martedì 17 novembre 2015

Bambino Di Coney Island

Lei dentro un abito rosso lo scrutò nella penombra. Lui con lo sguardo un po’ annebbiato dall’alcool, gli accennò un sorriso. Era una notte umida di un sabato qualunque. Il traffico scorreva lento lungo l’arteria principale e Coney Island Baby una canzone di Lou Reed, risuonava da qualche parte nella mia testa. Là nel buio accadono cose terribili, che ti cambiano per sempre, disse il ragazzo. E prese a raccontargli di quando a quel concerto di musica rock, quegli assassini entrarono sparando all’impazzata sugli spettatori. Ai primi colpi restai immobile, pietrificato dalla paura. Poi non sapendo cosa fare, mi gettai in terra e caddi sopra il corpo di una ragazza, che invece era stata centrata dalle pallottole. Mentre con gli occhi chiusi mi fingevo morto, sentì il suo sangue caldo bagnarmi il viso, per poi lentamente colarmi lungo il collo, come una lacrima. Mi simulai morto, perché considerai che non potevo morire in quel modo. “No, non si può morire in quel modo”, osservò la ragazza. Quando gli spari cessarono, mi alzai e vidi intorno a me centinaia di cadaveri, e macchie di sangue dappertutto. Con un gesto materno lei gli cinse un braccio. Siccome non ho mai creduto alla versione ufficiale dei fatti, continuò il ragazzo, da quella sera ho sempre alimentato un dubbio. E poiché uno ne trascina altri, non faccio altro che tormentarmi. Restano troppi lati oscuri della vicenda. E nessuno mi darà risposte. Ciò che vorrei è la verità. Perché Parigi quella notte, sembrava davvero un cumulo di brillanti spenti. Ed io mi sento come se fossi più nessuno. E l’affermò mantenendo un tono calmo.


Al bar assistetti per caso a quel dialogo. Ero seduto accanto a quella coppia e quando capii di cosa stavano parlando, origliai volutamente. Poi a tarda notte rientrato a casa colpa di quella smania che mi aveva reso nervoso e pensieroso, continuai a bere. Nel tempo ero diventato uno di quelli che avrebbe voluto vivere senza fastidi, senza preoccupazioni. Ma finché si è vivi bisogna mettere in conto, che ti succedono cose che non vorresti. Cose che ti colgono di sorpresa, e ti lasciano ammutolito e lacerato. Nessuno sa cosa ne sarà di noi. Quando la mattina mi alzai alle prime luci dell’alba, spensi la radio che era rimasta accesa, e andai in bagno a vomitare. Invecchiando anche l’alcool mi dava problemi. Faceva cumulo con quelle crepe, che continuavano ad aprirsi dentro di me. Così quell’onda gelida che spesso mi assale, fece la sua comparsa nel primo sole del mattino. Cazzo continuavo a non capire come avevo fatto a bruciare quel poco di talento, che in fondo pensavo di avere. Ero andato alla deriva naufragando lentamente, senza metterci nemmeno troppa fatica. Ma non era  il momento di fare inventari, e riposi sul giradischi “Take No Prisoners” un doppio live di Lou Reed, registrato al Bottom Line di New York , nel 1978


Un disco pieno di rabbia e caos. Musica splendida e travolgente, libera di andare dove gli pare. Un Lou Reed austero, acido, iconoclasta. Che canta canzoni ombrose, abbigliate con nuovi travestimenti. Impregnate dall’odore di cera e plastica bruciata. E da un dolore pungente. Traccia un nuovo ritratto questo disco, della sua complessa personalità. Alle volte sembra di essere precipitati dentro un night club, altre in mezzo a gente che sotto palpebre cadenti, hanno occhi maligni. La sua voce “malata” echeggia il cupo della miseria metropolitana, degli sguardi stinti, che spariscono sotto nuvole di fumo. Di tossici persi nei bassifondi, che la notte insegue con occhi inceneriti. E di quella bambina preda del buio, che in pantaloncini corti e maglietta scollata sulla schiena, cerca quello che è rimasto di lei. Solo guardando in basso si scopre la verità. Il reale significato della vita. E il male per Lou Reed, resta sempre fuori dalla luce del sole.


Per farla breve ho il morale a terra. Ma mi comporto come una persona normale, vado a lavoro, parlo, ascolto. Voglio continuare a dare agli altri l’impressione di essere perfettamente integrato. Ma è vero il contrario. Mi sento sommerso sotto tonnellate di pioggia. Annaspo e vaneggio, mentre mi dirigo verso il nulla. Avendo imparato a riconoscere le bugie, non mi fa più neanche tanto male. E poi ho sempre i miei dischi, e alcuni libri. Alle volte qualche bicchiere. 

Delia, oh Delia, come può essere successo? Amavi tutti quegli ubriaconi, non hai mai amato me. Tutti gli amici che avevo sono morti.” (Delia-Traditional) 

Con voce roca e un viso in ombra, il blues è fermo all’angolo. Ha scarpe vecchie, e un’armonica che soffia melodie malinconiche. E il blues che fa sgorgare dalle chitarre note sbilenche. E’ invece David Johansen che con gli occhi chiusi canta, “Somebody Buy Me A Drink” facendo oscillare tutti i presenti. Dopo una carriera da rocker di razza ( “Live It Up” resta uno dei più grandi dischi di musica rock, di tutti i tempi) e aver mutato pelle in “Buster Poindexter”, Johansen nel duemila registra insieme al suo gruppo Harry Smiths (dal nome del fautore dell’Anthology Of American Music) un omaggio alla musica con cui è cresciuto nelle strade del Bronx. Un viaggio a ritroso nel tempo, cantando canzoni macchiate e impregnate del sudore di tutti quelli che sono fuggiti su strade polverose, con il demonio alle calcagna.



Buongiorno tristezza. La domenica mattina prima del caffè accesi lo stereo. Volevo sentire The Final Tradition di Clark Paterson, un disco appena uscito. Uno che scrive canzoni disperate e piene di vento, Clark. Un bandito fuori dalla zona tiro delle classifiche. Manca poco che puoi sentire l’affanno del suo cuore, batterti in gola. Canzoni che azzardano e si stagliano fiere all’orizzonte, dove un bagliore le illumina. Rock’n’roll selvaggi per cuori scalcagnati, impavidi, cantati da una voce piena di polvere e ruggine. Prima di uscire ho fumato una sigaretta. Ho camminato a lungo. La città era tranquilla. Allora ho puntato verso il mare, era bello, piatto come un lago. E mi è venuto da piangere.


Bartolo Federico

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