mercoledì 26 dicembre 2018

Dal Blu al Nero

Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé. Riaprire il fiotto dei sogni e partire dal primo che si è fatto quando si era ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, nuovi punti di arrivo e, quindi, nuovi punti di partenza. Squadrai il cielo sopra la mia testa che restava fuligginoso, mentre sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che mi incrostavano l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e saziarmi di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio della mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza… ma non riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi attraversava mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato parecchio complicato stare sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più. Il pericolo era di fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a tradirmi. Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio stambugio. Ero pallido e stanco. Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con rabbia e avidità ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la vita. Ero un precario dei sentimenti come del lavoro. Cosa avevo da offrirgli se non la mia stessa confusione? Probabilmente era il momento di fare quella puntata balorda e giocarmi i numeri alla ruota del lotto rimanendo in attesa del miracolo di diventare ricco ma non avevo mai creduto abbastanza che questo potesse accadermi da dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di male a immaginarmi nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei occhi che scoppiai a ridere sconciamente. Lì da solo in mezzo alla strada. Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai della musica Willy And The Poor Boys” dei Creedence Clearwater Revival, anno 1969. Tirai un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai voluti salire per restare fedeli a se stessi. Persone che hanno pianto come bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte e che, sbandati e confusi, non hanno trovato più la strada di casa.
My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare fino in fondo che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero”. My my, ehi, ehi (Out of the blue)
Sono poche le cose che ci legano al passato ma alla fine sono proprio quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979. Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San Francisco, dove Young, con la sua chitarra acustica, prima si scioglie dentro le sue ballate dolenti e poi, insieme ai Crazy Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è sopraggiunta la rassegnazione. “Live Rust” è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle e i Clash erano il mio unico credo. La musica di Neil, in quei giorni, era il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già vecchia… ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di fantasmi.
Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo. Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli strada: è il solitario”. (The Loner).
S
draiato sul letto pensai a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come se avessi lasciato le mie tracce sulla battigia e al mio ritorno non c’era più nulla. La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina sulla statale 113. Quando avevo  bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo preferito. La 113 è una strada lunga e silenziosa, che cammina a ridosso del mare. E’ un percorso dai lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come una canzone dei Velvet Underground. Il vento che era venuto giù faceva increspare le onde, intanto che un flebile sole si faceva largo tra le nuvole nere che schiamazzavano nel cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata, al pari di quei grigi villini per le vacanze di cui era attorniata. Ad un tratto mi si parò davanti, con la sua bicicletta e lo zaino legato al portapacchi, uno che veniva da un’altra era. Arrancava lentamente, senza una meta da raggiungere, quel figlio dei fiori. Come il vento, andava dove credeva. Lo superai, osservandolo dallo specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi sembrò che avesse la faccia serena. 1967 a San Francisco. Andava in scena la rivoluzione. Ventimila anime che inseguivano un sogno comune si erano riunite al Golden Gate Park, in quella che fu definita l’estate dell’amore, per ascoltare gratuitamente i Grateful Dead e i Jefferson Airplane. In città erano giunti da New York, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso appena uscito dal carcere, per unirsi al poeta e letterato Kenneth Rexroth. Gli hippy prendevano allucinogeni e si decoravano i capelli con i fiori, mentre a Berkeley i movimenti studenteschi si scontravano con la polizia reclamando diritti civili. Nella vicina Oakland dei duri, quali erano Eldridge Cleaver, Huey Newton e Bobby Seale, fondarono l’organizzazione radicale delle Pantere Nere.
Guardate cosa sta accadendo fuori nella strada: è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Hey, sto danzando giù nella strada, è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Non è sorprendente tutta la gente che incontro? E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Una generazione è invecchiata, una generazione ha trovato la sua anima” (Volunteers – Jefferson Airplane). 
La prima volta che i Jefferson Airplane cantarono questa canzone fu nella radura di Woodstock il 21 agosto 1969, davanti a 500.000 persone, con rabbia e passione. Nel novembre dello stesso anno venne pubblicato “Volunteers”, un disco che è anche un manifesto politico, apertamente sovversivo. We Can’t Be Together apre l’album e spara subito a zero contro le repressioni anti-libertarie dell’America di Nixon e di Kissinger. I Jefferson Airplane, per non disgregare il messaggio politico, cercarono di unire coerentemente parole e musica, in questo aiutati dalla  presenza di ospiti illustri. In The Farm Jerry Garcia suona la pedal steel, creando un’atmosfera prettamente rurale. Wooden Ships, regalata dal duo Crosby e Stills, presenti entrambi, è sinistra nel suo incedere e parecchio inquietante. Jorma Kaukonen incrocia la chitarra con quella di Jerry  Garcia in Hey Fredrick, mentre Grace Slick canta con profonda emozione. L’incedere country di A Song for All Season sembra anticipare di qualche anno Sweet Virginia dei Rolling Stones, forse per la presenza nel disco del pianista Nicky Hopkins, poi alla corte delle pietre rotolanti, che ricama e caratterizza le canzoni con il suo distintivo suono. Questo disco, comunque sia, suggella la comunanza d’intenti e quel senso di fratellanza che avevano in quegli anni tutti i musicisti della Baia. “Volunteers” è la fine di un’epoca ed è come una capsula del tempo. La si può schiudere e tornare ai giorni in cui era bello sperare che la musica potesse cambiare il mondo. Viaggiando, fatti di benzedrina, su camion che ti avevano raccattato nella notte da qualche parte in mezzo al deserto.
Questa generazione non ha mete da raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Su, venite, stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” (Volunteers – Jefferson Airplane).
Andai all’edicola e comprai un quotidiano. Poi mi diressi all’ufficio di collocamento e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano, aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le pagine politiche del giornale. Sempre la stessa tiritera, bugie su bugie. Tirai dritto e andai alla pagina della musica. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di Leonard Cohen e mi chiesi perché certi giornalisti dovevano campare alla grande, pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie… mentre altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano vivere nel limbo. La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro figli del vento, nati senza la lingua a pennello. Sentii puzza di merda nell’aria. Allora pensai a Luisa e solo a lei.

 Bartolo Federico

martedì 18 dicembre 2018

Dannato Stasera Non Piangere.

 Il bar Cosimo all’ora di pranzo era pieno di impiegati, indaffarati a mangiare insalate, e qualche arancino al ragù. Vite ordinarie quelle, con le loro preoccupazioni e le proprie ansie. Persone normali, con progetti, speranze e, probabilmente, qualche sogno cucito chissà dove. Avevo cercato riparo dai miei silenzi, e dai miei blues, standomene assorto davanti a un bicchiere di vino rosso. Troppi punti deboli, troppe lacune si erano aperte dentro di me. Girai gli occhi e incrociai lo sguardo di una ragazza col seno grosso che si toccava i capelli. Lei mi guardò ammiccando con un piccolo sorriso. Non era brutta, ma di sicuro non era il mio tipo. Troppo muscolosa e con le spalle larghe per i miei gusti. Guardai attraverso il vetro del bar e, chissà perché, cercai quelle risposte che non arrivano mai. Un ragazzino con un cappello alla Mingus entrò ridendo. Capivo di non avere più risentimenti verso nessuno, ma di essere ancora in qualche modo vulnerabile, come quando ero giovane. La vita è fatta di incontri alle volte insignificanti, altre volte così devastanti che ti cambiano per sempre… e mi rividi spostarmi per quelle strade buie e silenziose, con i cartelli arrugginiti e sbattuti dal vento. Quelle strade abbandonate, circondate da immondizia e puzza di piscio, che ci si smarriva non appena svoltavi l’angolo. Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza, altri alla dannazione. Dal pacchetto di sigarette tirai fuori una Benson &Hudges che strinsi tra le dita, ma non accesi. Avevo sempre cercato di fare del mio meglio. Tuttavia i giudizi che mi davo un tempo, mi sembravano meno spietati di quelli di adesso. In compenso non mi preoccupavo più di come andavano le cose. Mi incuriosivo solo dei miei continui cambiamenti. “Nessuno è innocente, nessuno. Ficcatelo bene in testa”. Senza motivo, mi erano tornate in mente le parole urlatemi da Gilda in quel pomeriggio da cani. Lo avevo imparato a mie spese che, quando le situazioni prendono una brutta piega, è inutile che uno cerchi di spiegare. Noi uomini, prendiamo ciò che ci fa più comodo. Siamo abituati ad usarci perché dopo un po’ l’amore finisce e, in seguito, anche l’odio che nutriamo. Un altro esule entrò nel bar. Camminando di sbieco e ordinando una birra, si accomodò. Era una giornata di quelle che non si sa perché, ti senti scoglionato, annoiato, irritato, ma sapevo che avrei fatto bene a restarmene sobrio. “C’è un casino dappertutto” mormorò ad un tratto, l’uomo che si era seduto proprio dietro di me. “ci si sente come in prigione”, continuò… ed era come se mi stesse leggendo nei pensieri. Mi girai lentamente e lo guardai per un lungo istante dritto negli occhi, come a volergli scrutare fin dentro l’anima. “Non lo so, e non è che m’importi molto” risposi, mentre un cellulare iniziò a suonare una musichetta del cazzo. Non avevo fame, né freddo, né sonno, niente. Non sentivo niente. Vidi il cielo annuvolarsi e mi chiesi fino a che punto dovevo precipitare, prima di fermarmi. Mi aggiravo per le strade portandomi appresso un oscurità così densa, che potevo tinteggiare le pareti di un palazzo. In quel silenzio, l’autoradio della macchina sparava raffiche di sax, tanto forti da impedirmi di sentire le mie stesse urla. Amavo il suono del sassofono, era come se ascoltassi il respiro profondo di certe anime dilaniate che facevano musica nella tempesta. John Coltrane è una luce negli occhi, una sensazione fantastica, tremendamente rara. In The Dark You Can Love This Place mi ha sussurrato una notte Barzindistogliendo accuratamente lo sguardo. Ho trattenuto le lacrime, per non farmi inondare fin dentro le orecchie, e capire quanto ero ridotto male. Gilda quando c’eravamo incontrati, mi aveva guardato da dietro il fumo di una sigaretta, e questo bastò per farmi perdere l’orientamento. Era come se una voce mi dicesse che era lei che stavo cercando… ma ora che c’è l’avevo di fronte, non sapevo che fare, e le dissi soltanto: ciao bambina”, con una voce greve e lenta… e subito dopo iniziò a diluviare. E piovve per un bel pezzo. Poi rimasi in silenzio, inquieto come un sospiro. Ma queste cose mi erano successe in un’altra vita. Come spesso accade i nostri destini si erano separati, e niente e nessuno avrebbe potuto farmi tornare sui miei passi. Ho canticchiato un blues mentre salivo le scale di casa, dove non mi aspettava più nessuno. Con gli occhi spalancati nella penombra, ho acceso lo stereo, fumando, e cercando di non farmi prendere dallo sconforto. Erano passati anni, secoli, mesi, giorni, ore, minuti, da quando ci eravamo lasciati, ma certe cose, non si erano ancora sbiadite. Il telefono gettato sul pavimento prese a suonare, lo guardai ma non risposi. Lei di sicuro non mi stava cercando. Ho acceso la lampada che faceva una luce fioca, per cercare nello scaffale un disco che non trovai di Blind Blake, uno dei padri fondatori del blues. Un viaggiatore misterioso di cui non si sa praticamente nulla. Di quest’uomo solitario è rimasta un’unica foto. Eppure negli anni venti era una star della musica. Suonava un blues tecnico e riusciva a tracciare con la sua chitarra un crossover ante litteram, che amalgamava lo stile ragtime, con il blues e il jazz. Anche il burbero reverendo Gary Davis lo omaggiò. Lui così avaro di complimenti verso gli altri musicisti. I morti hanno sempre gli occhi tristi. Anche Nick li aveva quando è spirato per un tumore all’esofago. Per come era fatto, avrebbe preferito di gran lunga una pallottola dritta in testa che quell’animale dentro a divorarlo. Aveva appreso sin da subito di essere spacciato e di non avere via d’uscita… e non deve essere stato facile. Il diavolo poi ci mette sempre lo zampino e sembra che goda. Anche quando chiedi: quanto tempo mi resta dottore?” Lui sogghigna. Alla fine, all’ultimo istante, avrebbe voluto alzarsi da quel cazzo di letto che lo inchiodava e camminare, camminare. Prima di tirare le cuoia avrebbe voluto bestemmiare, imprecare. Andarsene in giro senza meta, come faceva quando cercava di raccattare i cocci della sua pazza vita… ma si sentiva debole e stordito, ed aveva una paura fottuta. Siamo tutti strambi noi uomini. Mi alzai e mi versai un bicchiere di Chivas. Il whisky andò giù morbido. Mi ricordai di quando lei era seduta sul divano e sfogliava distrattamente una rivista. Aveva recuperato il pacchetto delle sigarette e si era accesa una merda di MS. A guardarla nel suo jeans attillato aveva un bel culo, ma anche delle belle tette. Per tutto il giorno aveva sapientemente evitato il mio sguardo. Forse era un modo per non farsi venire qualche rimorso. Suonai qualcosa con la chitarra per ritrovare il coraggio. Aveva due splendidi occhi ed eravamo diventati tutt’uno. Non c’era spazio per nient’altro. Lo dico adesso che non posso più ingannare nessuno, tantomeno me stesso. È stato questo che alla fine ci ha fregato. Avevo smesso di dare importanza ai suoi misteri, come lei ai miei. Non potevamo continuare ancora ad ingannarci. Me ne sono tornato nell’oscurità, come un blues greve di Mark Lanegan. Le armi e i duri non mi sono mai piaciuti. Neanche i mercenari e certi sbirri. C’è gente che legge troppi libri, altri nemmeno uno. La vita alle volte è crudele, e si comporta come un romanzo da due soldi. Sarò un romantico, ma esiste un altro modo per stare su questa terra. Ne sono certo. In quello mio, non ci sono né vincitori, né vinti. Perché capita ad ognuno di noi che qualche porta si chiuda, e anche se questo ci lascia quel retrogusto amaro di nullità, si può sempre ricominciare, da qualche altra parte. Sempre. La cattiva stella prima o poi tramonta. Bisogna solo sapere aspettare. Certo, ci vuole una infinita pazienza, ma ne vale la pena. L’ho appreso dal blues questo, che non vive nel mondo della luna. Pur con una gamba di legno Furry Lewis se ne andava in giro per il sud del Mississippi, aggregandosi al fianco di imbroglioni e truffatori, che seguivano le carovane dei minstrels e dei medicine show. Aveva perso la gamba in un incidente ferroviario, ma tutto questo non era riuscito a fermare la sua vivacità, la sua voglia di vivere. Suonò insieme a Gus Cannon e Will Shade, per le strade di Memphis, entrando anche a  far parte della Memphis Jug Band… ma di musica non sempre si campa, e allora inizia a lavorare come spazzino, e lo farà per oltre quarant’anni. Per non gettare del tutto il suo talento, alla sera suona nei battelli a vapore che attraversano il grande Fiume, e al mattino va a ripulire le strade della sua città. Suonare a questo songsterr, gli ha reso più sopportabile la sua dura esistenza. L’ha fatto anche Night Moves con me. Una canzone che conserva il sapore di tante cose che ho perso lungo il tragitto. Ho pensato a Lei ascoltandola. Ai suoi seni, al suo desiderio, alle sue speranze, alla sua avidità. Me ne sono rimasto seduto sul divano, mentre fuori aveva preso a piovere. Ha piovuto per un bel pezzo. Mi sono fatto del caffè e fumato qualche sigaretta nella piccola cucina. Al lavoro l’indomani, ci sarei andato anche a costo di strascicarmi per strada a tentoni. È solo quando non hai più una cosa, che te ne accorgi di quanto era importante. Misi un disco di rock duro, grintoso, di quelli che sparano raffiche di chitarra a mitraglia. Tanto per stordirmi un po’. La mattina uscì presto di casa. Era un’alba fresca e senza particolari pretese. Prima di andare via, ho lasciato tutte le luci dell’appartamento accese. Così da darmi la sensazione al mio rientro, di non essere solo. A quell’ora del mattino le strade erano deserte. Un barbone dormiva dentro l’atrio del portone. Cercai di non disturbarlo. In strada camminavo veloce e con le mani infilate nella tasca della giacca. La Folie cantavano gli Strarnglers nel 1981. Combien de crimes ont ete commis. Contre les mensonges et soi disant les lois du coeur. Combien sont la a cause de la folie. Parce qu’il ont la folie”Mia zia Marianne sentiva le voci, e vedeva cose inesistenti. Alle volte diceva che erano sui muri, altre sul pavimento, qualche volta non ti riconosceva nemmeno, perché eri tu la cosa strana. Se ne stava per ore seduta immobile sulla sedia. Ogni tanto rideva e si toccava i capelli, e si stringeva i seni, fino a farsi male. Beveva vino rosso a litri, e fumava all’inverosimile. Troppe notti difficili. Alle volte avevo paura, una paura tremenda, che potessi uccidermi… ma forse c’era molto suggestione in me. Ogni tanto tornava normale e passavamo dei bei momenti. Poi anche quegli attimi svanirono, e la dovettero rinchiudere in un manicomio. John Trudell è un indiano Sioux. Quando venne nominato portavoce dell’American Indian Movement, si rese protagonista di un gesto di protesta contro le autorità americane, per le atrocità commesse nei confronti dei nativi americani. Sui gradini del J. Edgar Hoover Building di Washington bruciò la bandiera a stelle e strisce. Dodici ore più tardi, sua moglie, i suoi tre figli, e sua suocera, morirono in un incendio nella riserva di Paiute Shoshone in Nevada. La cosa resterà senza colpevoli, anche per il rifiuto dell’FBI di indagare sul caso. John Trudell inizia a comporre poesie e, nel 1985, quando incontra Jesse Ed Davis, un indiano Kiowa che suona con Clapton, Dylan, Lennon e Jackson Browne, le sue poesie diventano musica. “A.K.A. Graffiti Man” è un grido di dolore, un blues profondo, un vento di guerra. Ci sono cose che nessuno può uccidere… ma il cuore degli uomini è la cosa più difficile da vedere. Dannato stasera non piangere.

domenica 25 novembre 2018

Eternamente qui

Quando al mattino mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana, le previsioni del tempo davano un peggioramento nella serata, con vere bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero e la sciarpetta di seta in fantasia cachemire che era stata di mio nonno, m’infilai gli occhiali e nel momento in cui Frankie Lee Sims aveva cominciato a cantare Raggedy And Dirty, spensi lo stereo dall’interruttore della luce. Una diavoleria escogitata da Sal, quando ancora frequentava il regno dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento e, una volta in strada insieme a quella nuova indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore, m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il sopravvento sui miei pensieri. Osservai i passanti infagottati in quegli enormi piumini da neve che procedevano silenziosi con il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e mi parevano come spettri. Pensai che la mia casa era davvero così piena di musica, da potermi considerare quasi come un suo ospite. Il vento fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi verso l’entrata della metropolitana. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere ma nello stesso tempo essenziali per tirare avanti… e ci scordiamo di quei brividi che ci hanno reso la vita un po’ meno amara. Scesi i gradini della metro e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la ferita che non si era più rimarginata e lo aveva fatto cadere insieme ai suoi demoni, nelle profondità più nere di noi stessi. Un eroe ribelle e drogato che ha attraversato la storia del rock, lasciando un segno profondo. Lui più di tanti funamboli rompicoglioni della sei corde, è da considerarsi un vero uomo di blues. Ma com’è successo per tanti altri rinnegati del rock, dal cuore puro e furibondo, è stato dimenticato in fretta. Sparito per sempre sotto un cumulo di polvere e macerie. Se chiudo gli occhi e come se lo vedessi ancora con quell’aria goffa e smarrita, fermarsi e intonare un paludoso blues di Charley Patton. L’esordio folgorante di “Fire Of Love” (1981) con la sigla The Gun Club, è un disco di canzoni che hanno dentro quella fiamma che brucia, e che non si placa. Che ti arrivano come un pugno in pieno viso, perché hanno il piglio della ribellione e dell’anticonformismo. Perfette per uomini che si sentono soffocati da un mondo che ti afferra e ti rovescia, sul lato opposto dei tuoi sogni. Zeppe di quel vento ululante che ti fa ghiacciare il cuore nella notte, e di quel blues ancestrale che ha popolato le strade del Mississippi. Un disco che resta una pietra miliare, e che ebbe la forza di aprire le porte a tanti punk verso la “musica del diavolo”. Allora il resto del mondo però non contava niente. Il rock mi tranciava la pelle, l’anima, in quella disperazione mattutina dopo una notte balorda e disperata. Fu però con “Miami” del 1982 che Lee Pierce conquistò una visibilità più ampia. Un disco notturno e denso di emozioni, spudorato per quella spontaneità ad esporsi nei suoi sentimenti, senza alcuna barriera di protezione. Che ad ascoltarlo oggi a distanza di tre decadi, ti mette paura, tanta è l’intensità di quella sventagliata di rock viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e lirico. C’è lo spirito di Hank Williams che aleggia nelle canzoni, mentre Jeffrey si avvicina allo spirito anarchico e medianico di Jim Morrison. Chris Stein è il produttore di questo lavoro un ex membro dei Blondie, gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante Deborah Harry, anche lei qui presente. Chris con la sua produzione tende soprattutto a far risaltare la sua voce, e quel canto sferragliante e infettato di voodoo, fumo e sporco fino al midollo del rock’n’roll selvaggio dei migliori Creedence Clerwatwer Revival. In “Miami” ci sono canzoni di un uomo che nonostante tutto riesce a sopportare ancora il dolore. Anche se la droga e l’alcool stanno diventando fin troppo importanti nella sua vita ma, in fondo è la storia che lo insegna, è sempre dai sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento.
Don’t let her take her love to town They will never fill her hear. She needs a passion like her fathers used to be I know because I’m like the train shooting down the main line. I know because. I’m the Indian wind along the telegraph lines. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She can’t miss a vein” (She’s Like Heroin To Me).
Durante una pausa per le registrazioni del disco Jeffrey si accese uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani e un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato sa fare. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. “Pioggia e freddo intenso” avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, ché le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo  pregava di proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso afferrò la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Su quegli stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova canzone. Tutti i presenti si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava i versi di Mother Of Earth ancora avvolti dentro una melodia traballante.
Sono andato giù nel fiume della tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande terra (Mother Of Earth)

Era il blues che risuonava dentro di lui, e sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni: anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà sempre il blues demoniaco e disperato della sua anima che tirerà pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note, combinazioni, si possono ottenere da una chitarra? E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi? Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli esseri umani, e dei loro bisogni. Perché anche i solitari vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey colmo di una malinconia indelebile ma, i sentimenti che proviamo sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime”. Quando sussurra con l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro il microfono, capisci quanto era fragile e vulnerabile. Le sue canzoni risuonano ancora oggi impetuose per quei selvaggi che hanno il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di morire, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto incontrare Jeffrey per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. La destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e se si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo. Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata qualunque del metrò scesi e, camminando senza meta per la città, mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte e non si fidava più di nessuno. Andando in giro mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità. Nelle maggior parte dei negozi, stavano appesi i cartelli con la scritta “Affittasi/Vendesi”. Una donna di mezza età mi chiese dei soldi. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre. Qualcuno dice che se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti al municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato, erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo. Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto girò la testa, e adocchiandomi mi disse: non è che abbia una grande pensione figliolo. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra ma, siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà, se ci fossi salito, a quale stazione sarei sceso? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E’ vero comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. E’ l’anno 2018 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia, ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli X, la banda di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 Los Angeles, l’album prodotto da Ray Manzarek, l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, Lou Reed, Jimi Hendrix. “Los Angeles è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei valori umani… ma è anche la grande voglia di non arrendersi, avendo chiara la consapevolezza che il momento più duro, è sempre quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si presta a colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui, oltre alla forza dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni malvagie e feroci, fino a raschiarsi le corde vocali, fino a cadere sanguinanti in fondo alla notte. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. Procediamo curiosi nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno ci spiega. Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontatezza c’era molta sincerità. Quello che non capiva, il punk lo intuiva. Poi, come in una sorta di autoindulgenza non sapendo barare, se n’è tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile giungere. Quando la musica è finita ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una doccia e mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio… ma mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a nessuno.

martedì 2 ottobre 2018

Cacciatori Di Stelle

È difficile vivere dall’altro lato della strada. Il mondo si dissolve in fretta a guardarlo da quella parte. Che tu te ne stia appollaiato dentro un bar, o sotto un sole caldissimo, o una pioggia incensante, ti senti sperduto in quell’overdose di solitudine in cui ti sei cacciato. Con quel vestito da senzatetto e quell’aria malinconica che ti pervade la faccia, ti senti un perfetto idiota, mentre cerchi di limitare i danni. Chi è sensibile alle sfumature lo sa bene, che la musica trionferà sempre su tutto. Buttò giù del whiskey nel vuoto delle sue budella, mentre Ray Davies cantava No One Listen. Seduto nella piccola cucina di casa cercava un modo per venire fuori da quel grigiore che negli ultimi tempi aveva avvolto la sua vita. Era un tipo come c’è ne sono tanti altri nel mondo. Un uomo pieno di grinze e ragnatele che viveva con assillo e furia la sua esistenza. “Quando invecchi gli aveva detto suo padre ti restano i ricordi”… ma non te ne fai niente dei ricordi pensò. Solo seghe. L’unica cosa che conta è non perdere il tuo tempo. Perché alla fine si muore. Come tutti d’altronde. Non c’è altro. Rimise nuovamente la stessa canzone, tornando indietro con il telecomando del CD. Dalla finestra filtrava una pallida luce. Si chiese da che parte doveva andare, perché Ray Davies in quel momento cantava Imaginary Man: I saw my reflection in the glass Watched as the world went flashing past. I knew the face but could not tell. Why I couldn’t recognise myself”. Lo aveva imparato da solo che ci vuole sempre una botta di culo per non finire annientati sotto i colpi di questo mondo marcio, barcollante, ostile… ma chi erano mai – e poi mai – questi gerarchi detentori del pensiero unico, per decidere le sorti di popoli interi?. E’ la storia che rappresentano che li inchioda. Nutrono immenso disprezzo per tutti i lavoratori, che si trovano nel livello più basso del mondo. Hanno un odio profondo per gli anarchici, gli ultimi, e i guastafeste, che non vogliono collaborare per i loro fini. Woody Guthrie lo spiegò che la vita è una lotta, dalla culla alla tomba. Come non era mai accaduto prima questi gerarchi sono davvero lontani dalla vita, e dai suoi bisogni elementari. Cinici, spietati, violenti. Con il dito premuto sul grilletto, non si fanno alcuno scrupolo a pisciarci in testa. Il loro intento è solo quello di sopprimere i sogni di migliaia di uomini e donne. Gente che non sa ascoltare la capriola di una canzone, che risuona dall’altra parte della strada. Il suo volto divenne duro e freddo. Woody, cercò di spiegargli che cosa stava accadendo con parole semplici e dirette Era questa la sua grande virtù. Si riempì nuovamente il bicchiere. La vita all’improvviso può diventare un incubo, una vendetta infinita. Questo è il modo in cui finisce questo mondo del cazzo non con un BOOM, ma con un gemito”. Lo sentii dire a  Dennis Hopper in Apocalypse Now”Siamo come cacciatori di stelle mentre cerchiamo in tutti i modi di scovare nuove canzoni, per cibare lo spirito e la carne. Abbiamo dentro un demone che ci possiede. Lo stesso che aveva Harry Smith un antropologo, bizzarro e barbuto. Un collezionista di 78 giri bramoso di scovare pezzi rari della musica americana… ò con la sua collezione di dischi, che la Folkways, un’etichetta dedita alla folk music, pubblica “Anthology Of American Music”. Una specie di bibbia per tutti quegli uomini che se ne vanno in giro fumando in silenzio, e dormendo per strada. Un cofanetto diviso in tre volumi che parla delle gesta di persone sperdute, semplici, avvolte dentro una nuvola di polvere. Sempre ubriache di pessimo whiskey. Musica inquietante, piena zeppa di fruscii, di fantasmi che si affacciano a ogni nota scorticata da un banjo, o da una chitarra scordata. Sangue, sofferenza, e follia. Musica populista vestita di stracci, che però ha l’affanno dell’uomo comune, del disoccupato, del migrante, di chi non sa più dove andare. Raccoglie dentro di sé immagini e speranze, rimpianti… ma anche entusiasmo. I politici alla pari di quei finti progressisti che blaterano dagli schermi televisivi, fanno solo finta di conoscere questo lato della vita. Sono dei buffoni, avidi e smaniosi. Quanto di più lontano esista da questa musica. Il loro abbraccio è mortale per qualunque cosa che trotterella nella polvere, e si raggomitola per terra. “Forgive me, I’m still a sad creature of little faith. We are such creatures of little faith”. (Ray Davies). Finì di bere e si versò dell’altro whiskey. Poi si mise a guardare le copertine dei suoi vecchi vinili. Ogni disco raccontava una parte della sua vita. Era stato sposato con Emma, ma la cosa non aveva funzionato. Dopo un primo periodo in cui sembrava che le cose tra loro filassero al meglio, erano arrivati all’improvviso i primi litigi. Man mano che le cose deterioravano, si arrivò a vere esplosioni di violenza fisica da parte di entrambi. Questa cosa lui la odiava profondamente. Alla fine non si parlarono più… e manco si guardavano. Lei andò via una mattina di ottobre, serena e pacifica. Fuori ad aspettarla c’era il suo collega d’ufficio, con cui aveva intrecciato una nuova relazione. Quella sera lui si cucinò del pesce bollito, con delle patate al prezzemolo per contorno. Poi accese lo stereo e mise un vecchio vinile dei Mott The Hoople: “Now it’s a mighty long way down the dusty trail. And the sun burns hot on the cold steel rails. ‘N I look like a bum’n I crawl like a snail. All the way from Memphis”. All’una e trenta della notte si scolò una bottiglia di vino rosso, e ascoltò innumerevoli volte Walk On The Wild Side. Bisogna rientrare nella propria vita in qualche modo. Perché se era rimasto qualcosa era meglio andarlo a prendere il più presto possibile, prima che finisse per essere divorato dalla sua stessa inquietudine. L’influenza del blues del Delta sul rock’n’roll, è davvero indelebile e profonda. I musicisti rock hanno preso qualsiasi cosa da quelle canzoni, e da quel modo di suonare. Charley Patton aveva uno smisurato amore per la musica. Anche se suo padre lo puniva ferocemente, lui se ne andava in giro continuando ostinatamente a suonare il suo blues, agghiacciante e viscerale. Sembra semplice ma il blues è musica complessa. Puoi anche imparare lo stile slide in maniera impeccabile… ma per fare sentire vero quel suono pieno di sfumature, di coraggio e incertezza, devi possedere anche tu quell’ambiguità di cui questa musica è piena zeppa. Accidenti a questo sole del cazzo che acceca la vista e rende ubriachi senza aver bevuto un solo goccio. E’ davvero difficile essere liberi in questo mondo. Si può morire spiritualmente molte volte, ma la carne rimane viva bramosa di libidine, come il rock’n’roll. Continuavano a piacergli le puttane, le altre donne le trovava noiose e incongruenti. Solo una piccola illusione momentanea. Rimase seduto al bar a bere e fumare. Tamburellando con le dita sul tavolo cercò una nuova melodia, per quella canzone che stava scrivendo. Una canzone per bastardi senza cuore che attraversano la strada per rifugiarsi tra le ombre. Come lui… cacciatori di stelle.

 Bartolo Federico

martedì 18 settembre 2018

I cuori sono come i fiori

Dormire negli ultimi tempi è diventato un vero tormento, al punto che il sonno mi sembra una discesa negli inferi. Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi. Al risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili, claudicanti e senza sole, di Nikki Sudden e Dave Kusworth, o del Johnny Thunders fragile e drogato, di “Hurt Me”. Il medico mi ha guardato con una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. Non se ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa. Il suo comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto stretta osservazione”. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli antidepressivi da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il sole che stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in cucina pensavo a queste cose, quando il telefono prese a squillare facendomi trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad una signorina dai toni suadenti, che mi ha illustrato l’ennesima vantaggiosa offerta per luce e gas. Malgrado la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle attenzione. Siamo stati lì a conversare come due vecchi amici che non si sentivano da un pezzo. Dopo un po’ mi sono alzato barcollando e, con la cornetta attaccata all’orecchio, ho azionato lo stereo. Autumn Stone degli Small Faces, l’ho ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. “Ero nel nulla, finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia attraverso l’essere buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un luogo difficile da trovare, quel che tu sei sempre stata, è la verità. Cerco una porta aperta, dove mi posso mettere seduto e giocare in pace con te. Il domani cambia l’odierno verde dei prati, ieri è deceduto, ma non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei arrivata tu. La più dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato un suono che vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me”. Verso mezzogiorno mi sono deciso a uscire. Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con gli occhiali neri e un bastone bianco, e subito dopo anche Gianni, uno che assomiglia in maniera impressionante a Lemmy dei Motörhead. Un tempo anche lui era un musicista ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e adesso vive come un vagabondo tra i binari della ferrovia. Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno sapeva, ma che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non mi sentivo ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia restava alto. L’arteria principale della città come sempre era intasata di macchine, e l’aria era talmente maleodorante di gas di scarico che mi è venuto il mal di testa. Nessuno di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario. Nessuno di noi possiede l’alba, il cielo, la pioggia. Mentre cammino per le strade senza meta, una piccola ombra mi protegge dal sole, e penso che, nonostante tutti i miei casini, sono ancora in piedi. In questo periodo rispolvero sempre più spesso i miei vecchi dischi, dal computer non scarico più files musicali, perché ad un certo punto mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla la musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. James Moore in arte Slim Harpo, è stato l’esponente di punta dello swamp blues. A soli quindici anni resta orfano, ed è costretto ad abbandonare la scuola per mantenere il resto della famiglia. Si impiega come scaricatore di porto, e dopo come manovale… ma appena finito il lavoro suona per strada le canzoni che scrive, accompagnandosi con l’armonica e la chitarra che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce Lightinin’ Slim che lo porta dal noto produttore Jay D. Miller. Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo e lo lascia in disparte… fin quando Slim Harpo non gli fa ascoltare quel suo nuovo brano dalla ritmica martellante e devastante… I’m A King Bee. La canzone diventa un grande successo che viene bissato da Rainin’ In My Heart, un blues lento e ipnotico, che ti fa sentire il fruscio delle paludi della Louisiana. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i suoi due volti musicali. Il primo lato del disco è terminato. Mi alzo dal divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla seconda canzone, per evitare il graffio che ferisce profondamente la prima traccia. Muddy Waters, Kinks, Yardbirds, e Rolling Stones, anche quelli fantasmagorici di “Exile On Main Street”, attinsero dal repertorio di canzoni straordinarie di Slim Harpo. Alle volte c’è come una fossa dentro di noi che ci fa vacillare. Così guardo la mia ombra riflessa sul muro della stanza e non so perché, mi viene di sorriderle. Fuori nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il palmo della mia mano. Lo so che il dolore man mano sbiadisce e poi, all’improvviso, finisce. Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola tra le dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il pensiero che mi attraversa viene scosso da quel rantolo rauco che arriva dallo stereo acceso. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di J&B, la prendo e mi verso quel che rimane in un bicchiere. Da quando sono rimasto solo sono diventato un casalingo esperto, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco le coperte sopra le lenzuola, lavo i pavimenti con l’aceto, stendo il bucato, pulisco i vetri asciugandoli con la carta di giornale, e ascolto la radio mentre sbatto i tappeti. Sul tavolo del salone c’è una mia vecchia foto, di quando avevo diciotto anni. Ho i capelli lunghi, porto i Ray-Ban e come sempre ho un aria smarrita. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi così di primo acchito. E’ un blues sporco e aggressivo, aspro e irruento, un blues che partendo dal Mississippi si è formato per la strada, nei bordelli di Chicago, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile. E’ un blues oscuro e genuino quello che suona Hound Dog Taylor con i suoi degni compari, gli Houserockers, diretto discendente del suo maestro Elmore James. Con il suo stile bottleneck esuberante e distorto, Hound Dog Taylor manda in visibilio il pubblico nei suoi concerti non stop, che gli fanno conquistare fama e credibilità nella difficile “Città del vento”. E’ un selvaggio seduto in quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. Il volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un drive che è una meraviglia del demonio. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un amante delle donne, tanto che un suo amico gli affibbiò quel soprannome da cane segugio. Lui sì che prendeva la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva spiaccicandola sul manico della sua chitarra, con la mano sinistra e con quel collo di bottiglia che ci strofinava sopra per evocare gli spiriti del Delta e di quel degenerato di Robert Johnson. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso è calato il silenzio. E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori, perché è in questo ambiente che ci si illude di muoversi per non arrivare mai. La mattina, dopo aver rassettato la casa, me ne sono andato all’ufficio postale per pagare le bollette. Durante il tragitto mi ha fermato una chiromante, che ha voluto per forza leggermi la mano. Con un certo imbarazzo gli ho teso il palmo. “Mi sembri ubriaco” dice guardandomi dritto negli occhi. “No, non lo sono”, gli urlo quasi. “Il tuo amore ritornerà”. Adesso sì che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a ballare. Infilo una mano in tasca, e le lascio tutti gli spicci che possiedo. Quando arrivo alla posta la gente è in fila fino a fuori dalla porta… ma dal momento che le bollette sono già scadute, mi armo di santa pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco della mia incapacità di adattarmi. Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare. La gente che mi sta intorno è scoglionata e anche nevrastenica. “Dal governo si lamentano alcuni uomini, ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio per tanti”. Un vecchietto, quando arriva il suo turno, chiede all’impiegato se gli può scrivere un indirizzo sulla busta, ma il tizio lo respinge in malo modo… ed è così che mi stacco dalla fila e prendo a sbattere le mani sullo specchio che ci divide e lo protegge. Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda cuccia, che ho delle cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo, di persone come lui. Il tizio mi guarda terrorizzato, restando fermo e silente sulla sua comoda poltroncina. “Lo so che non ci puoi sopportare gli continuo a gridare, ma neanche noi sopportiamo individui come te“. Poi mi rimetto in fila, mentre un silenzio raggelante scende giù. Illegale non vuol dire che non sia giusto. Weldon “Juke Boy” Bonner, amava la strada. Con la sua chitarra dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con l’armonica per sottolineare il suo tormento, il suo blues mise in scena la lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti, ma anche della sua stessa sopravvivenza. “Ricordo che vivevo sulla costa occidentale francese. Avevo solo diciassette anni quando una ragazza mi toccò per la prima volta il cuore. Nonostante io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai belli come lo sei tu. Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il mondo è in bianco e nero” (Where The Rivers End – Jacobites). Hai sempre paura di ciò che non conoscie il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa dell’eternità, rincorrendo la giovinezza… ma in fin dei conti, cos’è ‘sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci. Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci. Mi sedetti sul divano e alzai gli occhi verso lo specchio. Una volta scendevo al fiume con Maria, ed è lì che ci siamo amati. Ma adesso quel fiume si è inaridito, perché i cuori sono come i fiori.

lunedì 30 luglio 2018

Highway 61 Revisited


Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina Blues From Laurel Canyon, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969, anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen… ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat, perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, JackPeter e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me. Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza, alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. I “travellin’ men”, così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un’unica direzione… Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la “città del vento”. Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico… pronto ad esplodere. In questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino. La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di “Then Play On”. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica, come nella migliore tradizione psichedelica, si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato… il blues torna a viaggiare libero e diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dai numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare “Blues On Highway 49” è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte. In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte… e tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre e solo alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay… una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti… ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del “bullo di Arcore” e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori… tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l’ipocrisia. La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. Non m’importa se piove o gela, starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si, ci puoi scommettere che lo sono”Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma a mio agio e mi fermai in uno spiazzale. Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie… e nessuno faceva niente. Chissà perché? Mi sentivo arrabbiato… ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo… ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman, il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric ClaptonBobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un’altra piega. Negli studi del Criteria di Miami, nel 1970 si registrò “Layla And The Other Assorted Love Songs”, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton… ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero. Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai “Blue Matter” dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere… miagolando il blues.

Bartolo Federico

martedì 17 luglio 2018

Buddy Holly: “Blue Days, Black Nights”

Quel tizio aveva lo sguardo vago e il naso rosso ma il tono della sua voce era forte e sicuro. “Noi uomini sterminiamo tutto ciò che c’è di bello e di buono in questo mondo, e tutti siamo colpevoli allo stesso modo. Nessuno è innocente”. Si accese un sigaro e si versò un bicchiere di vino, guardandosi la punta delle scarpe. Per un breve attimo oscillò in avanti quasi volesse cadere, ma fortunatamente si riprese subito. La festa delle seconde nozze di un mio vecchio amico, si stava rivelando più piacevole del previsto. Ci ero andato controvoglia perché ero in una fase in cui non me la sentivo di stare tra la gente, e solo il pensiero di rincontrare vecchie conoscenze per poi finire a rivangare i bei tempi che furono, mi metteva un’assoluta tristezza… ma Ale me l’ero ritrovato sempre nei momenti più difficili, e non mi andava di deluderlo. Così su quel prato inglese di quell’albergo di una famosa località turistica siciliana, bevendo vino bianco ghiacciato, mi ritrovai a conversare con quell’uomo che con esattezza non sapevo neanche chi fosse. “Ho paura, s’interruppe per portarsi il calice alle labbra, si schiarì la gola e proseguì, “ho paura che non resterà più nulla su questa terra di meritevole. Stanno spazzando via tutto con inaudita ferocia e violenza, stanno creando un mondo che è una pattumiera a cielo aperto. Il guaio è che a nessuno sembra importargliene. Di questo passo dove andremo a finire? Ho l’impressione, proseguì avvicinando il sigaro che teneva in mano e poi allontanandolo come per focalizzarlo, che finiremo male, molto male. Quest’universo è amministrato da gente incapace che ha sempre pensato al proprio profitto, e mai al bene comune. Ciarlatani, saltimbanchi, che hanno in mano il destino degli esseri umani. E’ veramente incredibile tutto questo”. Quello sconosciuto era davvero un fiume in piena, s’infiammava e trasudava passione da tutti i pori. Restammo a parlare fin quando due bambini giocando a rincorrersi mi franarono sulle gambe. Li osservai rialzarsi lesti da terra e correre via. Chissà perché pensai alla solitudine degli uomini. Quella solitudine che ci perseguita e ci rende amara la vita. Che ci riempie di dubbi e, man mano che avanza, sgretola le nostre piccole certezze. Come fanno certi blues tristi e dolorosi che ti divorano dentro sin dal primo ascolto, per non lasciarti mai più. La mattina dopo mi svegliai all’alba che ero completamente sudato e senza aver dormito a sufficienza. Era una giornata afosa per cui mi ficcai velocemente sotto la doccia, prima di prendere il caffè. Sotto il getto dell’acqua ripensai alla serata trascorsa, tutto sommato considerai che mi ero rilassato… una cosa che ultimamente mi capitava di rado. Mi asciugai in fretta e scesi in cucina. Mentre preparavo la caffettiera accesi la radiolina, che suonò incredibilmente Peggy Sue. Un brivido mi percorse il corpo, quasi come fosse una scossa elettrica. Una canzone che difficilmente oggi senti per radio. Una canzone che fece conoscere al mondo le stella di Buddy Holly. Che da quando è morto, il rock non è più lo stesso. Questo lo ha detto un protagonista del film “American Graffiti”, pellicola che diresse George Lucas nel 1973… un omaggio alla Sua giovinezza e al rock’n’roll. Buddy Holly nasce a Lubbock in Texas, nel 1936. È un ragazzino precoce con la musica. A quattro anni prende lezioni di violino, e a cinque partecipa ad un concorso per canterini, dove vince un premio di cinque dollari. A dodici anni si compra la sua prima chitarra, dopo aver suonato il pianoforte. Andava ancora a scuola quando con il suo inseparabile amico Bob Montgomery, cominciò a suonare alle feste scolastiche o in casa di amici. La KDAV di Lubbock era una radio country locale che organizzava concerti nei suoi studi e al Cotton Club, una delle sale da ballo più importanti della zona. Hi-Pockets Duncan faceva il disc-jockey in quella radio, e divenne il primo manager di Buddy Holly. Nel 1954, ogni domenica pomeriggio Buddy, Bob Montgomery e il bassista Larry Welborn, suonano alla KDAV nel programma radiofonico “Sunday Party”, mentre alla sera aprono gli spettacoli che si tengono al Cotton Club. E’ davvero difficile dire di conoscersi. Chissà quante vite racchiudiamo in ognuno di noi, che attendono solo di essere vissute… e le cicatrici che ci portiamo appresso, sono come dei marchi a fuoco per la nostra coscienza. Rassettai il soggiorno, e mi misi a scartabellare vecchi scritti di mio padre… che è un modo per continuare a parlarci. Bisogna sempre guardarsi indietro, per capire da dove si viene. Holly è il suo gruppo suonavano e provavano nuove canzoni chiusi nel garage sul retro di casa sua, e fu verso il 1955 che il batterista Jerry Allison cominciò a frequentare Buddy. La musica di Holly sta navigando verso un’altra direzione… e la presenza di Elvis Presley sul mercato discografico favorirà questo cambiamento. Elvis aveva appena inciso per la Sun Records, quando arrivò a Lubbock per una data al Cotton Club, invitato dall’emittente KDAV… da lì i due s’incontrarono. Il giorno dopo quello show, Buddy aprirà il concerto che Elvis terrà per l’inaugurazione del salone della concessionaria Pontiac. Il rock’n’roll è stato solo un’illusione di libertà. E’ servito a contenere le pulsioni di milioni di adolescenti e ammansirli dentro un recinto, concedendo solo qualche salvacondotto, tanto per non inasprire troppo gli animi. Ha camuffato con furbizia comportamenti inoffensivi, facendoli passare per ribelli. Non ha infranto nulla. Chi ha spezzato le regole lo ha fatto da solo, e per se stesso. Il rock’n’roll non c’entra con quelle ragioni. Ascoltavano tanta musica Buddy e i suoi amici. Elvis, ma anche i Drifters e Ray Charles, musicisti che seguivano tutte le sere attraverso una radio che trasmetteva da Shereveport, località vicina a Lubbock. Non era per niente rivoluzionario Holly nell’aspetto, a differenza degli altri rockers degli anni cinquanta… anzi, sembrava uno studente riservato e impacciato, con quei grandi occhiali che gli ornavano il volto… ma musicalmente stava avanti a tutti. Un cantautore che sapeva mescolare con estrema sensibilità tutti i generi musicali che lo avevano influenzato, creando un suono riconoscibilissimo. Fu tra i primi ad utilizzare in studio la tecnica dell’overdubbing, (sovraincisione) ed a lanciare la chitarra Fender Stratocaster nel mondo del rock. In “Pulp Fiction”, il film di Quentin Tarantino, nel locale “Jack Rabbit Slim” (che è anche il titolo di un disco di Steve Forbert) a tema anni cinquanta, l’attore Steve Buscemi è un cameriere travestito da Holly. Quando quella mattina la signora Stella mi vide passare, mi salutò con un cenno degli occhi. Se ne stava sotto la grondaia al fresco del suo chiosco, e combatteva l’afa di un agosto opprimente, sventagliandosi noiosamente un po’ d’aria. Suo marito,“l’americano”, come lo chiamavamo nel quartiere, era seduto accanto a lei, e sorseggiava una granita di limone. Quell’uomo aveva sempre l’aria del cazzo, con quei baffi irti sembrava che non cambiasse mai d’espressione. “Caramelle dolci, cocco, panini” vociò lei rauca. La conoscevo sin da bambino e gli ero affezionato. Ci ero cresciuto giocando sul marciapiede di quella strada. Al Fair Park Coliseum di Lubbock, nel 1955, Bill Haley and His Cometes e Jimmy Rodgers Snow, tennero un concerto. Ad aprire quell’evento ci pensarono Buddy e i suoi amici. Quella sera era presente l’impresario di Nashville Eddie Crandall che rimase folgorato da quei ragazzi, tanto da chiedere a Dave Stone, il proprietario della radio KDAV, l’acetato di quattro loro brani. Canzoni che tramite Crandall arrivarono a Paul Cohen della casa discografica Decca, che volle subito Buddy sotto contratto, anche se da solista. Fu Bob Montgomery a convincere Buddy ad andare a Nashville, perché lui non ne voleva sapere di lasciare gli altri a casa. Quella session per la Decca, incisa il ventisei gennaio del 1956 allo studio Bradley’s Barn, produsse il suo primo singolo “Blue Days, Black Nights”, mentre sul retro ci sistemarono “Love Me”. La seconda seduta venne realizzata un paio di mesi dopo, il ventidue luglio del 1956: questa volta Buddy incise con la batteria, e a suonarla c’era il suo amico Jerry Allison. Da questa session non escono dischi, anzi c’è da parte di Cohen una qualche sorta di ripensamento sulle qualità artistiche di Buddy… ma si sa che Nashville è un ambiente musicalmente conservatore dove si suona da sempre il country, e trovare musicisti adeguati alla musica di Holly che è uno sperimentatore, risulta davvero difficile. Quel giorno tra l’altro incisero anche “That’ll Be The Day”, che sarà il primo grande successo di Buddy e dei suoi Crickets. Avevo circa sette anni quando un parente tornando da un suo soggiorno in Svezia, portò in regalo a mia madre dei quarantacinque giri di Elvis Presley. Erano tempi in cui le famiglie italiane se ne stavano riunite in religioso silenzio, ascoltando e registrando le canzoni del Festival di Sanremo con dei piccoli apparecchi a cassetta, appoggiati all’altoparlante della televisione. Io invece me ne stavo sotto la branda del mio letto con il mangiadischi, ad ascoltare quei dischetti neri, fino a quando non si scaricavano le pile. Quelle canzoni stavano cantando del mio sogno e fu allora, ne sono certo, che quel tremito interiore s’impadronì di me. Adesso è come se avessi appoggiato un occhio su una foto sbiadita dal tempo, che m’imbottisce di nostalgia. Il rock’n’ roll è stato il desiderio di essere liberi, una voglia irrefrenabile di fuga, di spazio… ma anche della paura che questa nuova condizione implica. Così gli sconfitti, i solitari, nell’immaginario del rock diventano eroi, perché in qualche modo credono di avere una superiorità morale rispetto al resto del mondo. Ma il rock è una visione, e come tutte le visioni ha dei confini su cui muoversi, e i confini indicano sempre delle limitazioni… e quindi il controllo da parte di qualcuno. Il rock nel tempo non è riuscito più a comunicare e crescere. L’industria che gli gira intorno è riuscita ad omologarlo e a fargli perdere l’orientamento. A novembre del 1956, Buddy Holly tiene l’ultima registrazione per la Decca. Vi suonano solo session men, e a Natale dello stesso anno viene pubblicato il singolo “Modern Don Juan”, con sul retro “You Are My One Desire”. Buddy Holly comincia a viaggiare verso altri contesti, e prende a collaborare con Norman Petty, che a Clovis, New Mexico, ha uno studio di registrazione. Petty è un musicista di successo, ha lanciato nelle classifiche di vendita due brani, “Almost Paradise” e “Mood Indigo”, e fa pagare il costo del suo studio non ad ore, ma a canzone. Holly registra qui nuovi brani da proporre alla Decca, che però non gli rinnova il contratto. “That’ll Be The Day” viene nuovamente registrata in questo studio il venticinque febbraio 1957, ed è la versione che andrà in classifica. Qui si forma anche il nucleo storico dei Crickets, che oltre a Buddy Holly, vede Niki Sullivan alla chitarra, Allison alla batteria, e Welborn al basso. Saranno poi le sussidiarie della Decca, Brunnswick e Coral, a distribuire quei dischi. La sera al rientro mi sentivo particolarmente stanco, accesi una spirale d’incenso su un piattino per tentare di allontanare le zanzare, e mi coricai tirando il lenzuolo fin sulla testa. Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza… altri condannati alla dannazione. Ma conviene sempre non fidarsi di nessuno, se non si vuole crepare prima dei propri giorni. Rimasi immobile nel letto con gli occhi sbarrati e, contando le pecorelle, cercai di prendere sonno. Quella sera però non riuscivo a dormire nonostante la spossatezza… allora mi alzai e sul balcone mi accesi una sigaretta. Ne aspirai qualche boccone e la gettai via con disgusto. Guardai il tubo del neon del terrazzino che era assaltato da minuscoli insetti, e tornai a coricarmi, lasciando la finestra spalancata. Alle volte ci sentiamo indifesi tutti infilati negli stessi sogni, tutti uguali, tutti soli. Mi chiesi se era Peggy Sue che mi mancava. Il ventisette maggio del 1957, a nome Crickets, “That’ll Be The Day” fa il botto e arriva al numero uno delle classifiche inglesi, e si piazza terza in quelle americane. L’attività concertistica del gruppo subisce un’impennata notevole, mentre nelle studio di Norman Petty, si continua a lavorare a nuove canzoni. Tra il ventinove giugno e il primo luglio, Buddy registra a suo nome Peggy Sue e, dopo qualche mese dalla sua pubblicazione, parte in tour insieme a Chuck Berry, Drifters, Paul Anka, Eddie Cochran e Fats Domino. La paga è di mille dollari alla settimana. I Crickets e Buddy partirono poi per un tour di venticinque giorni in Inghilterra, dove avevano ben quattro singoli in classifica. Qui partecipano ad una trasmissione della BBC chiamata Off The Record e, subito dopo, fanno ritorno negli States, dove invece prendono parte ad un tour guidato dal disc-jockey Alan Freed, chiamato The Big Beat, insieme a Jerry Lee Lewis e Chuck Berry. E’ nell’agosto del 1958 che Buddy Holly sposa Maria Elena Santiago che ha conosciuto a New York. In questo periodo di cambiamento cerca di diversificare anche il suo repertorio, e invita il sassofonista King Curtis a registrare un suo pezzo, “Reminiscing”. Esistono cose davvero malvagie nel mondo che non smetteranno mai di riprodursi… ma come il sole che ogni giorno continua a sorgere e tramontare, anche l’amore non si ferma mai ed è incontenibile. Continua a scavare e a scalciarci dentro come un bambino nel grembo. “Cos’è stato il rock’n’roll se non quell’illusione di restare per sempre giovani, per sempre innocenti?” Due strofe e un ritornello che è un modo come un altro per non perdere la propria identità, per riconoscersi in qualcosa prima di finire in quel mondo, che è l’ingresso nella vita dei grandi. Dopo l’ultimo tour con Frankie Avalon, il grande Dion And The Belmonts e Bobby Darin, Buddy scioglie i Crickets e si trasferisce a New York, andando ad abitare al Greenwich Village. Qui, con l’orchestra di Dick Jacobs, incide il ventuno ottobre del 1958 un brano di Paul Anka, “It Doesn’t Matter Anymore”. Sono quindici mesi che Holly si divide tra tours e sala d’incisione. A New York finalmente trova il tempo di rilassarsi e incide a casa sua delle canzoni solo per chitarra e voce, pezzi finiti in cui collabora anche sua moglie. Il 2 febbraio del 1959 Buddy Holly ha ventidue anni e, insieme a Dion And The Belmonts, Frankie Sardo, Ritchie Valens e The Big Bopper (J.P. Richardson), si trova al Surf Ballroom di Clear Lake, nello stato dello Iowa. Finito lo spettacolo, per evitare un lungo trasferimento in macchina, e dato che all’indomani devono suonare a Moohead nel Minnesota, Holly, Valens e Big Bopper affittano un aereo, un Beech Bonanza pilotato da Roger Peterson. Nella notte decollano ma l’aereo precipita poco dopo, a cinque miglia dall’aeroporto di Mason City. Muoiono tutti, e verrà accertato che è successo per un tragico errore del pilota, che ha inserito il volo strumentale senza saperlo usare del tutto. “It Doesen’t Matter Anymore”, pubblicata il cinque gennaio del 1959, diventerà il più grande successo di Buddy Holly. La brace della Sua sigaretta brillava nel buio. Quando me la ritrovai dentro casa non mi ricordai se avessi nutrito qualche speranza di rivederla. Attraversai il salone e mi si parò di fronte. Aveva un’aria smarrita. “Vuoi fumare?”, mi chiese nervosa. Una semplice domanda, a cui non seppi rispondere. Era diventata misteriosa. “L’ho sempre saputo che sarei tornata da te”. Mi sentivo bruciare le guance e, prima che ruzzolassi nel buio di me stesso, versai due bicchierini di brandy e mi sedetti sulla panca del terrazzino. La guardai con attenzione. Era bella con i jeans sbiaditi e quella camicetta attillata che gli faceva quasi esplodere il seno. “Perché sei tornata?” gli chiesi… e guardai il cielo nero, chiuso, piatto, sopra la mia testa, in attesa della sua risposta. “Perché è solo qui che ho le mie certezze”. Nonostante fossero le dieci di sera il caldo era ancora soffocante. Scrutai i suoi grandi occhi castani e mi parve gracile. Se ne stava in piedi in un atteggiamento mite, che era anche questo una sorpresa. Avevo sempre avuto un debole per le donne sagaci e tristi. “E’ l’amore, disse, che mi ha portato fin qui, nient’altro”. Non c’era alcuna aggressività in lei, lo notai alle prime luci dell’alba mentre dormiva tranquilla arrotolata nel lenzuolo. E’ un labirinto l’amore che c’inghiotte nelle sue spire e che ci salva da noi stessi. Mi alzai e preparai il caffè. Lo bevvi da solo in silenzio a sorsi molto lenti. Poi accesi la radiolina. “Peggy Sue I love You”.
Bartolo Federico