venerdì 31 dicembre 2010

Ai margini della città

Stavo mettendo un po’ d’ordine alla mia perenne confusione cercando di sistemare i giornali musicali che in oltre 30anni ho conservato quando una copia del Mucchio Selvaggio con Springsteen in copertina (numero 42 anno 1981) è saltata fuori. Il nastro dei ricordi si è riavvolto e magicamente seduto li in terra in mezzo alla polvere delle cose che stanno in soffitta ho riaperto quel numero che raccontava del concerto all’Hallenstadion di Zurigo. Lo ricordavo perfettamente quel reportage di Zambo parola per parola anche perché se non ho mai visto Bruce dal vivo in parte è colpa di quel meraviglioso resoconto. A quel tempo insieme alle canzoni di Bruce, Clash e Tom Waits, il Mucchio è stato la mia giacca per il freddo.

Oggi, rileggendolo, ho pianto come in quella mattina. "Lacrime sulla città, Bad Scooter cerca il suo buco ed io sono solo, assolutamente solo, e non riesco ad andare a casa."

A 18 anni quella mattina di Giugno sarei dovuto andare a scuola, ma passando dal tabacchi-edicola l’unico posto dove arrivava il Mucchio lo vidi appeso con la molletta da bucato che penzolava nel vento. In copertina c’era Bruce e Big Man per cui non ci pensai due volte a fare colletta dato che di soldi non ne avevo. Ma allora la gente era generosa e in breve tempo raggiunsi la somma necessaria comprai il giornale e mi incamminai verso il porto. Mi sedetti sugli scalini del molo dove alcuni anziani stavano pescando. Rimasi lì tutta la mattinata leggendo e rileggendo quel racconto guardando le navi e lo stretto di Messina mentre le lacrime mi inondavano il viso. Poi bighellonai senza meta per la città, andai alla stazione a guardare i treni e poi al bar del porto, dove mi conoscevano tutti quelli che lo bazzicavano. Non erano stinchi di santo, ma erano buoni con me. 

"Vagai solitario per una zona radioattiva e ne usci con l’anima intatta. Mi nascosi nell’ira della folla ma quando mi dissero “siediti” io mi alzai. Ooh..crescevo"

Bruce lo conobbi per caso spulciando le copertine in un negozio di dischi che si chiamava Parametro. Mi ritrovai in mano la copia di Darkness on the Edge of Town e fu un colpo al cuore. Guardavo quella faccia dura e spigolosa, irriverente e malinconica, guardavo quel teppista ed era come guardarmi allo specchio. Ma, come al solito, soldi non ne avevo. Quindi nascosi il disco nel reparto della musica classica per sottrarlo ad un eventuale compratore, perché di copia ce n’era una sola.Non sapevo neanche chi fosse quel tizio dal cognome impronunciabile, ma quella faccia mi aveva detto tutto, tutto quello che c’era da sapere.

Conoscendomi sapevo che avrei trovato il modo per racimolare il denaro, mi serviva solo un po’ di tempo. Il mio amico Sal (come Dean) mi venne in aiuto pochi giorni dopo. Trovò un lavoretto che avremmo fatto di domenica, si trattava di un trasloco. Ci spezzammo la schiena quel giorno, dalle sei del mattino alle undici della sera a trasportare una montagna di scatole, mobilia, suppellettili che non servivano a nulla, ma si sa la gente ama circondarsi di cose inutili. Alla fine della giornata ero distrutto, ma avevo i soldi in tasca ed era quello che contava.

 "Di primo mattino suona il fischio della fabbrica l’uomo si alza dal letto, si veste prende il suo pranzo ed esce nella chiara luce del mattino. È vita, vita, niente altro che vita di lavoro." 

L’indomani il negozio che si trovava vicino alla scuola che frequentavo era aperto già di buon’ora dato che vendeva anche articoli di cartoleria, per cui, prima di entrare in classe, comprai il disco che misi dentro la carpetta da disegno che ogni studente che frequentava il tecnico geometri doveva avere. Quelle sei ore di lezione furono lunghissime. Di tanto in tanto sbirciavo la copertina cercando di memorizzare quel cognome, ma continuavo a fissare il volto, ero ipnotizzato da quello sguardo. Ero prigioniero, mi sentivo soffocare cercavo la mia strada, ma qual’era la mia strada.

"Tutto mi sembrava un vicolo cieco il r’n’r arrivò in una casa dove non esistevano né musica nè libri né qualunque scampolo di creatività, e s’infilò ovunque. "

Suonai quel disco a tutto volume per giorni. Ero il terrore del vicinato, tutti si lamentavano con i miei genitori ma a me non dicevano nulla; di certo il mio aspetto e il mio sguardo faceva la differenza, cosi evitavano di affrontarmi. Alla fine non dissero più nulla, deposero le armi e di certo mi odiarono. Quelle canzoni le mandai giù a memoria. Ogni nota, ogni passaggio lo conoscevo perfettamente.

Quelle canzoni erano state scritte senza filtri senza veli, dopo Woody era la voce della classe operaia, di chi aveva perso tutto; era la voce dei perdenti, dei ribelli sognatori a cui ridava dignità, rispetto, speranza. Sì, la speranza di credere in se stessi, che non è cosa da poco. 

Sei nato con nulla e cosi sei felice. Appena hai qualcosa mandano qualcuno per cercare di portartela via.

Nessuno, tolti i Clash, dopo DARKNESS è riuscito a cantare quei temi con quella violenza e quel romanticismo disarmante perché certe cose non vengono dal nulla ma ti abitano dentro; dopo sarai libero di respirare, l’angoscia se ne andrà, svanirà nel buio e pagherai un prezzo perché c’è sempre un prezzo da pagare. Bruce non le canterà mai più con quella intensità che aveva nel tour del 1978, non avrebbe mai più potuto farlo. Ma da lui in quei giorni imparai a lottare e a non arrendermi mai." 

Le illusioni ti indeboliscono i sogni e le possibilità invece ti rendono forte".

Sono cresciuto nella periferia nord della città, in una valle dove c’era una sola strada e la Fiumara (il mio fiume). Ero circondato da alberi di limoni e mandarini e c’era una grande gebbia dove d’estate mi tuffavo insieme alle rane, ai girini e al lippo (muschio), dopo aver giocato scalzo al pallone con 40 gradi di temperatura (perche un paio di scarpe da calcio non le ho mai avute). Con il mio amico Pino andavamo a caccia di tiraombra e a mangiare le nespole e le ciliege dagli alberi ed avevo sempre un cane randagio con cui dividere il mio panino con il pomodoro, e c’era mia madre affacciata al balcone.

Ho imparato a tenere la guardia alta e a difendermi dai più furbi. Ho fatto a botte, ne ho prese e ne ho date. E’stata dura a volte, ma crescevo solitario e forte. 

"Sono un perdente su questo percorso." Sto morendo, ma non posso tornare indietro perché dall’ombra sento invocare il mio nome e ti accorgi di come ti hanno giocato questa volta. Sono tutte menzogne, ma sono impigliato nei fili di ferro di queste strade di fuoco."

Molto presto mi resi conto che non avrei avuto molte possibilità per la mia vita se non quelle già tracciate da altri: prendevi un diploma poi, facendo le giuste anticamere, ovvero leccando il culo al politico di turno, potevi finire a fare l’impiegato alle poste o in ferrovia o prendere il posto di tuo padre, se era stato servizievole con il suo padrone. Se decidevi di fermarti alla terza media finivi a fare il manovale o a vendere la frutta per strada. Io di leccare il culo non ne ho mai avuto voglia pertanto ero in fuorigioco ero una scheggia impazzita in un sistema perfetto a renderti una nullità. Il il rock mi ha salvato la vita, Bruce mi ha salvato la vita.

Sono andato giù al fiume e mi sono giocato il tutto per tutto da solo con le mie forze.

" C’è chi nasce sotto una buona stella e chi invece la buona stella se la procura in qualsiasi modo".

The River” me lo regalò, mesi dopo l’uscita ufficiale, mio cugino per il mio diciottesimo compleanno. Nel frattempo Zambo, sul numero 35 (nov. 1980) del Mucchio, scaldò i motori, non pago della recensione, con un articolo e un paio di testi tradotti. Sulla copertina del disco c’era sempre lui, ma stavolta era un Bruce agreste, non più metropolitano da bassifondi. Con camicia a scacchi e il viso sicuramente più rilassato sembrava un novello John Fogerty. “The River” al di là delle apparenze, è un disco di canzoni folk vestite di rock. Canzoni che si possono suonare con una chitarra acustica. A differenza di quelle di “Darkness”, disperate,  elettriche fino al midollo.

Quando finalmente arrivò sul piatto del mio piccolo HI-Fi fu una festa di paese, la mia casa si riempi di amici. Avevo fatto proseliti anche nel vicinato, curiosi di ascoltare una musica diversa da quella che passavano in radio. In quei giorni d’estate del 1981, complice il fatto che i miei genitori partirono per andare a trovare una zia, bevvi birra a fiumi e fumai come un turco ascoltando uno dei migliori dischi di sempre. “Wreck on the Highway” è una ballata folk, di tre accordi, struggente e bellissima, una delle migliori di questo gigantesco doppio; è la fine di The River e l’inizio del capolavoro “Nebraska”. 

A volte mi sveglio nell’oscurità e osservo la mia bambina mentre dorme poi mi metto nel letto e la stringo forte. Rimango li la notte pensando ai rottami sull’autostrada”.

Quel concerto lo avevo sognato, lo sentivo nel profondo che quella era l’occasione di vedere il mio Bruce, ma al solito dovevo fare i conti con le mie possibilità, che erano uguali a zero. Quando quel giorno lessi la diretta del concerto di Zambo, capii che quella magia doveva essere irripetibile. Avevo perso la mia occasione; dopo non sarebbe stato più lo stesso.

Arrivò “Nebraska” e poi i giorni di gloria. Cosi, al bivio, me ne andai per le mie strade blu, in cerca delle mie possibilità come lui mi aveva insegnato.

A volte il vecchio fuoco si è riacceso. Penso a “The Ghost of Tom Joad”, a “41 Shots”, “Devils &Dust”. Ma quando ho voglia di rincontrare il mio vecchio amico è sempre al fiume che scendo, al buio, ai margini della città. 

La porta a vetri sbatte il vestito di Mary svolazza come se fosse una visione, balla sotto la veranda mentre la radio suona con Roy Orbison che canta per le persone sole”.

Telefonai a mia madre da una cabina telefonica, verso l’una, per tranquillizzarla, sapevo che era in pena per me, mi vedeva smarrito e silenzioso. Verso le otto di sera andai alla fermata dell’autobus ed aspettai il sette sbarrato per far ritorno a casa. Quando scesi alla fermata vicino la chiesa alzai gli occhi e la vidi affacciata al balcone. Anche lei mi vide e rientrò in casa. Mi incamminai lentamente sali le scale del palazzo e suonai il campanello. Lei venne ad aprirmi e con la sua ruvida dolcezza mi chiese dove fossi stato tutto il giorno. Senza neanche stare a pensarci gli risposi: “A Zurigo mamma, con Mauro Zambellini”. Mi guardò sorniona e pensando che la stessi prendendo in giro mi rispose: "Ed io a New York!". Le sorrisi e l’abbracciai e fu la prima volta che lo facevo.

Messina 30 GIUGNO 2010 BARTOLO FEDERICO

A MAURO ZAMBELLINI CON PROFONDA GRADITUDINE







2 commenti:

  1. Un racconto bellissimo, davvero.
    Son contento di averti trovato.
    Facciamo un pezzo di questa strada polverosa insieme.

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