lunedì 30 luglio 2018

Highway 61 Revisited


Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina Blues From Laurel Canyon, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969, anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen… ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat, perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, JackPeter e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me. Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza, alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. I “travellin’ men”, così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un’unica direzione… Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la “città del vento”. Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico… pronto ad esplodere. In questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino. La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di “Then Play On”. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica, come nella migliore tradizione psichedelica, si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato… il blues torna a viaggiare libero e diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dai numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare “Blues On Highway 49” è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte. In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte… e tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre e solo alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay… una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti… ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del “bullo di Arcore” e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori… tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l’ipocrisia. La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. Non m’importa se piove o gela, starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si, ci puoi scommettere che lo sono”Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma a mio agio e mi fermai in uno spiazzale. Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie… e nessuno faceva niente. Chissà perché? Mi sentivo arrabbiato… ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo… ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman, il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric ClaptonBobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un’altra piega. Negli studi del Criteria di Miami, nel 1970 si registrò “Layla And The Other Assorted Love Songs”, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton… ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero. Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai “Blue Matter” dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere… miagolando il blues.

Bartolo Federico

martedì 17 luglio 2018

Buddy Holly: “Blue Days, Black Nights”

Quel tizio aveva lo sguardo vago e il naso rosso ma il tono della sua voce era forte e sicuro. “Noi uomini sterminiamo tutto ciò che c’è di bello e di buono in questo mondo, e tutti siamo colpevoli allo stesso modo. Nessuno è innocente”. Si accese un sigaro e si versò un bicchiere di vino, guardandosi la punta delle scarpe. Per un breve attimo oscillò in avanti quasi volesse cadere, ma fortunatamente si riprese subito. La festa delle seconde nozze di un mio vecchio amico, si stava rivelando più piacevole del previsto. Ci ero andato controvoglia perché ero in una fase in cui non me la sentivo di stare tra la gente, e solo il pensiero di rincontrare vecchie conoscenze per poi finire a rivangare i bei tempi che furono, mi metteva un’assoluta tristezza… ma Ale me l’ero ritrovato sempre nei momenti più difficili, e non mi andava di deluderlo. Così su quel prato inglese di quell’albergo di una famosa località turistica siciliana, bevendo vino bianco ghiacciato, mi ritrovai a conversare con quell’uomo che con esattezza non sapevo neanche chi fosse. “Ho paura, s’interruppe per portarsi il calice alle labbra, si schiarì la gola e proseguì, “ho paura che non resterà più nulla su questa terra di meritevole. Stanno spazzando via tutto con inaudita ferocia e violenza, stanno creando un mondo che è una pattumiera a cielo aperto. Il guaio è che a nessuno sembra importargliene. Di questo passo dove andremo a finire? Ho l’impressione, proseguì avvicinando il sigaro che teneva in mano e poi allontanandolo come per focalizzarlo, che finiremo male, molto male. Quest’universo è amministrato da gente incapace che ha sempre pensato al proprio profitto, e mai al bene comune. Ciarlatani, saltimbanchi, che hanno in mano il destino degli esseri umani. E’ veramente incredibile tutto questo”. Quello sconosciuto era davvero un fiume in piena, s’infiammava e trasudava passione da tutti i pori. Restammo a parlare fin quando due bambini giocando a rincorrersi mi franarono sulle gambe. Li osservai rialzarsi lesti da terra e correre via. Chissà perché pensai alla solitudine degli uomini. Quella solitudine che ci perseguita e ci rende amara la vita. Che ci riempie di dubbi e, man mano che avanza, sgretola le nostre piccole certezze. Come fanno certi blues tristi e dolorosi che ti divorano dentro sin dal primo ascolto, per non lasciarti mai più. La mattina dopo mi svegliai all’alba che ero completamente sudato e senza aver dormito a sufficienza. Era una giornata afosa per cui mi ficcai velocemente sotto la doccia, prima di prendere il caffè. Sotto il getto dell’acqua ripensai alla serata trascorsa, tutto sommato considerai che mi ero rilassato… una cosa che ultimamente mi capitava di rado. Mi asciugai in fretta e scesi in cucina. Mentre preparavo la caffettiera accesi la radiolina, che suonò incredibilmente Peggy Sue. Un brivido mi percorse il corpo, quasi come fosse una scossa elettrica. Una canzone che difficilmente oggi senti per radio. Una canzone che fece conoscere al mondo le stella di Buddy Holly. Che da quando è morto, il rock non è più lo stesso. Questo lo ha detto un protagonista del film “American Graffiti”, pellicola che diresse George Lucas nel 1973… un omaggio alla Sua giovinezza e al rock’n’roll. Buddy Holly nasce a Lubbock in Texas, nel 1936. È un ragazzino precoce con la musica. A quattro anni prende lezioni di violino, e a cinque partecipa ad un concorso per canterini, dove vince un premio di cinque dollari. A dodici anni si compra la sua prima chitarra, dopo aver suonato il pianoforte. Andava ancora a scuola quando con il suo inseparabile amico Bob Montgomery, cominciò a suonare alle feste scolastiche o in casa di amici. La KDAV di Lubbock era una radio country locale che organizzava concerti nei suoi studi e al Cotton Club, una delle sale da ballo più importanti della zona. Hi-Pockets Duncan faceva il disc-jockey in quella radio, e divenne il primo manager di Buddy Holly. Nel 1954, ogni domenica pomeriggio Buddy, Bob Montgomery e il bassista Larry Welborn, suonano alla KDAV nel programma radiofonico “Sunday Party”, mentre alla sera aprono gli spettacoli che si tengono al Cotton Club. E’ davvero difficile dire di conoscersi. Chissà quante vite racchiudiamo in ognuno di noi, che attendono solo di essere vissute… e le cicatrici che ci portiamo appresso, sono come dei marchi a fuoco per la nostra coscienza. Rassettai il soggiorno, e mi misi a scartabellare vecchi scritti di mio padre… che è un modo per continuare a parlarci. Bisogna sempre guardarsi indietro, per capire da dove si viene. Holly è il suo gruppo suonavano e provavano nuove canzoni chiusi nel garage sul retro di casa sua, e fu verso il 1955 che il batterista Jerry Allison cominciò a frequentare Buddy. La musica di Holly sta navigando verso un’altra direzione… e la presenza di Elvis Presley sul mercato discografico favorirà questo cambiamento. Elvis aveva appena inciso per la Sun Records, quando arrivò a Lubbock per una data al Cotton Club, invitato dall’emittente KDAV… da lì i due s’incontrarono. Il giorno dopo quello show, Buddy aprirà il concerto che Elvis terrà per l’inaugurazione del salone della concessionaria Pontiac. Il rock’n’roll è stato solo un’illusione di libertà. E’ servito a contenere le pulsioni di milioni di adolescenti e ammansirli dentro un recinto, concedendo solo qualche salvacondotto, tanto per non inasprire troppo gli animi. Ha camuffato con furbizia comportamenti inoffensivi, facendoli passare per ribelli. Non ha infranto nulla. Chi ha spezzato le regole lo ha fatto da solo, e per se stesso. Il rock’n’roll non c’entra con quelle ragioni. Ascoltavano tanta musica Buddy e i suoi amici. Elvis, ma anche i Drifters e Ray Charles, musicisti che seguivano tutte le sere attraverso una radio che trasmetteva da Shereveport, località vicina a Lubbock. Non era per niente rivoluzionario Holly nell’aspetto, a differenza degli altri rockers degli anni cinquanta… anzi, sembrava uno studente riservato e impacciato, con quei grandi occhiali che gli ornavano il volto… ma musicalmente stava avanti a tutti. Un cantautore che sapeva mescolare con estrema sensibilità tutti i generi musicali che lo avevano influenzato, creando un suono riconoscibilissimo. Fu tra i primi ad utilizzare in studio la tecnica dell’overdubbing, (sovraincisione) ed a lanciare la chitarra Fender Stratocaster nel mondo del rock. In “Pulp Fiction”, il film di Quentin Tarantino, nel locale “Jack Rabbit Slim” (che è anche il titolo di un disco di Steve Forbert) a tema anni cinquanta, l’attore Steve Buscemi è un cameriere travestito da Holly. Quando quella mattina la signora Stella mi vide passare, mi salutò con un cenno degli occhi. Se ne stava sotto la grondaia al fresco del suo chiosco, e combatteva l’afa di un agosto opprimente, sventagliandosi noiosamente un po’ d’aria. Suo marito,“l’americano”, come lo chiamavamo nel quartiere, era seduto accanto a lei, e sorseggiava una granita di limone. Quell’uomo aveva sempre l’aria del cazzo, con quei baffi irti sembrava che non cambiasse mai d’espressione. “Caramelle dolci, cocco, panini” vociò lei rauca. La conoscevo sin da bambino e gli ero affezionato. Ci ero cresciuto giocando sul marciapiede di quella strada. Al Fair Park Coliseum di Lubbock, nel 1955, Bill Haley and His Cometes e Jimmy Rodgers Snow, tennero un concerto. Ad aprire quell’evento ci pensarono Buddy e i suoi amici. Quella sera era presente l’impresario di Nashville Eddie Crandall che rimase folgorato da quei ragazzi, tanto da chiedere a Dave Stone, il proprietario della radio KDAV, l’acetato di quattro loro brani. Canzoni che tramite Crandall arrivarono a Paul Cohen della casa discografica Decca, che volle subito Buddy sotto contratto, anche se da solista. Fu Bob Montgomery a convincere Buddy ad andare a Nashville, perché lui non ne voleva sapere di lasciare gli altri a casa. Quella session per la Decca, incisa il ventisei gennaio del 1956 allo studio Bradley’s Barn, produsse il suo primo singolo “Blue Days, Black Nights”, mentre sul retro ci sistemarono “Love Me”. La seconda seduta venne realizzata un paio di mesi dopo, il ventidue luglio del 1956: questa volta Buddy incise con la batteria, e a suonarla c’era il suo amico Jerry Allison. Da questa session non escono dischi, anzi c’è da parte di Cohen una qualche sorta di ripensamento sulle qualità artistiche di Buddy… ma si sa che Nashville è un ambiente musicalmente conservatore dove si suona da sempre il country, e trovare musicisti adeguati alla musica di Holly che è uno sperimentatore, risulta davvero difficile. Quel giorno tra l’altro incisero anche “That’ll Be The Day”, che sarà il primo grande successo di Buddy e dei suoi Crickets. Avevo circa sette anni quando un parente tornando da un suo soggiorno in Svezia, portò in regalo a mia madre dei quarantacinque giri di Elvis Presley. Erano tempi in cui le famiglie italiane se ne stavano riunite in religioso silenzio, ascoltando e registrando le canzoni del Festival di Sanremo con dei piccoli apparecchi a cassetta, appoggiati all’altoparlante della televisione. Io invece me ne stavo sotto la branda del mio letto con il mangiadischi, ad ascoltare quei dischetti neri, fino a quando non si scaricavano le pile. Quelle canzoni stavano cantando del mio sogno e fu allora, ne sono certo, che quel tremito interiore s’impadronì di me. Adesso è come se avessi appoggiato un occhio su una foto sbiadita dal tempo, che m’imbottisce di nostalgia. Il rock’n’ roll è stato il desiderio di essere liberi, una voglia irrefrenabile di fuga, di spazio… ma anche della paura che questa nuova condizione implica. Così gli sconfitti, i solitari, nell’immaginario del rock diventano eroi, perché in qualche modo credono di avere una superiorità morale rispetto al resto del mondo. Ma il rock è una visione, e come tutte le visioni ha dei confini su cui muoversi, e i confini indicano sempre delle limitazioni… e quindi il controllo da parte di qualcuno. Il rock nel tempo non è riuscito più a comunicare e crescere. L’industria che gli gira intorno è riuscita ad omologarlo e a fargli perdere l’orientamento. A novembre del 1956, Buddy Holly tiene l’ultima registrazione per la Decca. Vi suonano solo session men, e a Natale dello stesso anno viene pubblicato il singolo “Modern Don Juan”, con sul retro “You Are My One Desire”. Buddy Holly comincia a viaggiare verso altri contesti, e prende a collaborare con Norman Petty, che a Clovis, New Mexico, ha uno studio di registrazione. Petty è un musicista di successo, ha lanciato nelle classifiche di vendita due brani, “Almost Paradise” e “Mood Indigo”, e fa pagare il costo del suo studio non ad ore, ma a canzone. Holly registra qui nuovi brani da proporre alla Decca, che però non gli rinnova il contratto. “That’ll Be The Day” viene nuovamente registrata in questo studio il venticinque febbraio 1957, ed è la versione che andrà in classifica. Qui si forma anche il nucleo storico dei Crickets, che oltre a Buddy Holly, vede Niki Sullivan alla chitarra, Allison alla batteria, e Welborn al basso. Saranno poi le sussidiarie della Decca, Brunnswick e Coral, a distribuire quei dischi. La sera al rientro mi sentivo particolarmente stanco, accesi una spirale d’incenso su un piattino per tentare di allontanare le zanzare, e mi coricai tirando il lenzuolo fin sulla testa. Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza… altri condannati alla dannazione. Ma conviene sempre non fidarsi di nessuno, se non si vuole crepare prima dei propri giorni. Rimasi immobile nel letto con gli occhi sbarrati e, contando le pecorelle, cercai di prendere sonno. Quella sera però non riuscivo a dormire nonostante la spossatezza… allora mi alzai e sul balcone mi accesi una sigaretta. Ne aspirai qualche boccone e la gettai via con disgusto. Guardai il tubo del neon del terrazzino che era assaltato da minuscoli insetti, e tornai a coricarmi, lasciando la finestra spalancata. Alle volte ci sentiamo indifesi tutti infilati negli stessi sogni, tutti uguali, tutti soli. Mi chiesi se era Peggy Sue che mi mancava. Il ventisette maggio del 1957, a nome Crickets, “That’ll Be The Day” fa il botto e arriva al numero uno delle classifiche inglesi, e si piazza terza in quelle americane. L’attività concertistica del gruppo subisce un’impennata notevole, mentre nelle studio di Norman Petty, si continua a lavorare a nuove canzoni. Tra il ventinove giugno e il primo luglio, Buddy registra a suo nome Peggy Sue e, dopo qualche mese dalla sua pubblicazione, parte in tour insieme a Chuck Berry, Drifters, Paul Anka, Eddie Cochran e Fats Domino. La paga è di mille dollari alla settimana. I Crickets e Buddy partirono poi per un tour di venticinque giorni in Inghilterra, dove avevano ben quattro singoli in classifica. Qui partecipano ad una trasmissione della BBC chiamata Off The Record e, subito dopo, fanno ritorno negli States, dove invece prendono parte ad un tour guidato dal disc-jockey Alan Freed, chiamato The Big Beat, insieme a Jerry Lee Lewis e Chuck Berry. E’ nell’agosto del 1958 che Buddy Holly sposa Maria Elena Santiago che ha conosciuto a New York. In questo periodo di cambiamento cerca di diversificare anche il suo repertorio, e invita il sassofonista King Curtis a registrare un suo pezzo, “Reminiscing”. Esistono cose davvero malvagie nel mondo che non smetteranno mai di riprodursi… ma come il sole che ogni giorno continua a sorgere e tramontare, anche l’amore non si ferma mai ed è incontenibile. Continua a scavare e a scalciarci dentro come un bambino nel grembo. “Cos’è stato il rock’n’roll se non quell’illusione di restare per sempre giovani, per sempre innocenti?” Due strofe e un ritornello che è un modo come un altro per non perdere la propria identità, per riconoscersi in qualcosa prima di finire in quel mondo, che è l’ingresso nella vita dei grandi. Dopo l’ultimo tour con Frankie Avalon, il grande Dion And The Belmonts e Bobby Darin, Buddy scioglie i Crickets e si trasferisce a New York, andando ad abitare al Greenwich Village. Qui, con l’orchestra di Dick Jacobs, incide il ventuno ottobre del 1958 un brano di Paul Anka, “It Doesn’t Matter Anymore”. Sono quindici mesi che Holly si divide tra tours e sala d’incisione. A New York finalmente trova il tempo di rilassarsi e incide a casa sua delle canzoni solo per chitarra e voce, pezzi finiti in cui collabora anche sua moglie. Il 2 febbraio del 1959 Buddy Holly ha ventidue anni e, insieme a Dion And The Belmonts, Frankie Sardo, Ritchie Valens e The Big Bopper (J.P. Richardson), si trova al Surf Ballroom di Clear Lake, nello stato dello Iowa. Finito lo spettacolo, per evitare un lungo trasferimento in macchina, e dato che all’indomani devono suonare a Moohead nel Minnesota, Holly, Valens e Big Bopper affittano un aereo, un Beech Bonanza pilotato da Roger Peterson. Nella notte decollano ma l’aereo precipita poco dopo, a cinque miglia dall’aeroporto di Mason City. Muoiono tutti, e verrà accertato che è successo per un tragico errore del pilota, che ha inserito il volo strumentale senza saperlo usare del tutto. “It Doesen’t Matter Anymore”, pubblicata il cinque gennaio del 1959, diventerà il più grande successo di Buddy Holly. La brace della Sua sigaretta brillava nel buio. Quando me la ritrovai dentro casa non mi ricordai se avessi nutrito qualche speranza di rivederla. Attraversai il salone e mi si parò di fronte. Aveva un’aria smarrita. “Vuoi fumare?”, mi chiese nervosa. Una semplice domanda, a cui non seppi rispondere. Era diventata misteriosa. “L’ho sempre saputo che sarei tornata da te”. Mi sentivo bruciare le guance e, prima che ruzzolassi nel buio di me stesso, versai due bicchierini di brandy e mi sedetti sulla panca del terrazzino. La guardai con attenzione. Era bella con i jeans sbiaditi e quella camicetta attillata che gli faceva quasi esplodere il seno. “Perché sei tornata?” gli chiesi… e guardai il cielo nero, chiuso, piatto, sopra la mia testa, in attesa della sua risposta. “Perché è solo qui che ho le mie certezze”. Nonostante fossero le dieci di sera il caldo era ancora soffocante. Scrutai i suoi grandi occhi castani e mi parve gracile. Se ne stava in piedi in un atteggiamento mite, che era anche questo una sorpresa. Avevo sempre avuto un debole per le donne sagaci e tristi. “E’ l’amore, disse, che mi ha portato fin qui, nient’altro”. Non c’era alcuna aggressività in lei, lo notai alle prime luci dell’alba mentre dormiva tranquilla arrotolata nel lenzuolo. E’ un labirinto l’amore che c’inghiotte nelle sue spire e che ci salva da noi stessi. Mi alzai e preparai il caffè. Lo bevvi da solo in silenzio a sorsi molto lenti. Poi accesi la radiolina. “Peggy Sue I love You”.
Bartolo Federico