Il lunedì è un giorno di merda. Lo è sempre stato. E anche quello, d’altra parte, non si smentiva. Quando uscii di casa, la città era ancora assopita. Il tempo si era messo al bello, dopo la pioggia torrenziale del weekend. Così, mentre camminavo lento e silenzioso verso la macchina, pensai a mio padre. Avevo assorbito molte cose da lui, perfino quella di aprire la porta e lasciare passare. Piccoli dettagli che comunque fanno la differenza. Mio padre è spirato nel sonno di lunedì mattina. Alle quattro e venti, o giù di li. Qualcuno mi ha detto che ha fatto la morte dei giusti. A dire il vero, però, non ho mai capito cosa sia giusto o sbagliato. Ma fa niente. Quel che so è che io e mio padre eravamo amici. Lui si fidava di me, ed io di lui. Avviai l’auto e una lacrima solitaria sbucò nitida tra me e la mia linea di difesa. Ma forse sarebbe meglio dire, la mia linea di frattura. Al di là della quale, si cade a volo d’angelo e ci si ritrova a cospetto dei propri demoni. Le ombre stanno calando e sono stato qui tutto il giorno. fa troppo caldo per dormire e il tempo corre via. Mi sento come se la mia anima fosse diventata d'acciaio, ho ancora delle cicatrici che il sole non ha guarito. Non c'e' neanche abbastanza spazio per essere da qualche parte. Non e' ancora buio, ma lo sarà presto. (*)
Mio padre è
stato un poliziotto, anomalo, ma pur sempre un poliziotto. Per meriti
guadagnati sul campo, arrivò a dirigere il gabinetto di polizia scientifica.
Nel suo lavoro ebbe quasi sempre a che fare con la morte. I cadaveri erano il
suo pane quotidiano. Li fotografava,
prendeva loro le impronte digitali, faceva quei rilievi tecnici a sua
disposizione per saperne di più su quella morte. Rilievi che adesso
apparirebbero assai banali, conoscendo le tecniche sofisticate a cui si è giunti,
che certi telefilm americani hanno reso famosi. Ma allora quello passava il
convento. Quando andò in pensione si trascinò appresso una folla di trapassati.
E quei pochi sogni che aveva conservato si coprirono di melanconia. Ultimamente,
le ombre che lo avevano da sempre inseguito si erano tirate a lucido e, in
qualche modo, materializzate. Nei nostri ultimi incontri mi chiedeva sempre più
spesso cos’erano quelle figure strane che lo andavano a trovare. E ad uno accorto,
come era lui, non poteva certo sfuggire quell’odore. Mi guardava e con voce
dolente, quasi implorando, mi supplicava di mandarlo via. L’odore acre della
paura. Un subbuglio di sentimenti si accavalcavano nel mio animo. Ma quella
percezione che sentivo incunearsi dentro di me era forte e mi parlava chiaro,
sapevo che presto ci saremmo detti addio. Avrei voluto lottare, tenerlo per
sempre con me, ma ero con le spalle al muro. Non potevo fare nulla per nessuno
dei due. Niente di niente. Seduta dietro la porta come fosse stata in una sala
d’attesa, c’era lei, La Morte che, di nero vestita, crepitava per entrare. Quando gli ultimi raggi del giorno
tramontano amico, non rotolerai più. Sento le campane della chiesa suonare in
lontananza. Mi chiedo per chi stiano suonando. So che non posso vincere, ma il
mio cuore proprio non vuole cedere.(*)
Guardai la
mia faccia livida riflettersi nello specchio del bar. Consumai velocemente un
caffè ristretto e stranamente senza zucchero. Scambiai due chiacchiere
svogliate con il barista, pagai il conto ed uscii. Don Peppino, un vecchio
maestro di pianoforte, lo diceva sempre che noi uomini siamo strani. Ci teniamo
stretti le nostre disgrazie, ci occupiamo di loro. Le culliamo, come fossero
bambini in fasce e non le schiodiamo più da lì, neanche a cannonate. In questo
modo viviamo nel passato, ma ci teniamo l’anima occupata, accanendoci su noi
stessi e sul nostro futuro. Dannazione!, ci aveva ragione don Peppino. Anche io
vivo con la testa girata alle spalle. Ma non potevo farmi una colpa se mi erano
toccati due genitori meravigliosi, che mi avevano riempito la vita di amore e
semplicità. Erano stati loro il mio approdo
sicuro, anche quando presi la
peccaminosa strada del blues. Sapevo che, comunque fossero andate le cose, mi
avrebbero sempre aspettato. E mi sentivo forte. Ma solo di questo mi sono
sentito forte nella mia vita. Lo giuro. Sono
stato nel fondo di un mondo pieno di menzogne e non ho cercato niente negli
occhi di nessuno. A volte il mio fardello sembra più pesante di quanto possa
sopportare. Non e' ancora buio, ma lo sarà presto.(* )
Quando nasci senza nulla, nella piena indigenza, volente o nolente
l’ingegno si aguzza. Elmor James iniziò a suonare su uno strumento che si era
costruito da solo. Aveva aggiunto
quattro corde a una scatola di latta. In quella maniera cercava di far uscire
la melodia che c’era in lui. Elmor regalò il cuore alla musica. Perché fin che
la vita suona, tutto ha un senso, puoi sperare di superare le pene devastanti
che un esistenza fatta di privazioni e povertà ti negano. Senza, ci sarebbe
solo il vuoto e il silenzio più assoluto. Siamo alla fine degli anni venti.
Elmor James, che era venuto su in
fretta, non immaginava minimamente che un giorno i libri del blues lo avrebbero
indicato come uno dei rinnovatori più significativi e autentici della musica
del diavolo. Sto camminando lungo strade
morte. Cammino, cammino con te in mente. I miei piedi sono così stanchi, il mio
cervello e' così confuso e le nuvole stanno piangendo.(*) Si alzava polvere da ogni parte
nei campi del Mississippi. Il caldo afoso era soffocante e le zanzare non
davano tregua. Ma quei due ragazzini, imperterriti, se ne andavano alla ricerca
di un ingaggio per suonare. Era il 1936 quando Elmor James incontrò Robert Johnson
che gli insegnò i segreti della chitarra slide e divenne anche la sua guida
spirituale.

Elmor James
se ne stava rannicchiato in un angolo, abbracciato alla sua chitarra, sotto la
pioggia battente. Ad un tratto, un uomo dal viso buono, anch’egli completamente
inzuppato di pioggia, lo invitò ad entrare in quel juke joint che stava
dal’altro lato della strada. Lo sconosciuto era anch’egli un musicista, un
suonatore d’armonica. Sonny Boy Williamson era il suo nome. Fu una gran serata
per chi assistette a quell’esibizione. Tanto che i due fecero per un po’ di
tempo coppia fissa, suonando nei bordelli o dove capitava. Quel che è certo è che Sonny Boy lasciò in
Elmor una traccia indelebile del suo modo di fare blues. Ma il giovane James, un
tipo schivo e taciturno, amava suonare da solo. Tutt’al più, gradiva la
compagnia del suo fraterno amico Robert Johnson che lo accompagnava con la
chitarra ritmica. I due, quando si ritrovavano, erano davvero scatenati a
rincorrere tutto quello che la vita gli poteva concedere in quanto a piaceri. Le
donne e l’alcool furono per entrambi un chiodo fisso. Vizi che in breve tempo li
avrebbero portati all’ombra del fosso. L'aria si sta scaldando, c'e' un brontolio nel cielo. Ho
camminato a stento nelle alte acque fangose con il calore negli occhi che
aumentava. Ogni giorno il tuo ricordo si indebolisce, non mi tormenta più come
un tempo. Ho camminato nel mezzo del nulla, cercando di arrivare in paradiso. Prima
che chiudano la porta. (*)


Un po’ di
tempo fa, mio padre mi disse: non si foraggia mai nessuno con una mano, per poi
eliminarlo con l’altra. Questo è quel che hanno sempre fatto i nostri politici.
Gente cattiva che si organizza e poi ci da dentro. Come in guerra, qui non
viene mai nessuno ad aiutarci. Io e mio padre eravamo amici. Lui si fidava di
me, ed io di lui. Adesso lui è morto. Ed io, io suono il blues della
rassegnazione. Il blues della rassegnazione.
Il sole comincia a splendere su di me.
ma non e' lo stesso sole di sempre. la festa e' finita, e c'è sempre di meno da
dire. Ho occhi nuovi ma tutto sembra molto distante. (*)
Bartolo Federico - Luglio 2012-
(*) Testi tratti dall’album di Bob Dylan “Time Out Of Mind”. un
disco di blues, nero come la pece. Pubblicato nel 1997, dalla Columbia Records
. Prodotto da Daniel Lanois.
Bellissimo
RispondiEliminaGrazie evil monkeys.
EliminaUna gran bella lezione di stile...e rarità ricordare un Dylan blues-man... grazie amico mio!
RispondiEliminagrazie anche a te Nella per leggermi.
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