domenica 20 agosto 2017

Polvere Bianca & Marrone

Bisogna stare in guardia con le parole. Con quell’aria da niente non sai mai che direzione prenderanno.
Le parole sono pericolose, si nascondono e ti fanno scricchiolare, come una lastra di ghiaccio. Le assorbi attraverso le orecchie, il cervello, e poi finiscono nel cuore; ed è lì che ti strangolano, trascinandoti nel panico. Le parole le puoi lasciare scritte sopra il bus, sulla panchina della stazione centrale, o su un sedile di un taxi. Le parole di una canzone però si possono trasformare in una tempesta violenta che mai e poi mai avresti immaginato. Lo diceva Lou Reed che bisogna tenersi due radio, nel caso una si rompa.
A lui il cielo gli era venuto giù molto presto, da quando adolescente i suoi genitori lo avevano sottoposto ad una terapia di elettroshock. I dottori per scoraggiare i suoi comportamenti omosessuali gli mettevano gli elettrodi in testa, e una cosa in gola per non fargli ingoiare la lingua. Lou Reed non si riprese mai davvero da quell’orrore. Nel 1963 ancora ventenne frequenta la Syracuse Univerity dove studia giornalismo, regia cinematografica, scrittura creativa ed è tenuto d’occhio dalla polizia per i suoi comportamenti ambigui. Onde d’oscurità lo avevano avvolto e frastornato, per questo si era defilato dalla folla, per la curiosità di andare a vedere cosa succedeva a quelle ombre che camminavano nel buio, di cui non vedeva la faccia e non sentiva la voce. Una sera mentre si stava esibendo a un party con la chitarra acustica incontra un vero Genio della Musica, il musicista gallese John Cale che era arrivato in America per studiare al conservatorio ma che invece era finito a sperimentare musica nei circuiti dei La Monte Young, John Cage e del gruppo Fluxus. A quella festa guardando quel musicista con quell’acconciatura da Riccardo III, Lou Reed capisce che il fiammifero che teneva in mano era pronto a bruciare. I Primitives sono stati la loro prima band e The Ostrich la loro prima canzone che fu pubblicata come 45 giri nel 1965. Sei mesi dopo arriva il chitarrista Sterling Morrison, e lo scozzese Angus Mc Lise, un visionario che morirà prematuramente. Cominciano a scrivere e produrre altra musica, diventando The Warlocks, e poi The Falling Spikes. Su un vecchio registratore Wollensack di John Cale, iniziano a appuntare qualcosa che somiglia sempre più a un blues malato, oscuro e inquietante. Adattarsi e improvvisare.
La felicità è il rock’n’roll, il rumore. Ci sono cose che bisogna sapere, le cose utili da obbiettare. Gli vengono fuori canzoni che raccontano di storie urbane di strada, di sesso sadomaso, perversioni… e di eroina. C’è chi li trova ancora oggi inascoltabili quei tossici imbroglioni. Nel Bronx un uomo con una giacca di pelle marrone, se ne sta seduto a terra con lo sguardo perso nel vuoto. Il sangue gli cola lungo il collo, imbrattandogli completamente la maglietta. Un tizio poco distante bombato e muscoloso, lo guarda masticando e sputando tabacco. Una Ford impiastricciata di adesivi con due ragazze a bordo percorre il vialone. Nella penombra di un appartamento un uomo alza la cornetta del telefono e compone un numero. Parlotta e riaggancia. La giovinezza è tutto. Un giro di ritornello e ti ritrovi nella nebbia. “Il segreto è resistere” gli aveva detto il boss del quartiere, un mafioso siciliano di Castellamare Del Golfo. Devi resistere un po’ più degli altri “Cowboy Billy”, così finiranno per stancarsi; ma andando avanti si diventa una schifezza e in cattiveria non è che si migliori.
Tormenti, ossessioni, rimasugli, sbavature, gocciolano lentamente sulla tua pelle, e non ti fanno più dormire. Però quando si è poveri è un dovere provarle tutte. Per fuggire e mettersi a sognare. Fu il batterista Angus Mc Lise che scovò il nome Velvet Underground, sbirciando su una bancarella di libri gli parve interessante quella rivista sadomaso, dal nome assai bizzarro. Lou e John però lo sostituirono e alla batteria fecero sedere Maureen Tucker, una ragazza dall’aspetto androgino. Andy Warhol un pittore e scultore di grande fama, li vide suonare una sera al Cafè Bizarre del Village e fu talmente rapito da quei tipi da prenderli subito sotto la sua custodia. Alla “Factory”, così si chiamava lo studio di Warhol, decisero che però era il caso di affiancare a Lou Reed una ragazza che potesse cantare le sue canzoni, una tipa bellissima che avevano conosciuto qualche tempo prima, quando era passata per lasciargli una copia del disco che aveva fatto a Londra con Andrew Loog Oldham. Christa Paffgen in arte Nico non era la solita svampita ma una che aveva carisma; e anche se non era una cantante professionista, aveva una voce profonda e buia che ben si adattava alla loro musica. Fare accettare questa condizione a Lou Reed, era davvero una cosa complicata. Fu la paziente e meticolosa mediazione di John Cale che permise quell’accordo. L’otto febbraio del 1966 prende il via l’Exploding Plastic Inevitable uno spettacolo ideato da Andy Warhol che unisce il balletto ai film, alle luci, agli happening e ai Velvet Underground. Paura, gente viziosa, dolori. Una nuova amica catturata nel buio e Lou Reed che diventa il suo prodigo amante. L’amore alle volte è una distrazione ma ci tenevano tutti quanti al lato tragico della vita. Anche la “Principessa di Ghiaccio”. C’è rabbia nei loro dischi, il sogno supremo, le femmine fatali, le venere in pelliccia, l’odio e la gelosia. Quando entrarono in scena con i loro stivali, occhiali scuri, camicie a pois, pantaloni a righini e cinturoni, si capiva al volo che stava succedendo qualcosa, si sentiva nell’aria.
Le potevi respirare quelle cose strane, quelle cose nuove. Non vi era niente dietro il vetro. Nessun sorriso e nemmeno inganni. Solo sospiri. Quelli erano ovunque. Il gennaio del 1967 vede la luce il loro primo epocale album: “Velvet Underground and Nico” prodotto da Andy Warhol. Erano passati nove mesi da quando lo avevano inciso, dato che la Verve, l’etichetta che lo aveva accettato per distribuirlo, aveva dato la precedenza alla pubblicazione del disco dei Mothers of Invention di Frank Zappa. Se cercate qualcosa di illegale, se la menzogna vi attira e della vanità non potete fare a meno, il vostro viaggio in chiaro scuro è appena iniziato. Sunday Morning, I ‘m Waiting For The Man, Femme Fatale, Venus in Furs, Run Run Run, All Tomorow ‘s Parties, Heroin, There She Goes Again, I’ll Be Your Mirror, The Black Angel’s Death Song, European Son (anticipazione di musica industriale) dedicata allo scrittore e poeta Delmore Schwartz morto nel 1966 dopo una vita di follia. Sono le canzoni scritte per tutti gli emarginati, i dimenticati del mondo. Come in una vertigine la testa prenderà a girarvi e il dubbio vi penetrerà; è qui che il rock è stato rimodellato, e rimesso a nuovo. Qui lo hanno fracassato e, mentre rantolava, l’hanno fotografato nelle sue più oscure visioni. Poi lo hanno spinto nella notte più profonda, nella poesia di cui i posteri si abbaglieranno.
Quelle due tipe sulla ventiduesima strada, dove ci vuole un sacco di coraggio solo per fermarsi, provarono una scossa tremenda mentre compravano polvere bianca e marrone. Diedero al travestito la mazzetta dei soldi che lui nascose abilmente nel reggiseno, quasi fosse un biglietto galante. La vita si riprende qualsiasi cosa, senza che tu abbia potuto capire quel che aveva da raccontarti. Era un desiderio di purezza quello che i Velvet Underground stavano inseguendo in una New York allucinante e disperata, dove il gelo della notte ti flagellava le ossa e ti minacciava di morte. Una città sempre in agguato, stretta in un dolore immenso, impallidita fino al bianco degli occhi.  La loro storia con vista metropolitana fa a pezzi tanti presunti sperimentatori. Si farebbe peccato a non conoscerli. Glaciali, acidi, disincantati. Il loro sguardo si posa su tutti quelli che ascoltano musica ma gli arriva il rumore metallico delle automobili in transito, della schizofrenia del mago cornuto, del click della pistola per la roulette russa. Della festa ingannevole dei fine settimana. Tutt’intorno e sopra il cielo c’è un rumore duro e opprimente di chitarre che girano, rotolano e gemono. C’è una rabbia in quel frastuono che ti fa rabbrividire, dalle orecchie fino ai piedi, ti agita le budella, ti dà scossoni dall’alto fino in basso. Vorresti fermare tutto ma è come sentire il tuo cuore che batte. È una catastrofe sonante “White Light/White Heat”, il loro secondo album uscito nel dicembre del 1967. Musica suonata dentro una scatola d’acciaio, così violenta da scatenare dei silenzi profondi, per quel brivido che ti scombussola. Ancora oggi, questo è il futuro del rock’n’roll. La collaborazione fra Cale e Reed tocca il suo apice. C’è una tensione tremenda in queste canzoni che fa saltare i nervi. Basta una piccola spinta e ti ritrovi nel baratro.
Sister Ray è un pezzo da diciassette minuti che sembra suonato da mille strumenti. C’è tutto dentro questa scatola magica, esaltazione, inebetimento, delirio puro. Il tempo lo mantiene ancora vivo questo disco, nella sua spasmodica frenesia. “Questa strada forse assomiglia ad un’altra” disse “Cowboy Billy”. “Non conosco nessuno in questo posto ma sto cercando di placare questa mania che ho di svignarmela. Questa sciocca angoscia che mi perseguita e mi tormenta”. Sono state scritte da Lou Reed le liriche e quasi tutte le musiche delle canzoni dei Velvet Underground. Per Lou le donne che soggiogano gli uomini al loro volere sono come un’ossessione. Donne sfuggenti, fatali, come Nico che un giorno lo pianta per andarsene con l’amico John Cale e poi semplicemente sparisce: è per questo che sono finiti i Velvet Underground, per gelosia. Lou Reed dopo una riunione con Sterling Morrison e Maureen Tucker allontana John Cale dal gruppo, che viene rimpiazzato da Doug Vule un ottimo musicista ma non un genio come Cale. L’album “The Velvet Underground” esce nel 1969, ed è come se ci portassimo nella nostra solitudine una nuova ragione d’angoscia. Lo spazio creativo adesso è tutto in mano a Lou Reed. Anche se le atmosfere si fanno più morbide, più liquide, meno ossessive, le canzoni non perdono in tensione, anzi acquistano un’impronta più sofisticata, quasi dandy.  Qui c’è qualcosa di diverso che assomiglia a un vero sentimento. C’è un insieme che tiene unito il tutto, non venendo mai meno quel tono malato, malsano e inquieto che è la prerogativa della musica dei Velvet… è sempre una strada stretta e piena di tenebre quella che percorrono. Soltanto meno rumorosa: è nelle crepe più buie che lentamente e quasi senza rendercene conto, si perde il proprio destino. Un giorno ci voltiamo indietro ed già troppo tardi per cambiare direzione. Sembra una cosa banale, ma il più delle volte accade proprio così. “Cowboy Billy” si guardò intorno, e disse al tassista: “qui c’erano interi quartieri che pullulavano di persone, gente e ancora gente, potevi incontrare chiunque per strada. Pittori, vagabondi, musicisti, poeti e visionari. Beni preziosi per l’umanità. Alle volte però la strada è come una ferita triste”. “Loaded” uscito nel 1970, segna la fine della più grande rock’n’roll band che sia mai esistita su questo pianeta. L’ho detto e lo ripeto. La più grande rock’n’roll band che sia mai esistita su questo pianeta.
Questo è il loro ultimo disco ma è anche il percorso solista di Lou Reed. Come sempre avviene quando ci sono di mezzo quei radical-chic che hanno scritto la storia del rock, quest’opera è stata considerata paccottiglia. Si sono divertiti a parlarne male e anche a sproposito. Però “Loaded” non è un disco minore, o da prendere sottogamba; è il turno di notte di tutti quelli che hanno spinto la vita per non farsi nascondere nulla, è la bandiera di chi se ne fotte se la città è troppo grande e finirà per schiacciarlo. “Perché un bel giorno sente una stazione di New York e non riesce quasi a credere a ciò che sente, proprio no. Comincia a muoversi a quella musica favolosa. Sai, la sua vita fu salvata dal rock’n’roll si, rock’n’roll” (Rock&Roll). E’ in questo disco che un mucchio di artisti, durante gli anni settanta ha trovato l’ispirazione per scrivere le loro canzoni. “Loaded” è un disco da portarsi per strada quando si viene fuori dalle tenebre deliranti e si torna a viaggiare su dimensioni più reali. L’inizio di una nuova era. “Non c’è la farai mai” gli disse il taxista “ad arrivare al confine”. “Provaci” rispose “Cowboy Billy” toccando il calcio della pistola.
“Ora ascoltami, vai a destra, poi svolti e dritto verso l’autostrada”. Il taxista fece stridere con rabbia le gomme sull’asfalto, accelerò e si immise lungo l’arteria che rasentava i centri commerciali. Qualcuno lo chiamò via radio. “Taxi 109! Taxi 109!”… Non rispose. Continuò a guidare cambiando fila di frequente, accelerando ogni volta che trovava dove infilarsi. Teneva un occhio sullo specchietto retrovisore, e poi finalmente accese anche la radio. Attraversarono la città lasciandosi dietro l’urlo delle sirene. Tijuana adesso era più vicina.

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