giovedì 17 agosto 2017

Cara Palombelli, anche Giulio Regeni senza coraggio?



Cara Palomba,
Si è parlato molto della ciabattata che qualche giorno fa hai tirato in faccia ai giovani giornalisti italiani – intendendo per “giovani” quegli under 40 che in qualunque altro Paese del mondo sarebbero considerati vecchi da un pezzo.
In passato, altri esponenti della tua “generazione 50” – quella nata appunto negli anni ’50, che dagli anni ’80 occupa tutti gli avamposti di potere nel Paese – avevano randellato i giovani, non solo i giornalisti, chiamandoli bamboccioni, choosy, mammoni, eccetera; tu invece l’hai presa sul personale, ovvero dal punto di vista del giornalismo.
Il problema, secondo te, è che la mia è una generazione di cagasotto, senza il coraggio necessario a “scrivere la verità”. Giusto ieri ho letto un articolo del New York Times su Giulio Regeni, e allora ho deciso di scriverti, per raccontarti un episodio che mi è successo l’anno scorso – e nello stesso tempo, per inserire le tue parole nel contesto generale del Paese.
Circa un anno fa ho scritto una riflessione sulla satira in Italia, che partiva dalla vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto ad Amatrice. Per uno di quei meccanismi strani del web, l’articolo è stato letto da un milione di persone (non so se tutti cagasotto o meno). Qualcuno lo ha segnalato a Charlie, che lo ha tradotto in francese e pubblicato sulle sue pagine.
Poi quelli di Charlie mi hanno chiamato, per invitarmi a Parigi; io ci sono andato e, ti posso assicurare, lassù c’è veramente da cagarsi sotto: la redazione è un bunker segreto, per andarci devi firmare una dichiarazione in cui ti impegni, con l’anti-terrorismo, a non rivelare a nessuno dove si trova; dentro ci sono decine di agenti mitra alla mano e i giornalisti girano col giubbotto anti-proiettile. Il tutto per tutelare il diritto a disegnare Donald Trump con la vagina e la Merkel con il pistolino: pensa che Occidente di cagasotto che siamo.
Questa esperienza l’ho raccontata in un reportage, che aveva, quanto meno, il pregio dell’esclusiva, visto che prima di me nessun giornalista aveva mai avuto il permesso di entrare.
Tornato in Italia, ho inviato, senza “contatti” o “intermediari”, il mio pezzo ad alcuni direttori di  testate con cui tu collabori o hai collaborato, e il risultato è stato il seguente: un  direttore figlio d’arte non mi ha risposto; un altro noto direttore anche lui figlio d’arte non mi ha risposto; il capo-redattore esteri di un noto quotidiano mi ha risposto, dalle piste da sci, dicendo che avrebbe “dato un’occhiata” e poi non ha risposto; un altro vice-direttore ha fatto sapere che avrebbe risposto e poi è sparito.
Ho avuto allora un tragico sospetto: quello di aver scritto una cagata pazzesca, tipo tennista che sbaglia un comodo smash sul centrale di Wimbledon.
Però ho fatto la contro-prova. Ho tradotto il pezzo in francese, e l’ho mandato al quotidiano francese Liberation. Sei ore dopo, avevo nella mail una proposta di acquisto, e il 5 gennaio 2017, a due anni dall’attentato, il mio pezzo è uscito in prima pagina sul quotidiano francese.
Da li in poi quel reportage è stato tradotto e pubblicato altrove, in giapponese, in spagnolo, sono stato invitato in una trasmissione in Francia, una in Canada e perfino in Honduras, sempre senza “contatti” o “intermediari”: ma questo non ha importanza.
Ciò che conta, cara Palomba, è che come vedi non è questione di scrivere la verità: puoi avere tra le mani una storia di rilevanza mondiale, ma al mondo del grande giornalismo italiano, stupefacente miniatura di tutta la società italiana, non frega assolutamente nulla. Perché voi della Generazione 50 avete preso il giornalismo, come molti altri settori culturali ed economici del Paese, e li avete trasformati in ghetti impermeabili a ogni interferenza esterna, dove passate le giornate a parlarvi addosso e, se usate il web, lo usate giusto per sbirciare Dagospia e vedere se Dago parla di voi.
Al merito avete sostituito gli spaghetti: ciò che conta non è la qualità del lavoro di una persona, ma andare a farce du spaghi nel posto giusto, insieme alle persone giuste, e se non le conosci peggio per te.
Del resto è stato il Ministro Poletti a dire che per trovare lavoro non bisogna mandare il curriculum ma giocare bene a calcetto.
La frase ha suscitato scandalo, ma il Ministro ha solo ribadito l’ovvio, ovvero che in Italia l’unico collante che tiene insieme il Paese è il capitalismo di relazione, definizione edulcorata per riferirsi al modello culturale italiano dominante: la cultura mafiosa, il riflesso pavloviano per cui, se deve affidare un lavoro a qualcuno, il datore di lavoro non si affida al mercato ma all’amico dell’amico; così poi quella persona gli dovrà a sua volta un favore, e in questo suk sommerso di favori fatti e restituiti le gerarchie sociali rimangono intatte.
Capisco che per voi della generazione 50 si tratti di un meccanismo perfetto: i vostri privilegi sono salvi, dall’alto vi godete il panorama di quelli nati dopo che, come cani, si sbranano per spartirsi le briciole.
È  per questo che con cadenza regolare scendete dal piedistallo per dircene quattro e ribadire lo status quo con un pretesto.
Però mi duole darvi una notizia: quelle cose per cui voi dareste la vita, a molti di noi non interessano più. Le ospitate in Rai, i premi alle sagre di Paese d’estate con “Cuore Matto” in sottofondo, il tavolo al Bolognese con vista sul carrello dei bolliti… per molte persone con una qualsiasi professione nel mondo “digital”, sono cose che contano quanto i consigli del dietologo per Giuliano Ferrara: meno di zero.
Oltre alla possibilità di rivolgersi all’estero, già oggi gli investimenti sul web, monetizzati con clicks, followers e visualizzazioni, permettono ai creatori di contenuti di guadagnare come e a volte più delle loro controparti sui media tradizionali: e in Futuro, nonostante i tentativi sempre più disperati per fermarne l’avanzata, la situazione non potrà che migliorare.
Il fatto che tu, cara Palomba, non sappia nominare nessuna “firma” uscita dal web denota solo una cosa: l’ostinazione tua e di tutta la Generazione 50 ad ignorare le eccellenze che il web italiano esprime in ogni campo da almeno dieci anni.
E qui arriviamo all’articolo del New York Times.
A proposito del coraggio di cui parli, faceva impressione leggere il quotidiano più autorevole del mondo parlare di Regeni. Non del “povero” Regeni ma del Regeni eccellente professionista, del giornalista cazzuto e del suo lavoro brillante, raccontato con il massimo rispetto. Lo stesso Regeni che l’Italia della tua generazione 50 e delle “grandi firme” spingeva verso una carriera di retroguardia, e che era andato all’estero per sfuggire alla stessa logica per cui il reportage su Charlie nelle redazioni italiane non fu manco letto mentre all’estero fu pubblicato in prima pagina.
Credimi Palomba: alla luce di quell’articolo, le tue parole mi sono sembrate talmente comiche e grottesche che mi sono messo a ridere da solo, anche se in effetti ci sarebbe stato da piangere.

 Francesco Francio Mazza

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