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Ricorda che la città è un posto divertente. Qualcosa come un circo o una fogna. E adesso, la città è una fogna per me, tesoro. (Coney Island Baby)
I segni delle sconfitte alle volte non vanno via. Facciamo finta di non saperlo, ma andiamo tutti quanti verso gli stessi posti, facciamo le stesse cose, che qualcuno prima di noi ha già fatto… e allora perché spargiamo tutto questo dolore? Perché non ci meravigliamo più di nulla? Invece ce ne restiamo da soli avvinghiati a quelle cose che ci hanno ferito profondamente, lasciandoci attoniti con la testa sul cuscino. Sembra strano ma quando eravamo deboli, eravamo forti… e in quei giorni che abbiamo cercato di tenere tutto il piacere del mondo stretto nella morsa delle nostre dita, di approfittarne quando ancora il presente, il futuro, il passato, non erano niente e, a quelle parole che rotolavano dentro di noi, gli siamo andati contro e le abbiamo sfilacciate, ammucchiate, e nella notte dato fuoco, mentre c’incendiavamo di musica. Fin quando stremati lo abbiamo confessato all’alba di un giorno qualunque a questo stupido mondo, che era proprio quello stupore che stavamo cercando. La vita è piena di delusioni, di sogni rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte ma, tutto sommato, la speranza non costa nulla. Non riesco a farmela passare però quest’angoscia, che mi fa sentire un relitto. Non posso pensarci a come sarà stato. A come si saranno sentiti quei ragazzi al Bataclan, mentre gli sparavano addosso. Mi ha cambiato per sempre quella notte, quel rantolo d’umanità che serbavo me l’ha portato via. Penso a tutte le occasioni che si sono persi alle cose che non riusciranno a fare, perché qualcuno in nome di non si sa che cosa, si è preso il loro tempo. Una volta la terra è stata un paradiso terrestre. La mia cucina è in miniatura e dà su un piccolo cortiletto sporco e pieno di vecchie cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra.
“Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel che resta di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per gatti”. Un cane arrotolato su se stesso, dorme sempre a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo da ragazzo giocavo a carte, bevendo succo di pera mischiato a gin. Presi una birra e accesi lo stereo. Con mio fratello da bambini giocavamo ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contai più di cinquanta. Ero cresciuto in quel quartiere dove conoscevo tutti, e in qualche modo in quel luogo mi sentivo al sicuro ma, adesso, molte cose sono cambiate. C’è stato un tempo in cui la terra promessa per il rock era la Francia. Parigi ha accolto tutti quei bastardi e ribelli che il sistema discografico cacciava a pedate: troppo liberi, tosti e anarchici, per il “music business”. Gente che ricordava a tutti quanti, che il rock’n’roll è roba da usare con cura. Accadeva a ridosso del 1980 quando il punk, la più grande rivoluzione culturale di massa, si stava spegnendo sotto le grandi luci del mondo, che due amici, Patrick Mathé e Louis Thevenon, gestori del negozio di dischi Music Box e della piccola etichetta Flamingo Records, decisero di trasformarsi in New Rose Records, etichetta che prese il nome da una canzone dei Damned. Tra nuove band e gruppi musicali francesi la New Rose ha dato un’opportunità a questi fuggitivi del rock: Willie Alexander, Alex Chilton, Sky Saxon, Roky Erickson, The Real Kids, Charlie Feathers, Tav Falco, True West, Calvin Russell, Gun Club, Dead Kennedys, Cramps, Green On Red, Giant Sand, The Primevals, Alejandro Escovedo, Bo Diddley, Alvin Lee, Robert Gordon, Elliott Murphy The Slickee Boys, Paul Roland, Dr Feelgood, That Petrol Emotion, The Chesterfield Kings, Maureen Tucker, The Inmates, Percy Sledge, Johnny Thunders l’anima maledetta delle New York Dolls, e altri ancora. Il rock della New Rose ha i denti macchiati di sangue, e la faccia spigolosa. Il più delle volte soffre di nausea, e sente il corpo fluttuare. Vaneggia e barcolla, ed è costretto a mentire per restare vivo. Perché questo rock non fa tendenza, ma suona essenziale e vero. Le chitarre ringhiano e prendono fuoco in mano a quei selvaggi, con Lou Reed e Jim Morrison, attaccati nel cuore. Dietro le sbarre di una prigione qualcuno strizza gli occhi e con la mano si tocca quel rozzo tatuaggio rammendato sul braccio. “Rock’n’roll Heart” c’è scritto. Nient’altro. Stamattina quando mi sono alzato, fuori pioveva. La pioggia picchiettava sulla veranda noiosamente. Me li ricordo bene quei giorni, quando anch’io volevo tutto e subito. Con gli anni però ho dovuto imparare ad avere pazienza, a tessere la tela, ad aspettare il momento propizio… ma non vado orgoglioso di questo. Perché le cose più belle sono quelle che hai lasciato scritto da qualche parte, sul muro dei ricordi. Un caldo e umido pomeriggio di settembre, io e lei in una piccola stanza d’albergo. La radio accesa che suonava Coney Island Baby. Abbiamo fatto l’amore con voracità e trasporto standocene aggrappati l’uno all’altro, come ad uno scoglio. Poi abbiamo dormito a lungo. Lei aveva diciannove anni, io venti… è sempre quello che non hai previsto che ti mette al tappeto.
Bartolo Federico
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