mercoledì 12 febbraio 2014

Ragazzina Malinconica




Pur di non sviare, si prende la solita strada conosciuta e si ripassa davanti alle medesime cose. La prima a sinistra in direzione nord, diritto per un chilometro, e poi svolta a destra. Il semaforo. E’ rosso, porca puttana. Mentre aspetti, tamburelli con le dita sul volante, e getti un occhiata veloce al conducente che ti sta a lato. Ripartenza. La curva a gomito, la salita, ancora qualche chilometro, svolti a sinistra e subito a destra. Il vialone, il primo incrocio, il secondo, inserisci la freccia e ti arresti. Alla fine si perde l’entusiasmo a fare sempre le stesse cose, lo slancio, il fervore, e ci si ritrova infelici, ammuffiti come il gorgonzola. Certo, non è che vivere rinfocolando sporchi dubbi, che non fanno altro che farci sbandare in inclinazioni disastrose, ci migliora. E non è che questo difetto regredisca con l’età, anzi. Sono davvero un insolente, un esaltato (questo me l’hanno appena detto), lo riconosco, che non vuole capire ciò che, invece, per tutti è già chiaro. Una notizia data nei tiggì, un articolo sui quotidiani nazionali, un post indignato sul blog del giornalista fighetto, i commenti di approvazione dei followers devoti, e inizia un inferno senza fine. La notizia ha fatto il suo corso e non ci sono alternative a quell’insindacabile giudizio. Ma sono un depravato senza cuore, che deve sempre esprimere un dubbio alle verità consacrate, e voglio comprendere quello che non mi dicono. E allora continuo a battere i piedi. In questo modo sarà più complicato tenersi in equilibrio, la spinta e la grinta di questi grandi inquisitori, è energica, ma vale la pena opporsi. Dopotutto ragiono; questi tizi che scribacchiano (ci sono anch’io) mica sono come i miei amici Bukowski, Cèline, Kerouac, e  a questa lista ci aggiungo pochi altri. Loro sì che hanno dato in pasto al mondo l’anima sinceri e puri, che puoi vederne gli anfratti e prenderla a morsi, mentre scorri quelle frasi spudorate e ribelli, che hanno impresso sulla carta, e con cui hanno colto il senso delle cose. Da veri scrittori hanno dato voce a chi voce non ne aveva. Ma vanno letti senza fretta, assaporarli come un buon bicchiere di vino, per non perdere nulla. Anfetaminici, febbrili, sognatori, romantici, visionari, si sono fatti scoppiare la milza per raccontarci la conoscenza a cui sono approdati. Fino al delirio. Nei loro versi puoi sentire i tasti della macchina da scrivere ticchettare nella semioscurità, il respiro affannato delle parole che si inseguono, la puzza d’alcool, il fumo, la miseria, le bestemmie, la iella, le stagioni che passano, gl’incubi, i rovesci di pioggia, e il silenzio. E non c’è mai nessuna condanna nei loro capitoli per la miseria umana. Mai. Perché la verità non esiste, esistono solo le storie, che ci portiamo appreso per vivere. Così anche tu, a poco a poco, ti senti come loro. C’è un tempaccio infame fuori e anche nella mia testa. E’ il troppo amore che alle volte ti fa commettere delle sciocchezze. Tempo fa bruciai un disco, semplicemente perché quelle canzoni mi facevano stare male. Ci buttai dentro quel fuoco anche un libro che lei mi aveva regalato. Jimi Hendrix incendiò la chitarra sul palco di Monterey, dopo averci scopato per tutto il set. Sotto gli occhi attoniti del pubblico. Si commettono gesti insoliti per amore. Capita per mille ragioni di volere far svanire qualcosa che abbiamo adorato. Con questo non voglio dire che tutto sia concesso, lungi da me. Ma ognuno ha il diritto di sbagliare, correggersi, squarciare e rammendare, senza che per delle stupidate si venga additati a criminali da punire. Si possono prendere altre strade, forse il tragitto sarà più tortuoso, pieno di buche, polvere e inquietudini, ma è l’unico che conosca per arrivare in fondo al viale.   
        

            Siediti, hmm, e conta le tue dita. Cosa, che altro puoi fare? So quanto tu possa sentirti solo, so che ti senti finire. Ma vai avanti e siedi con la testa reclinata all’indietro. Vai avanti e contati le piccole dita, mio infelice, mio sfortunato. Oh my little girl blue. Oh, siedi, conta queste lacrime, sentile cadere giù. E’ miele tutto intorno a te. (Little Girl Blue - Janis Joplin).



         Bisogna sempre restare ai margini per proteggersi dall’avidità umana. L’isolamento, però, non sempre è positivo, alle volte bisogna anche ricaricarsi. Janis Joplin è stata una donna intrisa di una immensa sepolcrale solitudine. Una delle migliori cantanti di blues che io abbia mai ascoltato. Forse la migliore. Una lacrima continua, che si accendeva di passione quando era sul palco. Una vita sottosopra, in un sogno che in qualche modo la sosteneva mentre se ne andava da sola verso la casa del diavolo, cantando e lanciando grida atroci al mondo. 


            Bene, le febbri della notte bruciano una donna che non è amata. Si, queste rosse e calde fiamme tentano di cacciar via il vecchio amore. Una donna lasciata sola è la vittima del suo uomo, sì che lo è, quando lui non può continuare sulla sua strada. Buon Dio, lei ha dovuto fare del suo meglio, oh si! Una donna lasciata sola, Signore, una ragazza sola, Dio, Dio.. (A Woman Left Lonely).



         Gli anni sessanta per molti giovani americani sono stati la scoperta del sesso, della droga, della protesta contro la guerra, del mito del viaggio, con e senza pastiglie, e dell’attraversamento della frontiera. L’avevano eletta “l’uomo più brutto del campus” i suoi compagni d’università (probabilmente tanti futuri radical chic) e fu a quel punto che quella ragazzina malinconica fece le valigie e se ne andò in California, la terra promessa, la terra dell’uva. Lei, una texana di Porth Arthur, approda a San Francisco nel quartiere Haight Ashbury frequentato dagli hippie e prova da subito a farsi sentire cantando il blues, in quei locali che entrarci è già di per sé un grosso rischio. Su segnalazione dei genitori la polizia la rintraccia, e viene fatta tornare in Texas già intossicata di metedrina. Ma ormai il seme della ribellione è germogliato in quel corpo goffo e paffutello. Così, dopo qualche tempo, ricompare a San Francisco, dove viene ingaggiata come cantante da Chet Melms, manager dei Big Brother And The Holding Company, un gruppo di rock-blues che senza di lei sarebbe stato destinato all’oblio. Aveva nuotato nella pioggia e si era ubriacata nei blues di Bessie Smith e Billie Holiday, due grandi cantanti. Da loro aveva scrutato, riprodotto, imitato, simulato, saccheggiato, acquisito la drammaticità di cantare il blues, che se non sgorga dall’anima, hai voglia a spingere l’ugola, non viene fuori nulla. Al massimo Yellow Submarine.



         L’appartamento che da poco tempo ho preso in affitto si trova nella zona nord della città ed è in un vecchio palazzo di colore giallino di cinque piani, costruito nei primi anni sessanta. Nella mia scala ci abita un marinaio ricoperto di tatuaggi, un operaio disoccupato, un postino, un salumiere, un venditore ambulante e, proprio sopra al mio alloggio, una maestrina di scuola elementare, la signorina Lina. Il quartiere pullula di persone che vivono di espedienti e che sanno tirare avanti, nonostante i banchieri, la grande finanza, e quei fottuti governanti. Gente fallita, folle, che dalla vita non pretende molto. Gli basta comprarsi le sigarette, un gratta e vinci, mettere la benzina nel furgone, farsi qualche birra e un po’ di spesa al discount. Cose così. Persone disprezzate da molti, ma in fondo anche ammirate, per la libertà assoluta di muoversi dentro una crisi che, invece, sta uccidendo troppa gente che guarda, inerme, consumare il proprio disastro. È molto meglio essere consapevoli del proprio stato e responsabili della propria sorte, piuttosto che farsi infiorettare da quelli che usano frasi roboanti richiamando falsamente i valori di Libertà, Democrazia, Uguaglianza. Gente ipocrita, che ha in mano la nostra vita. Tutta merda, quella. Janis Joplin se ne stava avvinghiata all’asta del microfono con la bocca impastata e il pubblico che la guardava inebetito da sotto al palco. Tutti sognavano dietro quella voce incatramata di raucedine e di Southern Confort (mai nome più bello è stato dato ad un whiskey), un torcibudella micidiale. Lo mandava giù a litri, e più incamerava alcool più diventava magnetica, quella stella luminosa e bellissima. Entrava in trance mentre si esibiva e il suo dolore sgorgava fuori da tutti i pori insieme alle sue visioni e a quelle sensazioni speciali che bruciava con tutto il pubblico. Non si risparmiava in alcun modo, quella bambina. Per Dio! non lo faceva. L’ansia e l’angoscia la divoravano, e quello era l’unico modo che aveva di scacciare i demoni che l’avevano presa in custodia, da quando un giorno si accorse che le promesse ricevute erano solo falsità.



Tempo d’estate, tempo, tempo. Bimbo, la vita è facile. I pesci saltano fuori. E il cotone è alto, Signore, così alto. Tuo padre è ricco e tua madre è di così bell’aspetto. Lei si presenta bene, adesso. Silenzio, bambino, bambino, bambino, No, no, no, non piangere! Non piangere! (Summertime-Janis Joplin)


      
   L’avevo incontrata al market il sabato mattina, la maestrina Lina, sempre solitaria. L’avevo scrutata un poco, prima che lei mi scorgesse, e sbirciata di soppiatto aggirarsi nel reparto dei liquori mentre agguantava una bottiglia di bourbon, celandola abilmente nel carrello della spesa, in mezzo alle verdure. Forse non voleva farsi scoprire da nessuno, non voleva far sapere che anche lei sentiva quell’angoscia torturarle il cuore e il freddo frantumarle le ossa. E in quei casi che riempi il bicchiere di qualunque cosa purché sia liquido, e cominci a pensare. Dopo ne riempi un altro pensando invece che sia quello suo, e via via, altri ancora, in rapida successione, per ritrovarsi in fondo alla stanza a parlare da soli nell’oscurità, credendo sia la notte. Rientrai in casa pensando e ripensando. Sapevo che da quel posto me ne sarei andato presto, ma non potevo stabilire quando questo sarebbe successo. Mi erano capitate troppe cose in quell’ultimo periodo perché avessi ancora voglia di fare programmi. Continuai a scrivere per tutto il giorno il pezzo che mi era stato sollecitato dall’agenzia, lo rilessi una volta sola svogliatamente e spensi il computer. E’ di sera che ho il bisogno di sentire qualcuno vicino. Lei sarebbe rimasta con me, noi due da soli, e sarebbe andato tutto bene. Feci un po’ di pulizie nel soggiorno e nel bagno, erano le nove e mezza o poco più. Le percepii per caso, le note spezzate di “Nobody Knows You When You’re Down And Out” provenire dall’appartamento della signorina Lina, un brano del 1929 di Bessie Smith. La cantante che ha tracciato la strada a tutte le cantanti blues che sono giunte dopo di lei. Aveva uno stile ruvido, Bessie, e il suo blues era malsano e soffocante, e lambiva i confini del jazz, con quegli arrangiamenti tipici delle orchestrine degli anni venti. La sua musica calda e intensa era l’immagine del suo tormento e della sua grande anima che faceva scuotere, non appena apriva bocca. Una donna libera che conduceva una vita eccessiva, anche se l’alcool che ingeriva se lo prendeva tutto il suo dolore. Quel giorno, il 26 settembre 1937, stava guidando, probabilmente ubriaca sulla Highway 61 dalle parti di Clarksdale nel Mississippi, quando ad un tratto la sua auto si scontrò con un camion, e l’imperatrice del blues, così era chiamata Bessie, morì dissanguata. Giunta in ospedale, le fu negata una trasfusione di sangue era pur sempre una negra, quella. Nessuno ti conosce quando sei povera e disperata e in tasca nemmeno una moneta. (Nobody Knows You When You’re Down And Out). Janis Joplin pagò di tasca sua la lapide per la tomba disadorna di Bessie Smith. 


         Sentii bussare alla porta e trasalii un attimo, poi andai ad aprire. “Salve”, mi disse la signorina Lina. Non le risposi subito, non me l’aspettavo di trovarmela di fronte, ma lei passandomi davanti entrò in casa. La feci accomodare nel soggiorno e si sedette accavallando le gambe, con un gesto che trovai seducente. “Non sembra contento di vedermi se vuole vado via”, mi disse. “No” - le risposi- “è che non me l’aspettavo”. “Cosa mi offre da bere, eh mister x”, m’incalzò. “Gradirei un whiskey, se è possibile”. Con la schiena voltata verso il muro, mentre riempivo i bicchieri, le chiesi: “Che cosa le fa male, Lina. Cosa c’è che non va?” La voce era esitante. “Niente, non c’è niente che non vada, ma non ho nessuno con cui parlare, nessuno a cui spiegare le cose che mi accadono”. Mi sedetti sulla sedia di fronte a lei e accesi una sigaretta. Mi guardava con espressione ansiosa, eravamo due perfetti estranei fino a un momento fa. Ma, adesso, stando lì,  una di fronte all’altro, riuscivo a spiegarmi molte cose. Non avevo mai provato niente di simile in vita mia. Bevve un sorso lungo, che quasi si soffocava. Le stavo parlando con grande calma, la guardai, era graziosa anche con la faccia stravolta. Una donna, un whiskey e una bella canzone. Adesso, nessuno dei due aveva più fretta. Intanto la radiolina in cucina suonava Piece Of My Heart.


         Nel 1968 Janis Joplin lasciò i Big Brother And The Holding Company per cercare di imporsi come cantante solista. Una strada dura per una donna, ma lei non amava le cose facili. L’alcool e la droga scorrevano a fiumi nel suo corpo, e l’effetto di questa devastazione si cominciava a sentire anche sulla sua voce, diventata tremante e incerta. Era entrata completamente nel personaggio maledetto e non poteva più tornare indietro, neanche se lo avesse voluto. Anche il blues del suo adorato Leadbelly non le faceva attraversare più il sole. Giaceva immobile in quell’angolo della stanza, mentre ombre d’argento solcavano il soffitto e un odore strano gl’imbottiva il naso. Il suo arrivo al festival di Woodstock la mostrò come un relitto fluttuante nell’oceano. Zuccherosa di morte. Continuava a piovere, ma lei restava con la testa e il corpo esposti dalla parte dei venti, viaggiando in direzione del cuore, che lei e solo lei poteva toccare con le dita. Era così bella in quegli abiti sgargianti e anche la sua goffaggine per un attimo sparì. Ma, adesso, mentre sprofondava nel sonno, andava alla cieca, come un cavallo drogato, quella ragazzina con i jeans e gli occhialini rotondi. Ha solo ventisette anni e un ago ancora in vena quando la trovano riversa nella sua stanza del Landmark Hotel di Hollywood il 4 ottobre del 1970. C’era un caos in quella camera come nella sua testa. Bottiglie di Southern Confort, pillole e un letto disfatto e imbrattato di tutto. Ma, soprattutto, c’è lei la ragazzina malinconica. Il corpo seminudo, coperto a malapena da una vestaglia, ormai ridotta a brandelli, e un braccio fuori dal letto, macchiettato da piccoli forellini rossi. I fori dell’ago. L’ho bruciata, a furia di sentirla in una notte di tormento continuo,“Little Girl Blue. Nessun bollore dura a lungo, fa presto a passare. Il freddo, quello sì, che è interminabile.


Bartolo Federico 



8 commenti:

  1. Bel post, quanti ricordi sono riaffiorati! Anch'io ho parlato di quel particolare momento, non così bene però.

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  2. Grazie ragazzi, è un motivo per andare avanti. In un modo o nell'altro.

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  3. Ciao Bart, splendido post. Mi auguro si arrivi a un "Viaggiatori nella notte, vol. 2", c'è bisogno di autori nuovi (e bada bene che non ho scritto "nuovi autori") in questo paese...

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  4. Grazie massi, davvero, ma sono solo un piccolo scribba, c'è qualcosa in pentola quel diavolaccio di Evil ci sta gia lavorando. grazie ancora massi.

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  5. Una lacrima. Niente parole

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