sabato 4 febbraio 2012

Voglio Parlare Di Te.

La notte sembrava che stesse danzando dentro i suoi respiri, la sua collera e i miei rimpianti. Continuava a piovere senza vento e non dava accenno di smetterla. Nessuno riesce a sfuggire alla propria sorte. Neanche a Sal era riuscito di farlo. Lui che generalmente era cauto, ci aveva preso gusto a sfidarla. Altre volte ne era uscito per il rotto della cuffia, beffandola proprio ai tempi supplementari. Chissà se questo continuo sottrarsi alle sue grinfie, lo aveva illuso di potercela sempre fare. Oppure, semplicemente, non era arrivato ad innestare la marcia indietro. Ma il destino è feroce, impassibile, ti cucina a puntino con pazienza e ti fa fuori in un baleno.

Lasciai vagare i pensieri mentre attraversavo a piedi la città che era una carcassa, e sentii l’odore acre delle mie paure assalirmi. A ognuno il suo viaggio. Il mio era diventato amaro, scortato dalla pioggia e dalla tristezza. Un uomo mi urtò con durezza sul fianco, proseguendo con indifferenza per la sua strada. Mi limitai ad osservarlo con uno sguardo pensoso. Un tempo rimuginai, avrei attaccato briga. Quel senso di giustizia che avevamo entrambi, ci aveva rovinato la vita. Al contrario di tanti, credevamo di sapere da che parte stare. Per questo ci eravamo scollati dal mondo. Come fuggiaschi braccati o, probabilmente, come due coglioni qualunque. Eravamo finiti soli, a scuotere l’ombra delle nostre inquietudini. Avevo il cuore smozzicato, mentre la pioggia si infilava ovunque. Mi spinsi dentro un portone e sul secondo gradino delle scale, una ragazza intenta a fumarsi un joint, stava accovacciata in un angolo, con l’aria di chi stesse aspettando qualcuno. La guardai un istante sotto la luce smorta della lampadina a neon. Il suo volto aveva un espressione che mi ricordò Nico, la chanteuse tedesca. Quella strana creatura inquietante, figlia di quella Berlino mitica e decadente. Accennai un saluto, ma lei si limitò a lanciarmi uno sguardo, di un freddo polare.“Uno, due, tre. Se chiudi la porta la notte potrebbe durare un’eternità. Lascia fuori la luce del sole e di’ addio al mai”.(Afterhours- The Velvet Underground-)

Con Sal, ci eravamo conosciuti da ragazzi. La sua famiglia era venuta a stare nel mio palazzo, nell’appartamento proprio sotto al mio. Da principio quando ci incontravamo per le scale ci scrutavamo in cagnesco. Tutti e due introversi, di poche parole e per niente inclini ai convenevoli. Poi pian piano, non si sa per quale strana alchimia, legammo. E la nostra amicizia si consolidò a tal punto da divenire inseparabili. A volte ci sentivamo come se fossimo, Sal Paradise e Dean Moriarty, i protagonisti inquieti di “Sulla Strada”. La verità è che per due disadattati come noi, era più semplice starsene da soli che vivere in gruppo. “L’universo intero era pazzo e obliquo ed estremamente bizzarro.”(Sulla Strada-Jack Kerouac-)

Quando gli morì il padre, la madre che accudiva altri tre figli, lo rinchiuse per sette lunghi anni in collegio. Quest’evento lo sconquassò per sempre nell’animo. In seguito finita la scuola dell’obbligo, andò a lavorare e con la sua piccola paga settimanale come commesso in un negozio di elettrodomestici, dava una mano per le spese della casa. Altre volte con i suoi risparmi, mi soccorreva, per pagare i dischi che compravo per corrispondenza. A quel tempo, ero uno studente capellone e squattrinato, perso nei sogni di rock’n’roll, innamorato dei grandi spazi e di quelle strade lunghe e diritte che costeggiano il mare e che sembrano sprofondare nell’infinito del cielo. Del blues, di Elvis e di quel pazzo di Jack Kerouac.Tutte cose che nel tempo, anche lui imparò ad apprezzare. ”Manama, amico, lo facciamo; prenditi un’altra birra, amico dacci dentro, dacci dentro!” (Sulla Strada-Jack Kerouac).

Uscii dal portone, squadrando il grigiore della mia vita. Aveva smesso di piovere. L’orologio del campanile segnava le undici e trenta. Ancora troppo presto per far ritorno a casa dai miei fantasmi. Guardai quella fetta di cielo gelido sopra la mia testa. Era sgombro da nuvole, e la luna si mostrò con una cicatrice. Mi brillarono gli occhi pensando che fosse l’ombra di Sal, che se andava scorrazzando lassù. Le note del sax di John Coltrane, di “I want to talk about you” echeggiarono nell’aria.

Era un mondo disgustoso quello che appariva ai suoi occhi, per questo negli ultimi anni si era sempre più sprangato, quasi cercasse dentro se stesso un territorio più adatto per vivere. Non avevamo mai avuto certezze, ma con il passare del tempo questa condizione lo aveva reso insofferente e si era inferocito con il mondo e con la gente che lo sfruttava nel suo lavoro di operaio tuttofare. Proprio lui che aveva un cuore d’oro e neanche un milligrammo di cattiveria alla fine non si fidava più di niente e di nessuno. Con ragione si sentiva solo, debole e insicuro. Cosi con quella rabbia repressa, accumulava rancore giorno dopo giorno. Mentre quella strana nostalgia, che aveva per tutto quello che non era riuscito a fare, gli smantellava il cuore.“Quando sei in un sogno e pensi di aver capito tutti i tuoi problemi, tutte le tessere del puzzle sembrano agitarsi su e giù. E quando poi cominci a cadere e quelle orme cominciano a svanire. Be’ allora sai che stai andando giù sì, stai crollando del tutto e sai che stai andando giù, per l’ultima volta.”(Going Down - Lou Reed -)

Mi sentivo come se avessi avuto diecimila anni. La sua scomparsa mi aveva stramazzato al suolo. Qualcosa era finito, non avevo più niente dietro di me. Forse neanche la mia ombra. Mentre un alone di paura mi cerchiava il viso, sapevo che nulla sarebbe stato più come prima. Qualche nuvola smunta era sbucata nel cielo. Come avrei fatto adesso, me lo chiesi più volte, durante la mia camminata solitaria, con gli occhi appannati dalle lacrime, e la tromba semplice e piena d’umanità di Miles Davis a sorreggermi.

Bartolo Federico -Febbraio 2012-

A Sal, che è stato un dono.



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