martedì 16 febbraio 2016

Il Mio Nome E' Billy Austin




Mentre mi radono i capelli osservo il mio volto stanco e tirato, sono stati giorni duri questi per me. Ho ingoiato sangue e odio e tutti mi guardano come fossi merda secca. Ma sono un uomo, un semplice uomo, che ha cercato riparo mentre imperversava la tempesta. Sono cresciuto in Oklahoma ma sarei potuto nascere in qualsiasi altra parte del mondo. Quando ero piccolo, rannicchiato nel mio letto, mia madre mi accarezzava i capelli e pregavamo il Grande Spirito. Poi spegneva la luce e mi dava il bacio della buonanotte e non chiudeva mai la porta della mia stanzetta, perché sapeva che avevo paura del buio. Crescendo, sentivo tante cose nel mio cuore. Per questo in un diario segreto scrivevo tutto quello che mi passava per la mente. Me lo ricordo ancora, quel quaderno era a quadretti piccoli con la copertina verde ed è stato il mio migliore amico per tanto tempo. Non mi ha mai tradito. L’ultima volta scrissi che da grande volevo andare dove splende il sole, anche se è la pioggia che fa crescere i fiori.


Quando conobbi Esmeralda, fu subito amore. Lei era tutto per me ed io ero tutto per lei. Facemmo l’amore per la prima volta nel granaio in mezzo alle galline. Nessuno dei due sapeva che fare. Provammo vergogna come due bambini, ma ci arrangiammo e fu bellissimo. Avevo sedici anni è il mondo mi rideva, portavo collane e bracciali, avevo i capelli lunghi e scrivevo canzoni. Mio zio Tom, il mio vecchio zio, mi aveva regalato una chitarra Stella che un marines gli aveva venduto quando dovette partire per il Vietnam. Ora quell’uomo è tornato, non suona più la chitarra e abita sulla collina dove coltiva marijuana. Lo zio mi insegnò a suonare le canzoni di Hank Williams, il rock’n’roll e il blues di Mississippi John Hurt. Ma a me piaceva cantare le canzoni che scrivevo, anche se erano storte e sgangherate come diceva lui. Ogni tanto i miei mi permettevano di esibirmi davanti a loro nel cortile di casa. C’erano ancora i miei nonni, si beveva birra e mangiavamo lo stufato di montone. Bei tempi quelli, si proprio bei tempi.

L’amavo la mia Esmeralda, l’amavo con tutto me stesso. Tutti i giorni mi alzavo e andavo a lavorare in un officina meccanica. Avevo le unghie nere e puzzavo di benzina, ma mi piaceva aggiustare le moto, era il mio regno ed ero felice. Il capo mi trattava con dignità e anche i clienti avevano imparato a rispettare un indiano Cherokee. Il sabato, quando il buio calava sulla città, ce ne andavamo in giro abbracciati, lei si metteva il vestito rosso e si agghindava i capelli. Le luci al neon illuminavano i nostri sogni, ero un vero romantico con la mia ragazza di campagna. Le tenevo la mano e le compravo sempre una rosa rossa da Willy il fioraio che aveva i fiori più belli dell’Oklahoma. Non le promisi mai nulla perché le promesse di un uomo sono le menzogne di un altro. Avevo tutto scritto negli occhi. Ringrazio sempre la buona stella che mi ha dato lei. Ecco guarda ho le sue iniziali tatuate sul braccio.


Ero solo un ragazzo, un ragazzo normale che voleva vivere la sua vita. Volevo costruirmi una famiglia come mio papà aveva fatto con la mia mamma. Non m’interessava diventare ricco, ma avrei fatto del mio meglio per renderla felice, prendendomi cura di lei e dei nostri bambini. Quando ci sposammo, ci recammo in macchina in Nebraska a trovare dei suoi cugini. Sulla strada sognai molto e ci intendemmo meglio. Quel giorno le nuvole in città erano nere e gonfie d’acqua, ma in seguito il tempo fu bello che arrivammo d’un fiato. Fu in quel viaggio che lei restò incinta di nostro figlio. Se non ero troppo stanco, alle volte suonavo con il mio amico Steve a cui piacevano le mie canzoni. Tutte quelle che ho scritto quando mi hanno arrestato le ho regalate a lui. Durante un colloquio mi guardava e singhiozzava come un bambino. Non c’è giustizia in Oklahoma disse.


Una sera tornando da lavoro mi fermai in quella stazione di servizio come avevo fatto un centinaio di volte per prendere delle birre. Il ragazzo del banco giaceva a faccia in giù sul pavimento in una pozza di sangue. Invece di girarmi e scappare, feci quello che ogni buon cittadino americano avrebbe fatto: aspettai che arrivasse la polizia. Quando giunsero, mi guardarono e solo perché ero indiano, dissero che ero stato io a sparare e mi arrestarono. Al processo il giudice mi condannò a morte non avevo i soldi per difendermi. Il mio avvocato d’ufficio alzò le spalle, chiuse la valigetta, girò i tacchi e se né andò. Fu un gioco fin troppo facile gettarmi in questa cella per nove lunghi anni, dove ho incontrato solo poveri e negri e non tutti colpevoli. Questa è la mia ultima ora. Il prete è venuto a prendermi. La guardia mi ha legato i piedi e le mani con le catene e sta gridando, mentre apre la cancellata, che sono un “Uomo morto che cammina, un uomo morto che cammina”. Ma chi siete voi per giudicare con certezza che un uomo è colpevole.

Mi chiamo Billy Austin, ho 29 anni, sono nato in Oklahoma e vengo dal quartiere Cherokee.

Bartolo Federico 

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