare. Tipi tosti provenienti dai sobborghi londinesi, che fecero da ponte per far traslocare il rock anni settanta, alla rivoluzione punk. Sparavano cannonate dal palco rollando e fumando, le cover di Chuck Berry, Elmore James, e Sonny Boy Williamson. Erano dei selvaggi maledetti e ogni loro esibizione si chiudeva in una rissa. Anche quando incisero nel 1976 il live Stupidity finì sen’altro così. C’è un senso di libertà e vita in queste canzoni, c’è il rumore del vento dentro le armoniche, e le chitarre suonano sincere. Nella mia angoscia, c'era qualcosa che assomigliava a un sentimento.


Don't Point Your Finger è uno dei tanti dischi nascosti negli sgabuzzini  del rock. Un figlio bastardo forse anche minore dei Feelgood, una corrente d’aria fresca. Lo pubblicarono nel 1981 i Nine Below Zero, un gruppo che andò in tour con i Kinks,  e gli  Who, che suonava con grinta e convinzione musica blues e rock’n’roll. Il disco fu prodotto da Glyn Johns uno che ha lavorato con Stones, Who, Faces, Zeppelin, Dylan, J.Hiatt, e tantissimi altri ancora. Mantiene inalterata ancora oggi, la sua carica vibrante e tremolante. E anche  quello stupido orgoglio che ti faceva sentire di una specie superiore, che anche se scaraventato nella notte, riuscivi ugualmente a vedere la luce del sole. Nel cielo azzurro. Non come adesso, che sei precipitato nel gradino più basso delle ombre. 


Seduto dentro la macchina tenevo il braccio fuori dal finestrino. Lo tenni tanto al freddo, che ad un certo punto sentì dei brividi percorrermi la schiena. Dal lunotto posteriore vedevo la strada piena di luci, e l’insegna del motel per cuori infranti. Pensai al mio vecchio amico Sal, un uomo fidato, ormai sparito nel buio. Ci piaceva guardare i treni, e ce ne stavamo distesi sull’erba ascoltando il loro suono. Uuu, Uuu. Da ragazzo era stato il mio unico vero amico. Avevamo condiviso un mucchio di cose. Quel segnale lo stavo sentendo nuovamente nella mia testa, e sono certo che in qualche modo me lo aveva mandato lui. Uuu,Uuu. Nell’ombra sussultano mille cose. Il cuore prende a battere forte, e tutte le idee che ti frullano si sparpagliano nel cielo. Tra le stelle. 


Ero intossicato dal tempo che passa e ti divora. Ma le cose per me, non erano mai cambiate. Avevo fatto un sacco di lavori sottopagati, e anche non pagati. Forse mi mancava il coraggio di andarmene da qualche altra parte. Ma stanotte non riuscivo in alcun modo a tenere gli occhi aperti, anzi mi faceva quasi piacere tenerli chiusi. Era il momento giusto per lasciare che Five di J.J.Cale mi  prendesse con se. Socchiusi la porta del cuore, e lo lasciai entrare con quel suo twang morbido, increspato, roco, sussurrato. Un miscuglio di generi un rimescolamento che fa sussultare, esitare, gemere, come la vita. Mi avrebbe aiutato ne sono certo, anche questa volta, a tenere insieme i miei brandelli. 


Bartolo Federico

venerdì 10 ottobre 2014

"Due litri di latte, tre o quattro pomodori e una maglietta dei Clash, grazie." (dal blog Detriti di Passaggio)



Se non vogliamo essere cooptati, derubati della libertà e privati – nel silenzio – della nostra identità, c’è un solo spazio all’interno del quale possiamo agire e dal quale possiamo muoverci, ed è lo spazio “politico”. Non quello becero e mediocre delle istituzioni, non quello nostalgico e retrivo dell’antagonismo, non quello à la page degli slogan e delle supercazzole.

Lo spazio politico in cui – e da cui – possiamo difendere la nostra individualità, la nostra libertà e la nostra identità è lo spazio culturale: dalla cultura della politica alla politica della cultura. Il primo passo, la prima cosa da fare: informarci utilizzando più canali possibili. Cioè, vincere la nostra connaturata pigrizia, uscire dalla trance mediatica. Disertare i luoghi comuni, ignorare i pacchetti preconfezionati di idee e opinioni pronte per l’uso.

La “cultura” sta diventando il centro di comando dell’economia globale: è in questo spazio che si sta già combattendo la guerra del futuro. Le cosiddette “politiche culturali” sono sempre più centrali nelle nostre vite, spesso a nostra insaputa. Non dobbiamo sottovalutare o prendere alla leggera nemmeno un banale spot pubblicitario.

Col supporto del sistema neocapitalista europeo, l’attuale partito di governo sta mettendo in atto l’oscenità definitiva: il più arrogante e manipolatorio tentativo di rielaborazione della vita, pubblica e privata. Sta tentando di dirci – e imporci – come dobbiamo vivere, perché dobbiamo vivere, ovvero per che cosa e per chi dobbiamo vivere. Pretende di dirci chi dobbiamo essere. Si spinge fino ai confini (e talvolta ben oltre) del moralmente – in senso filosofico – lecito, imponendo subdolamente le pratiche del dominio in nome di una ridicolmente ingannevole giustizia sociale. L’evidenza è palese: la Mediocrità sta prendendo il controllo. Lo stupido tenta di imporsi con la forza, perché non ha altri mezzi.

Stiamo vivendo un momento storico cruciale, decisivo, nella più totale e colpevole apatia, nella più totale e colpevole ignoranza. Il disinteresse verso la politica e la sfiducia nelle istituzione, tanto convenientemente denunciate dal Sistema stesso, sono il risultato – raggiunto – di una campagna di comunicazione volutamente oscura, astratta, complicata e nebulosa. I governi vogliono, perché necessario alla loro sopravvivenza, che i cittadini perdano interesse nella politica.

Noi italiani, che abbiamo da sempre un problema – o vizio – di superficialità, di ignoranza, di presunzione e di mancanza di identità nazionale (ciò che sta oltre il nostro ormai proverbiale orticello personale non ci riguarda), non vedevamo l’ora di delegare democraticamente la nostra rovina a un sistema partitico che continuiamo masochisticamente ad alimentare col nostro menefreghismo. Vogliamo suicidarci, ma per mano altrui. Non abbiamo nemmeno il coraggio di noi stessi.

Ci siamo dimenticati – o ci hanno fatto dimenticare – che questo Paese è stato messo insieme con la forza da una manciata di persone che hanno deciso per tutti contro il volere di (quasi) tutti, e non da un anelito comune del popolo. Ci siamo dimenticati – o ci hanno fatto dimenticare – che in questo Paese si è combattuta un vera e propria guerra civile “travestita” da altro. E ci siamo dimenticati – ci hanno fatto dimenticare – che abbiamo sempre la possibilità e i mezzi per dissentire.
È comodo, facile e italiano essere “tifosi” in cabina elettorale e al bar. Molto meno comodo, molto meno facile e molto meno italiano impegnarsi nel dissenso. Si fa prima a girarsi dall’altra parte per non vedere lo scempio, si fa prima a farsi i cazzi propri, si fa prima a prendere per buoni (“tanto so’ tutti ladroni, ecchecce voi fa’!”) gli slogan marchettari e le supercazzole. Dissentire significa impegnarsi consapevolmente e responsabilmente. E questo noi italiani non sappiamo e non vogliamo farlo.

Serve cultura, dunque. Il cambiamento inizia dalla guerra all’ignoranza. I governi adottano occulte politiche “culturali” di orientamento comportamentale dei cittadini. Nessuno ne è immune. Il cambiamento sociale è studiato a tavolino ed guidato nei modi e nei tempi. Nessun cambiamento vero, concreto e reale potrà mai provenire dalle istituzioni. Le istituzioni cooptano la ribellione e il dissenso mercificandole. Potete comodamente acquistare una bellissima e costosissima maglietta dei Clash, di Che Guevara, e di qualunque altra icona “ribelle”, nell’ipermercato più vicino a voi, assieme all’iPhone 6, all’insalata e al latte. Potete fare finta di essere ribelli, eversivi o rivoluzionari senza infastidire nessuno: il Sistema ve lo permette, e permettendovelo vi disinnesca. Avete pagato l’acquisto di un’icona (Che Guevara, Clash, ecc.) che rappresenta esclusivamente il vostro consenso alla società egemone. Non siete ribelli, siete fantocci.

Tutto ciò che si può comprare è politicamente innocuo. Perché assegnare un valore economico (prezzo) a un presunto “nemico”, significa annientarlo. Per questo la corruzione è la linfa vitale di questo Sistema; e le istituzioni che ipocritamente dichiarano guerra alla corruzione, nei fatti la sostengono e la alimentano. Sanno che la corruzione è l’humus che permette al ciclo vitale neocapitalista di autoperpetuarsi.

Allo stesso modo, la criminalità, piccola o grande che sia, organizzata o occasionale, è parte fondamentale (e fondante) del paesaggio culturale neocapitalista. Serve, da un lato, per alimentare nella mente dei cittadini l’atavico bisogno psicologico di distinguere tra “bene” e “male”, “buono” e “cattivo”, “giusto” e “sbagliato”; dall’altro, serve ai governi per tessere una rete di connivenze necessarie alla sopravvivenza del Sistema stesso.

Il Sistema coopta, dunque, e rielabora qualsiasi istanza di dissenso sociale e politico, e il dissenso “muore” nel momento in cui diventa oggetto di ispezione sociologica e quindi suscettibile di mercificazione; quando, cioè, diventa un “espediente” per vendere.

Se vedete tanti proclami ribelli e slogan di dissenso in ogni forma possibile (film, musica, arte, TV, ecc.) che richiamano rivoluzionari, ribelli e sovversivi del passato, non è perché la società ha preso coscienza di un nuovo modo di essere e ha eletto costoro a icone di un nuova politica. Semplicemente: il “recupero” uccide il dissenso, e il carceriere che vi concede di protestare sa che la vostra protesta non è che l’ennesimo contributo alla derubricazione della libertà. Il dissenso vero, “pericoloso” e agente di cambiamento non attende permessi o concessioni. Nasce naturalmente e si esprime naturalmente. Fin da un attimo prima della nostra nascita, tutto è studiato e predisposto per reprimere in noi questo dissenso naturale e orientare il nostro comportamento verso direzioni prefissate.

Tutto questo è noto, talmente noto da essere diventato abitudine, talmente “abituale” da essere ormai banale. Tuttavia, di tanto in tanto è bene ricordarlo, perché il futuro che abbiamo davanti è distopico, e non sarà una guerra o un’epidemia a sterminarci. Sarà l’abitudine all’ignoranza.

Massimiliano Manocchia