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mercoledì 6 febbraio 2019

Lungo La Strada Ferrata

Mi sono svegliato nella mia stanza d’albergo vicino la ferrovia con la moquette sfilacciata e le tende bruciacchiate dalle sigarette; mi sono lavato, ho afferrato la mia sacca da marinaio piena delle mie speranze e me ne sono andato. Fuori non c’era anima viva, ma ho guardato bene lo stesso alla ricerca di qualche sagoma da poliziotto. Mentre camminavo già sentivo le ondate di calore dell’afoso mattino farmi colare gocce di sudore dalla fronte. Sarei saltato sul primo treno che andava verso Jackson, Mississippi, e dal finestrino avrei guardato le paludi, le colline tondeggianti ed i grandi spazi che circondano l’America. Avrei cercato di stare in guardia, perché i vagabondi non piacciono alla gente, né alla polizia. Ma con la mia chitarra non passavo inosservato. Da ragazzo, quando andavo in giro con mio padre che suonava per hobby agli angoli delle strade, avevo preso l’abitudine di portarla con me, alla maniera di Arthur “Big Boy“ Crudup, a tracolla come un fucile con il manico rivolto verso il basso. Quella chitarra fu regalata a mio padre da Slim Harpo di cui era amico e, a sua volta, papà la regalo a me che da allora la tenni come una reliquia. In fondo, era l’unica cosa di valore che possedevo. Una sola volta la prestai, lui è un mio amico e si chiama Sonny Landreth, perché gli serviva per incidere “Way Down in Louisiana”, ma è successo tanto tempo fa. Quando il lungo treno arrivò in stazione sbuffando, salii su una carrozza in coda e presi posto vicino al finestrino. Da lì vidi il capotreno che con un movimento della mano dava il segnale di partenza, dopo di che sentii due volte il fischio e il convoglio si avviò. L’alba è ancora tinta di rosa le canne ondeggiano nei campi ed io sono come il vento, vado dove mi pare. In Texas avevo ascoltato gli Statesboro Revue e mi era presa la smania di rimettermi in viaggio verso Sud. Volevo rivedere le fattorie sgangherate, i campi di cotone e le acque fangose del Mississippi, le liane e le querce, gli aceri della palude ed i cachi. Quei ragazzi avevano fatto “Different Kind of Light“, un disco splendido, shakerando gli umori ed i sapori del Sud, i canti della libertà e il rock selvatico dei Black Crowes di “Shake Your Money Maker”. Ad ogni generazione i suoi Rolling Stones, a loro erano toccati i Crowes. La musica degli Statesboro Revue viaggia per immagini e sensazioni, con la slide e il dobro in evidenza, le chitarre energiche ma mai invadenti, un piano ritmico che sembra sbucato fuori da qualche barrellhouse ed un cantante intenso e ruvido, ma modulato e pieno di soul, che a tratti ricorda Van Morrison da giovane, ma anche il debordante Mike Farris di “Salvation In Lights”.Non prendono nessuna scorciatoia, nessuna deviazione, né sentieri paralleli. Gli Statesboro, vanno dritto al nocciolo, non facendosi mancare nulla del bagaglio del Blues, incluso le armoniche, i cori gospel a sostenere le atmosfere paludose da Bayou, piene di passione e magia che hanno fatto di “Different Kind of Light“ un disco che suona duro e dolce come il pioppo e scuro come l’acqua del lungo fiume. Il cielo del Mississippi è chiuso da nuvole, ma non sono nuvole di pioggia, l’aria profuma di zucchero di canna e miele. Jim Dickinson ha avuto il permesso di sbarco e cammina fin dietro l’angolo con il suo cappello e la pistola dentro i jeans. Adesso, per purificarsi l’anima, è arruolato per sempre nell’esercito della salvezza.
Mona ha tentato di avvertirmi di stare alla larga dai binari ha detto che tutti i ferrovieri bevono il sangue come vino ed io ho risposto “oh non lo sapevo”, ma poi ne ho incontrato solo uno e mi ha solo affumicato le palpebre e forato la sigaretta.” (Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again”. (Bob Dylan).
“Keys to the Kingdom” i fratelli Dickinson lo hanno registrato rendendo omaggio al padre, scomparso nel 2009. Dentro ci sono tutti gli ingredienti emotivi e psicologici che il Blues sa spargere. Mentre suonavano queste canzoni magre e spigolose, sono stati raggiunti da vecchi amici come Ry CooderMavis Staples e Alvin Youngblood Hart. Ne è venuto fuori un disco incazzato e amaro, impregnato di “canned heat”, itinerante e sgretolato come solo il Blues ancorato alla tradizione può essere. Luther Dickinson dimostra, ancora una volta, la sua bravura alla chitarra riuscendo a sostenere, insieme al fratello Cody alla batteria, un Blues scavato e sofferto che sa emanare calore umano e, nello stesso tempo, essere carismatico e semplice, che dosa tecnica e feeling rendendo cosi alcuni momenti davvero straordinari. Tutte cose che riescono solo ai fuoriclasse. Ecco che me ne andavo tranquillo per la mia strada, con la barba ispida e incolta e i capelli arruffati, quando in un sonnolento pomeriggio bussai alla sua porta, mentre i pescatori all’ombra delle querce bevevano birra e mangiavano salsiccia. “Va tutto bene”, mi disse guardandomi, “non saresti dovuto venire” proseguì, ma i suoi occhi rotondi e neri mentivano. La guardai intanto che il sole stava tramontando proprio dietro casa sua e l’unica cosa che riuscii a dire fu: “Che bello essere a casa”.

martedì 18 dicembre 2018

Dannato Stasera Non Piangere.

 Il bar Cosimo all’ora di pranzo era pieno di impiegati, indaffarati a mangiare insalate, e qualche arancino al ragù. Vite ordinarie quelle, con le loro preoccupazioni e le proprie ansie. Persone normali, con progetti, speranze e, probabilmente, qualche sogno cucito chissà dove. Avevo cercato riparo dai miei silenzi, e dai miei blues, standomene assorto davanti a un bicchiere di vino rosso. Troppi punti deboli, troppe lacune si erano aperte dentro di me. Girai gli occhi e incrociai lo sguardo di una ragazza col seno grosso che si toccava i capelli. Lei mi guardò ammiccando con un piccolo sorriso. Non era brutta, ma di sicuro non era il mio tipo. Troppo muscolosa e con le spalle larghe per i miei gusti. Guardai attraverso il vetro del bar e, chissà perché, cercai quelle risposte che non arrivano mai. Un ragazzino con un cappello alla Mingus entrò ridendo. Capivo di non avere più risentimenti verso nessuno, ma di essere ancora in qualche modo vulnerabile, come quando ero giovane. La vita è fatta di incontri alle volte insignificanti, altre volte così devastanti che ti cambiano per sempre… e mi rividi spostarmi per quelle strade buie e silenziose, con i cartelli arrugginiti e sbattuti dal vento. Quelle strade abbandonate, circondate da immondizia e puzza di piscio, che ci si smarriva non appena svoltavi l’angolo. Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza, altri alla dannazione. Dal pacchetto di sigarette tirai fuori una Benson &Hudges che strinsi tra le dita, ma non accesi. Avevo sempre cercato di fare del mio meglio. Tuttavia i giudizi che mi davo un tempo, mi sembravano meno spietati di quelli di adesso. In compenso non mi preoccupavo più di come andavano le cose. Mi incuriosivo solo dei miei continui cambiamenti. “Nessuno è innocente, nessuno. Ficcatelo bene in testa”. Senza motivo, mi erano tornate in mente le parole urlatemi da Gilda in quel pomeriggio da cani. Lo avevo imparato a mie spese che, quando le situazioni prendono una brutta piega, è inutile che uno cerchi di spiegare. Noi uomini, prendiamo ciò che ci fa più comodo. Siamo abituati ad usarci perché dopo un po’ l’amore finisce e, in seguito, anche l’odio che nutriamo. Un altro esule entrò nel bar. Camminando di sbieco e ordinando una birra, si accomodò. Era una giornata di quelle che non si sa perché, ti senti scoglionato, annoiato, irritato, ma sapevo che avrei fatto bene a restarmene sobrio. “C’è un casino dappertutto” mormorò ad un tratto, l’uomo che si era seduto proprio dietro di me. “ci si sente come in prigione”, continuò… ed era come se mi stesse leggendo nei pensieri. Mi girai lentamente e lo guardai per un lungo istante dritto negli occhi, come a volergli scrutare fin dentro l’anima. “Non lo so, e non è che m’importi molto” risposi, mentre un cellulare iniziò a suonare una musichetta del cazzo. Non avevo fame, né freddo, né sonno, niente. Non sentivo niente. Vidi il cielo annuvolarsi e mi chiesi fino a che punto dovevo precipitare, prima di fermarmi. Mi aggiravo per le strade portandomi appresso un oscurità così densa, che potevo tinteggiare le pareti di un palazzo. In quel silenzio, l’autoradio della macchina sparava raffiche di sax, tanto forti da impedirmi di sentire le mie stesse urla. Amavo il suono del sassofono, era come se ascoltassi il respiro profondo di certe anime dilaniate che facevano musica nella tempesta. John Coltrane è una luce negli occhi, una sensazione fantastica, tremendamente rara. In The Dark You Can Love This Place mi ha sussurrato una notte Barzindistogliendo accuratamente lo sguardo. Ho trattenuto le lacrime, per non farmi inondare fin dentro le orecchie, e capire quanto ero ridotto male. Gilda quando c’eravamo incontrati, mi aveva guardato da dietro il fumo di una sigaretta, e questo bastò per farmi perdere l’orientamento. Era come se una voce mi dicesse che era lei che stavo cercando… ma ora che c’è l’avevo di fronte, non sapevo che fare, e le dissi soltanto: ciao bambina”, con una voce greve e lenta… e subito dopo iniziò a diluviare. E piovve per un bel pezzo. Poi rimasi in silenzio, inquieto come un sospiro. Ma queste cose mi erano successe in un’altra vita. Come spesso accade i nostri destini si erano separati, e niente e nessuno avrebbe potuto farmi tornare sui miei passi. Ho canticchiato un blues mentre salivo le scale di casa, dove non mi aspettava più nessuno. Con gli occhi spalancati nella penombra, ho acceso lo stereo, fumando, e cercando di non farmi prendere dallo sconforto. Erano passati anni, secoli, mesi, giorni, ore, minuti, da quando ci eravamo lasciati, ma certe cose, non si erano ancora sbiadite. Il telefono gettato sul pavimento prese a suonare, lo guardai ma non risposi. Lei di sicuro non mi stava cercando. Ho acceso la lampada che faceva una luce fioca, per cercare nello scaffale un disco che non trovai di Blind Blake, uno dei padri fondatori del blues. Un viaggiatore misterioso di cui non si sa praticamente nulla. Di quest’uomo solitario è rimasta un’unica foto. Eppure negli anni venti era una star della musica. Suonava un blues tecnico e riusciva a tracciare con la sua chitarra un crossover ante litteram, che amalgamava lo stile ragtime, con il blues e il jazz. Anche il burbero reverendo Gary Davis lo omaggiò. Lui così avaro di complimenti verso gli altri musicisti. I morti hanno sempre gli occhi tristi. Anche Nick li aveva quando è spirato per un tumore all’esofago. Per come era fatto, avrebbe preferito di gran lunga una pallottola dritta in testa che quell’animale dentro a divorarlo. Aveva appreso sin da subito di essere spacciato e di non avere via d’uscita… e non deve essere stato facile. Il diavolo poi ci mette sempre lo zampino e sembra che goda. Anche quando chiedi: quanto tempo mi resta dottore?” Lui sogghigna. Alla fine, all’ultimo istante, avrebbe voluto alzarsi da quel cazzo di letto che lo inchiodava e camminare, camminare. Prima di tirare le cuoia avrebbe voluto bestemmiare, imprecare. Andarsene in giro senza meta, come faceva quando cercava di raccattare i cocci della sua pazza vita… ma si sentiva debole e stordito, ed aveva una paura fottuta. Siamo tutti strambi noi uomini. Mi alzai e mi versai un bicchiere di Chivas. Il whisky andò giù morbido. Mi ricordai di quando lei era seduta sul divano e sfogliava distrattamente una rivista. Aveva recuperato il pacchetto delle sigarette e si era accesa una merda di MS. A guardarla nel suo jeans attillato aveva un bel culo, ma anche delle belle tette. Per tutto il giorno aveva sapientemente evitato il mio sguardo. Forse era un modo per non farsi venire qualche rimorso. Suonai qualcosa con la chitarra per ritrovare il coraggio. Aveva due splendidi occhi ed eravamo diventati tutt’uno. Non c’era spazio per nient’altro. Lo dico adesso che non posso più ingannare nessuno, tantomeno me stesso. È stato questo che alla fine ci ha fregato. Avevo smesso di dare importanza ai suoi misteri, come lei ai miei. Non potevamo continuare ancora ad ingannarci. Me ne sono tornato nell’oscurità, come un blues greve di Mark Lanegan. Le armi e i duri non mi sono mai piaciuti. Neanche i mercenari e certi sbirri. C’è gente che legge troppi libri, altri nemmeno uno. La vita alle volte è crudele, e si comporta come un romanzo da due soldi. Sarò un romantico, ma esiste un altro modo per stare su questa terra. Ne sono certo. In quello mio, non ci sono né vincitori, né vinti. Perché capita ad ognuno di noi che qualche porta si chiuda, e anche se questo ci lascia quel retrogusto amaro di nullità, si può sempre ricominciare, da qualche altra parte. Sempre. La cattiva stella prima o poi tramonta. Bisogna solo sapere aspettare. Certo, ci vuole una infinita pazienza, ma ne vale la pena. L’ho appreso dal blues questo, che non vive nel mondo della luna. Pur con una gamba di legno Furry Lewis se ne andava in giro per il sud del Mississippi, aggregandosi al fianco di imbroglioni e truffatori, che seguivano le carovane dei minstrels e dei medicine show. Aveva perso la gamba in un incidente ferroviario, ma tutto questo non era riuscito a fermare la sua vivacità, la sua voglia di vivere. Suonò insieme a Gus Cannon e Will Shade, per le strade di Memphis, entrando anche a  far parte della Memphis Jug Band… ma di musica non sempre si campa, e allora inizia a lavorare come spazzino, e lo farà per oltre quarant’anni. Per non gettare del tutto il suo talento, alla sera suona nei battelli a vapore che attraversano il grande Fiume, e al mattino va a ripulire le strade della sua città. Suonare a questo songsterr, gli ha reso più sopportabile la sua dura esistenza. L’ha fatto anche Night Moves con me. Una canzone che conserva il sapore di tante cose che ho perso lungo il tragitto. Ho pensato a Lei ascoltandola. Ai suoi seni, al suo desiderio, alle sue speranze, alla sua avidità. Me ne sono rimasto seduto sul divano, mentre fuori aveva preso a piovere. Ha piovuto per un bel pezzo. Mi sono fatto del caffè e fumato qualche sigaretta nella piccola cucina. Al lavoro l’indomani, ci sarei andato anche a costo di strascicarmi per strada a tentoni. È solo quando non hai più una cosa, che te ne accorgi di quanto era importante. Misi un disco di rock duro, grintoso, di quelli che sparano raffiche di chitarra a mitraglia. Tanto per stordirmi un po’. La mattina uscì presto di casa. Era un’alba fresca e senza particolari pretese. Prima di andare via, ho lasciato tutte le luci dell’appartamento accese. Così da darmi la sensazione al mio rientro, di non essere solo. A quell’ora del mattino le strade erano deserte. Un barbone dormiva dentro l’atrio del portone. Cercai di non disturbarlo. In strada camminavo veloce e con le mani infilate nella tasca della giacca. La Folie cantavano gli Strarnglers nel 1981. Combien de crimes ont ete commis. Contre les mensonges et soi disant les lois du coeur. Combien sont la a cause de la folie. Parce qu’il ont la folie”Mia zia Marianne sentiva le voci, e vedeva cose inesistenti. Alle volte diceva che erano sui muri, altre sul pavimento, qualche volta non ti riconosceva nemmeno, perché eri tu la cosa strana. Se ne stava per ore seduta immobile sulla sedia. Ogni tanto rideva e si toccava i capelli, e si stringeva i seni, fino a farsi male. Beveva vino rosso a litri, e fumava all’inverosimile. Troppe notti difficili. Alle volte avevo paura, una paura tremenda, che potessi uccidermi… ma forse c’era molto suggestione in me. Ogni tanto tornava normale e passavamo dei bei momenti. Poi anche quegli attimi svanirono, e la dovettero rinchiudere in un manicomio. John Trudell è un indiano Sioux. Quando venne nominato portavoce dell’American Indian Movement, si rese protagonista di un gesto di protesta contro le autorità americane, per le atrocità commesse nei confronti dei nativi americani. Sui gradini del J. Edgar Hoover Building di Washington bruciò la bandiera a stelle e strisce. Dodici ore più tardi, sua moglie, i suoi tre figli, e sua suocera, morirono in un incendio nella riserva di Paiute Shoshone in Nevada. La cosa resterà senza colpevoli, anche per il rifiuto dell’FBI di indagare sul caso. John Trudell inizia a comporre poesie e, nel 1985, quando incontra Jesse Ed Davis, un indiano Kiowa che suona con Clapton, Dylan, Lennon e Jackson Browne, le sue poesie diventano musica. “A.K.A. Graffiti Man” è un grido di dolore, un blues profondo, un vento di guerra. Ci sono cose che nessuno può uccidere… ma il cuore degli uomini è la cosa più difficile da vedere. Dannato stasera non piangere.

martedì 18 settembre 2018

I cuori sono come i fiori

Dormire negli ultimi tempi è diventato un vero tormento, al punto che il sonno mi sembra una discesa negli inferi. Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi. Al risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili, claudicanti e senza sole, di Nikki Sudden e Dave Kusworth, o del Johnny Thunders fragile e drogato, di “Hurt Me”. Il medico mi ha guardato con una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. Non se ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa. Il suo comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto stretta osservazione”. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli antidepressivi da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il sole che stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in cucina pensavo a queste cose, quando il telefono prese a squillare facendomi trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad una signorina dai toni suadenti, che mi ha illustrato l’ennesima vantaggiosa offerta per luce e gas. Malgrado la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle attenzione. Siamo stati lì a conversare come due vecchi amici che non si sentivano da un pezzo. Dopo un po’ mi sono alzato barcollando e, con la cornetta attaccata all’orecchio, ho azionato lo stereo. Autumn Stone degli Small Faces, l’ho ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. “Ero nel nulla, finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia attraverso l’essere buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un luogo difficile da trovare, quel che tu sei sempre stata, è la verità. Cerco una porta aperta, dove mi posso mettere seduto e giocare in pace con te. Il domani cambia l’odierno verde dei prati, ieri è deceduto, ma non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei arrivata tu. La più dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato un suono che vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me”. Verso mezzogiorno mi sono deciso a uscire. Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con gli occhiali neri e un bastone bianco, e subito dopo anche Gianni, uno che assomiglia in maniera impressionante a Lemmy dei Motörhead. Un tempo anche lui era un musicista ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e adesso vive come un vagabondo tra i binari della ferrovia. Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno sapeva, ma che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non mi sentivo ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia restava alto. L’arteria principale della città come sempre era intasata di macchine, e l’aria era talmente maleodorante di gas di scarico che mi è venuto il mal di testa. Nessuno di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario. Nessuno di noi possiede l’alba, il cielo, la pioggia. Mentre cammino per le strade senza meta, una piccola ombra mi protegge dal sole, e penso che, nonostante tutti i miei casini, sono ancora in piedi. In questo periodo rispolvero sempre più spesso i miei vecchi dischi, dal computer non scarico più files musicali, perché ad un certo punto mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla la musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. James Moore in arte Slim Harpo, è stato l’esponente di punta dello swamp blues. A soli quindici anni resta orfano, ed è costretto ad abbandonare la scuola per mantenere il resto della famiglia. Si impiega come scaricatore di porto, e dopo come manovale… ma appena finito il lavoro suona per strada le canzoni che scrive, accompagnandosi con l’armonica e la chitarra che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce Lightinin’ Slim che lo porta dal noto produttore Jay D. Miller. Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo e lo lascia in disparte… fin quando Slim Harpo non gli fa ascoltare quel suo nuovo brano dalla ritmica martellante e devastante… I’m A King Bee. La canzone diventa un grande successo che viene bissato da Rainin’ In My Heart, un blues lento e ipnotico, che ti fa sentire il fruscio delle paludi della Louisiana. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i suoi due volti musicali. Il primo lato del disco è terminato. Mi alzo dal divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla seconda canzone, per evitare il graffio che ferisce profondamente la prima traccia. Muddy Waters, Kinks, Yardbirds, e Rolling Stones, anche quelli fantasmagorici di “Exile On Main Street”, attinsero dal repertorio di canzoni straordinarie di Slim Harpo. Alle volte c’è come una fossa dentro di noi che ci fa vacillare. Così guardo la mia ombra riflessa sul muro della stanza e non so perché, mi viene di sorriderle. Fuori nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il palmo della mia mano. Lo so che il dolore man mano sbiadisce e poi, all’improvviso, finisce. Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola tra le dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il pensiero che mi attraversa viene scosso da quel rantolo rauco che arriva dallo stereo acceso. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di J&B, la prendo e mi verso quel che rimane in un bicchiere. Da quando sono rimasto solo sono diventato un casalingo esperto, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco le coperte sopra le lenzuola, lavo i pavimenti con l’aceto, stendo il bucato, pulisco i vetri asciugandoli con la carta di giornale, e ascolto la radio mentre sbatto i tappeti. Sul tavolo del salone c’è una mia vecchia foto, di quando avevo diciotto anni. Ho i capelli lunghi, porto i Ray-Ban e come sempre ho un aria smarrita. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi così di primo acchito. E’ un blues sporco e aggressivo, aspro e irruento, un blues che partendo dal Mississippi si è formato per la strada, nei bordelli di Chicago, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile. E’ un blues oscuro e genuino quello che suona Hound Dog Taylor con i suoi degni compari, gli Houserockers, diretto discendente del suo maestro Elmore James. Con il suo stile bottleneck esuberante e distorto, Hound Dog Taylor manda in visibilio il pubblico nei suoi concerti non stop, che gli fanno conquistare fama e credibilità nella difficile “Città del vento”. E’ un selvaggio seduto in quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. Il volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un drive che è una meraviglia del demonio. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un amante delle donne, tanto che un suo amico gli affibbiò quel soprannome da cane segugio. Lui sì che prendeva la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva spiaccicandola sul manico della sua chitarra, con la mano sinistra e con quel collo di bottiglia che ci strofinava sopra per evocare gli spiriti del Delta e di quel degenerato di Robert Johnson. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso è calato il silenzio. E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori, perché è in questo ambiente che ci si illude di muoversi per non arrivare mai. La mattina, dopo aver rassettato la casa, me ne sono andato all’ufficio postale per pagare le bollette. Durante il tragitto mi ha fermato una chiromante, che ha voluto per forza leggermi la mano. Con un certo imbarazzo gli ho teso il palmo. “Mi sembri ubriaco” dice guardandomi dritto negli occhi. “No, non lo sono”, gli urlo quasi. “Il tuo amore ritornerà”. Adesso sì che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a ballare. Infilo una mano in tasca, e le lascio tutti gli spicci che possiedo. Quando arrivo alla posta la gente è in fila fino a fuori dalla porta… ma dal momento che le bollette sono già scadute, mi armo di santa pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco della mia incapacità di adattarmi. Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare. La gente che mi sta intorno è scoglionata e anche nevrastenica. “Dal governo si lamentano alcuni uomini, ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio per tanti”. Un vecchietto, quando arriva il suo turno, chiede all’impiegato se gli può scrivere un indirizzo sulla busta, ma il tizio lo respinge in malo modo… ed è così che mi stacco dalla fila e prendo a sbattere le mani sullo specchio che ci divide e lo protegge. Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda cuccia, che ho delle cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo, di persone come lui. Il tizio mi guarda terrorizzato, restando fermo e silente sulla sua comoda poltroncina. “Lo so che non ci puoi sopportare gli continuo a gridare, ma neanche noi sopportiamo individui come te“. Poi mi rimetto in fila, mentre un silenzio raggelante scende giù. Illegale non vuol dire che non sia giusto. Weldon “Juke Boy” Bonner, amava la strada. Con la sua chitarra dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con l’armonica per sottolineare il suo tormento, il suo blues mise in scena la lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti, ma anche della sua stessa sopravvivenza. “Ricordo che vivevo sulla costa occidentale francese. Avevo solo diciassette anni quando una ragazza mi toccò per la prima volta il cuore. Nonostante io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai belli come lo sei tu. Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il mondo è in bianco e nero” (Where The Rivers End – Jacobites). Hai sempre paura di ciò che non conoscie il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa dell’eternità, rincorrendo la giovinezza… ma in fin dei conti, cos’è ‘sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci. Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci. Mi sedetti sul divano e alzai gli occhi verso lo specchio. Una volta scendevo al fiume con Maria, ed è lì che ci siamo amati. Ma adesso quel fiume si è inaridito, perché i cuori sono come i fiori.

lunedì 30 luglio 2018

Highway 61 Revisited


Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina Blues From Laurel Canyon, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969, anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen… ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat, perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, JackPeter e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me. Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza, alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. I “travellin’ men”, così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un’unica direzione… Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la “città del vento”. Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico… pronto ad esplodere. In questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino. La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di “Then Play On”. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica, come nella migliore tradizione psichedelica, si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato… il blues torna a viaggiare libero e diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dai numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare “Blues On Highway 49” è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte. In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte… e tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre e solo alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay… una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti… ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del “bullo di Arcore” e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori… tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l’ipocrisia. La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. Non m’importa se piove o gela, starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si, ci puoi scommettere che lo sono”Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma a mio agio e mi fermai in uno spiazzale. Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie… e nessuno faceva niente. Chissà perché? Mi sentivo arrabbiato… ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo… ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman, il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric ClaptonBobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un’altra piega. Negli studi del Criteria di Miami, nel 1970 si registrò “Layla And The Other Assorted Love Songs”, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton… ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero. Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai “Blue Matter” dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere… miagolando il blues.

Bartolo Federico

domenica 25 marzo 2018

Sangue zingaro

Sua madre gli raccontò che quando nacque pioveva a dirotto da giorni e che Ft Worth – nello stato della stella solitaria – era diventata un’immensa pozzanghera. Le doglie le presero in anticipo di un mese e, siccome lui era il primo figlio, fu assalita dal panico. A quel tempo la zona in cui abitavano era abbastanza isolata e distante dall’ospedale. Suo marito era fuori per lavoro e non sarebbe rientrato prima di un paio di giorni. Tentò di chiamare aiuto per telefono, ma le linee erano interrotte per le forti piogge. Non sapeva che fare. Nonostante tutto cercò di vincere l’angoscia e di non farsi soggiogare dagli eventi. Robert Lockwood era un tipo strambo, veniva da Chicago e viveva nella casetta di fronte. Come tutti i musicisti dormiva di giorno e alla sera suonava nei locali sparsi nei dintorni. Un tipo gentile, però. Quelle poche volte che si erano incrociati per la strada l’aveva salutata sorridendole… ma lei non si fidava dei neri vagabondi che suonavano il blues. Si raccontavano strane storie su di loro, si diceva che avevano il diavolo in corpo e che erano assai pericolosi, bevevano come spugne e violentavano le donne, specie se bianche. Adesso quell’uomo bussava alla sua porta perché l’aveva sentita urlare e lei non aveva alternative. Quando aprì l’uscio, la pioggia veniva giù impetuosa, accompagnata da un vento gelido. Robert, avvolto in un impermeabile, era inzuppato come un pulcino. “Tutto bene, signora?” le disse sorridendole… ma lei non fece in tempo a rispondere che svenne. Quando riaprì gli occhi era distesa sul letto, l’uomo aveva già preparato l’occorrente per il parto e le rideva benevolo. Lo osservò, si senti sicura e le parve, da come si muoveva, che sapesse il fatto suo. Dopo un’ora di travaglio e di dolore per le contrazioni, Mason, prima usci di testa, poi con le spalle e nacque. Mr. Lockwood tagliò il cordone ombelicale, lo alzò in aria come Mosè e lo diede alla signora Ruffner. Fu in quel frangente che, ancora umido, il blues gli si attaccò addosso. A volte non si può barare con il proprio destino. Il piccolo Mason crebbe a casa di Mr. Lockwood. Ci andava ogni giorno dopo la scuola e ci restava tutto il tempo possibile. Dopo quella notte Robert era diventato uno di famiglia ed è in quella casa che il Flaco imparò i primi rudimenti della chitarra e i suoi segreti, conobbe i vari maestri del blues: T-Bone Walker, BB King, Jimmy Reed, Robert Johnson, Elmore James, Chuck Berry, Howling Wolf, John Lee Hooker, OtisRush, Lightnin Hopkins e s’innamorò perdutamente di quel treno di fuoco che era la musica di Jimi Hendrix. Mason era un talento e presto sotto l’aspetto tecnico superò il suo Maestro.  Di questo Mr. Lockwood ne fu orgoglioso. Oltre ad ascoltare e suonare il blues, Mason guardava il mondo con gli occhi della poesia e, per un ragazzo che si aggrovigliava nell’animo, fu naturale accostarsi al genio lirico di Bob Dylan e del poeta Arthur Rimbaud, ambedue anime inquiete, sovversive e vagabonde che gli fornirono gli spunti necessari per iniziare a scrivere le sue canzoni.
Non parlerò, non penserò a niente: Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima e andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro nella natura, felice come con una donna. (Sensazione – Marzo 1870).
Ma anche Baudelaire e il conte Lautrèamont furono importanti nel suo bagaglio culturale. Aveva tracciato quella analogia tra il blues e la poesia francese perché reputava che entrambi lenissero il dolore pur biascicando tristezze. La vecchia strada era piena di polvere che il vento gli sbatacchiava sul viso. Il sole fece brillare il suo dente d’oro con le iniziali incise. Fu allora che New Orleans gli comparve all’orizzonte. Arrotolò i sogni dentro un joint, accese l’autoradio che trasmetteva Truck Stop Girl e spinse sull’acceleratore.
“Portami lungo New Orleans, non tenermi qui, devo suonare il blues a Bourbon Street, e scacciare suonando questa tristezza solitaria. Scommetto che i joints stanno piovendo a New Orleans. Se io rotolo e fumo, bambina, non ho bisogno di dormire. Si dice che le ragazze più carine sono in Texas, so che tu sei fuori da questo mondo, ma devo andare a New Orleans e trovare una ragazza creola(Down to New Orleans).
Il caldo umido fu rotto da una pioggia a scroscio che gli sembrò un battimani e Bourbon Street si spopolò alla svelta. Mason rimise la chitarra nella custodia riparandosi sotto una pensilina. Aveva scritto diverse canzoni, ma non trovava nessun musicista che avesse voglia di mettersi in gioco con materiale nuovo. Tutti quelli che aveva incrociato desideravano suonare solo cover di Sly And the Family Stone. Quando non si ha fretta ci si perde facilmente per la strada… ma questo non era il suo caso. Irrequieto e curioso inseguiva le parole come se gli cadessero dal cielo ed era necessario afferrarle prima che sparissero. Intanto che fremeva di vederle in faccia una ad una quelle anime della notte ammucchiate giù nel fondo. Se vuoi una cosa con tutto te stesso, prova e riprova a volte finisce che la ottieni. Ora aveva una sua band, The Blues Rockers, che aveva scelto con estrema pazienza. Voleva essere certo che i musicisti fossero in grado di catturare quel groove che rincorreva da quando Mr. Lockwood gli mise in braccio la sua Gibson Les Paul. Non faceva altro che ripeterglielo “trova il groove Mason, il groove”. Cosi, insieme a Chris Clifton alla chitarra, Mike Stockton al basso e Willie Cole alla batteria, ogni sera per 200 sere all’anno si esibisce al Club 544 in arroventati set. La mano corre veloce lungo il manico della sua scuoiata Stratocaster, entra ed esce dalla canzone con fraseggi melodici fulminei impasta perfettamente il blues con il rock’n’roll e canta con una voce liquefatta alla Dylan. La sua innata simpatia gli fa conquistare il pubblico, che ogni notte è sempre più numeroso ed ha il sostegno di Memphis Slim e John Lee Hooker. Alla fine del giro si ritrova sotto il palco musicisti del calibro di Bruce Springsteen, Jimmy Page, Robbie Robertson, Carlos Santana, Stevie Ray Vaughan e Billy Gibbons degli ZZ Top, tutti a vedere il nuovo Santo” in città. Quelle canzoni finalmente ottengono un contratto discografico con la CBS e un produttore, Rick Derringer. Giù nei quartieri di periferia hanno spento le luci e i rinnegati vanno a zonzo come fossero gli ultimi romantici con in tasca piccoli diavoli blu da donare alla rosa di Tralee, che vestita di bianco è avvinghiata nelle braccia del Gitano. Danza, danza, danza la “Serenata” lungo le strade prima che la notte venga su, prima che la notte l’inghiotta per sempre. Riviste e giornali prestigiosi lo applaudono. Salta sul treno dei desideri andando in tour con Jimmy Page, ma tenendo i piedi ben piantati in terra. Da viaggiatore solitario sa bene che tutto può svanire in un attimo… e allora cerca di difendere la sua anima, di seguire la sua strada senza precipitare. Le vendite del disco “Mason Ruffner” sono esigue, appena settemila copie, ma non si scoraggia. Ha i giusti anticorpi per affrontare la situazione. Gli uomini di blues hanno la pelle dura. Durante il tour con Page, scrive nuove canzoni e, suonandole, si rende conto che ha del buon materiale, occorre solo metterlo bene a fuoco. La CBS gli offre un’altra chance. Questa volta il produttore che lo affianca è un rocker gallese che conosce la materia. Nick Lowe sa come mischiare rock’n’roll e blues nelle giuste dosi e giocare sulla semplicità che è quasi sempre la carta vincente. La Stratocaster di Mason viene posta in primo piano, esaltata, rinvigorita e vengono fuori quelle influenze cajun che ha assimilato in Bourbon Street. Cosi “Runnin” diventa un piatto fumante di gumbo offerto da Dr. John attraverso Stevie Wonder, cantata alla John Hiatt. Gypsy Blood, che è anche la title track del film “Steel Magnolias”, è magnetica e diretta. Una di quelle canzoni che chiunque pagherebbe per scriverla. Colpisce con licks e riffs che sono una prelibatezza ed è Bibbia per tutti quelli cresciuti nei bassifondi del rock.
Dio sa che sono nato zingaro,il mio cuore non ti puòrubare,cieco ho messo la mano sulla mia valigia  viaggiando con la mente è quel sangue ,quel sangue zingaro che mi porta lontano dall’amore ”  (Gypsy Blood).
Da uomo libero che non ha smesso di andare, vedere e sentire, compone canzoni che sono un attestato all’indipendenza: Dancing on top of the world e Fightin Back parlano chiaro sui suoi propositi. Distant Thunder è una ballata carica d’amore e poesia, con sullo sfondo Bob Dylan e tutte quelle solitudini piene d‘amore e dignità che vagano libere sotto i cieli del mondo. La copertina di Gypsy Blood” ritrae Mason Ruffner come se fosse il Brando di “Fronte del Porto” o il James Dean di “Gioventù Bruciata” e alla fine il disco fa breccia nei cuori di chi ha giocato d’azzardo tutto quello che aveva ed ha preso la strada dell’inquietudine. Luccicando sotto la luna come una moneta nuova, gettando via gl’incubi rimasti a dondolare nel cielo. Dopo l’uscita del disco Mason va in tour come spalla agli U2 e Crosby Stills & Nash. Viene chiamato da Daniel Lanois per lavorare nel suo disco d’esordio “Acadie” e corona il sogno di una vita suonando per sua maestà Bob Dylan in “Oh Mercy”, disco da queste parti molto amato. Nello stesso anno apre i concerti di Ringo Starr. Poi stacca la spina e fugge via. Il rettifilo era infinito. Superò una fila di autocarri colorati e rallentò. All’incrocio vide le strade bianche di polvere correre parallele, non ci pensò due volte a svoltare. Percorse diverse miglia, poi si fermò in una pompa di benzina, comprò delle birre e ne stappò una. Non provava nostalgia o rimpianti, voleva tornare a casa perché adesso si trattava di decidere che direzione prendere. Dopo un periodo di tregua, abbastanza lungo da farsi dimenticare, ritorna con un album indipendente, “Evolution” che è un mix dei due precedenti, con la novità che lo si può ascoltare anche in versione acustica. “Evolution” contiene una canzone, Angel Love, di cui Carlos Santana si innamora e Mason riparte in tour ma, come tutti i cani sciolti, dopo un po’ ritorna a vagare per le sue strade secondarie dove il caldo e l’afa ammazzerebbero chiunque si avventuri, dove il cielo è una cascata di stelle e la terra risplende in tutta la sua nuda bellezza. Scrive ancora canzoni che si rifanno alla tradizione dei padri secolari del blues e a Memphis incide un nuovo album dal titolo emblematico, “You Can’t Win”, con una band, a suo dire, la migliore che abbia mai avuto. Ad oggi è la sua ultima fatica discografica.
Tienimi la tua luce addosso,vengo a casa, la mia anima urla ,il mio cuore mugola ho visto le ali della pazzia ,tutto da lavare via, ma cose cosi’ qui non accadono“. (Keep on your light one for me).
Le luci dei lampioni sono spente e nell’oscurità qualcuno barcolla. I fuggiaschi hanno vestiti a coda di rondine. E’ quel buco nel cielo, è la follia che ci fa andare avanti sin da quando giovani e incoscienti ci spingiamo nel baratro dei sentimenti. Stavamo seduti su una panchina sulla riva del Mississippi, in faccia aveva stampato quel sorriso che gli ballonzolava. Quel sorriso adolescenziale animava chiunque lo incontrasse, era contagioso e rilassante. Nonostante il mondo lo ignorasse come musicista, lui era felice per come erano andate le cose ed era sempre pronto a cantare e suonare, sera dopo sera, dando il massimo di sé. Me lo disse mentre guardavamo il Mississippi scorrere lento. Solo una cosa aveva nascosto nel ripostiglio dell’anima, e questo lo aveva preservato da tutto: l’innocenza. L’innocenza di quando, bambino, guardava il mondo meravigliandosi. “Ancora oggi, che di strada ne ho percorsa tanta, mi sento così”.

Bartolo Federico 

mercoledì 25 gennaio 2017

I Cuori Sono Come I Fiori



Dormire negli ultimi tempi è diventato un vero tormento, al punto che il sonno mi sembra una discesa negli inferi. Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi. Al risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili, claudicanti e senza sole, di Nikki Sudden e Dave Kusworth, o del Johnny Thunders fragile e drogato, di Hurt Me. Il medico mi ha guardato con una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. Non se ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa. Il suo comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto stretta osservazione. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli antidepressivi da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il sole che stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in cucina pensavo a queste cose, quando il telefono ha preso a squillare facendomi trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad una signorina dai toni suadenti, che mi ha illustrato l’ennesima vantaggiosa offerta, per luce e gas. Malgrado la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle attenzione. Siamo stati lì a conversare come due vecchi amici che non si sentivano da un pezzo. Dopo un po’ mi sono alzato barcollando, e con la cornetta attaccata all’orecchio ho azionato lo stereo. Autumn Stone degli Small Faces, l’ho ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. Ero nel nulla, finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia attraverso l’essere buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un luogo difficile da trovare, quel che tu sei sempre stata, è la verità. Cerco una porta aperta, dove mi posso mettere seduto e giocare in pace con te. Il domani cambia l’odierno verde dei prati, ieri è deceduto, ma non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei arrivata tu. La più dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato un suono che vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me. Verso mezzogiorno mi sono deciso a uscire. Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con gli occhiali neri e un bastone bianco, e subito dopo anche Gianni, uno che assomiglia in maniera impressionante a Lemmy dei Motörhead. Un tempo anche lui era un musicista ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e adesso vive come un vagabondo tra i binari della ferrovia. Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno sapeva, ma che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non mi sentivo ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia restava alto. L’arteria principale della città come sempre era intasata di macchine, e l’aria era talmente maleodorante di gas di scarico, che mi è venuto il mal di testa. Nessuno di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario. Nessuno di noi possiede l’alba, il cielo, la pioggia. Mentre cammino per le strade senza meta, una piccola ombra mi protegge dal sole, e penso che nonostante tutti i miei casini sono ancora in piedi. In questo periodo rispolvero sempre più spesso i miei vecchi dischi, dal computer non scarico più alcun file musicale, perché ad un certo punto mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla la musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. James Moore in arte Slim Harpo, è stato l’esponente di punta dello swamp blues. A soli quindici anni resta orfano, ed è costretto ad abbandonare la scuola per mantenere il resto della famiglia. Si impiega come scaricatore di porto, e dopo come manovale, ma appena finito il lavoro suona per strada le canzoni che scrive, accompagnandosi con l’armonica e la chitarra che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce Lightinin’Slim, che lo porta dal noto produttore Jay D Miller. Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo, e lo lascia in disparte, fin quando Slim Harpo non gli fa ascoltare quel suo nuovo brano dalla ritmica martellante e devastante, dal titolo I’m A King Bee. La canzone diventa un grande successo che viene bissato da Rainin’ In My Heart, un blues lento e ipnotico, che ti fa sentire il fruscio delle paludi della Louisiana. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i suoi due volti musicali. Il primo lato del disco è terminato.  Mi alzo dal divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla seconda canzone, per evitare il graffio che ferisce profondamente la prima traccia. Muddy Waters, Kinks, Yardbirds, e Rolling Stones, anche quelli fantasmagorici di Exile On Main Street, attinsero dal suo repertorio di canzoni straordinarie. Alle volte c'è come una fossa dentro di noi, che ci fa vacillare. Così guardo la mia ombra riflessa sul muro della stanza, e non so perché, mi viene di sorriderle. Fuori nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il palmo della mia mano. Lo so che il dolore man mano sbiadisce, e poi all'improvviso finisce. Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola tra le dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il pensiero che mi attraversa viene scosso da quel rantolo rauco che arriva dallo stereo acceso. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di J&B, la prendo e mi verso quel che rimane in un bicchiere. Da quando sono rimasto solo sono diventato un casalingo esperto, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco le coperte sopra le lenzuola, lavo i pavimenti con l’aceto, stendo il bucato, pulisco i vetri asciugandoli con la carta di giornale, e ascolto la radio mentre sbatto i tappeti. Sul tavolo del salone c’è una mia vecchia foto, di quando avevo diciotto anni. Ho i capelli lunghi e porto i Ray-Ban, e come sempre ho un aria smarrita. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi così di primo acchito. E’ un blues sporco e aggressivo, aspro e irruento, un blues che partendo dal Mississippi si è formato per la strada, nei bordelli di Chicago, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile. E’ un blues oscuro e genuino quello che suona Hound Dog Taylor con i suoi degni compari gli Houserockers, diretto discendente del suo maestro Elmore James. Con il suo stile bottleneck esuberante e distorto, manda in visibilio il pubblico nei suoi concerti non stop, che gli fanno conquistare fama e credibilità nella difficile città del vento. E’ un selvaggio seduto in quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. Il volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un drive che è una meraviglia del demonio. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un amante delle donne, tanto che un suo amico gli affibbiò quel soprannome di cane segugio. Lui sì che prendeva la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva spiaccicandola sul manico della sua chitarra, per poi con la mano sinistra e quel collo di bottiglia che gli strofinava sopra, evocare gli spiriti del Delta, e di quel degenerato di Robert Johnson. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso è calato il silenzio. E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori, perché è in questo territorio che ci si illude di muoversi, per non arrivare mai. La mattina dopo aver rassettato la casa me ne sono andato all’ufficio postale, per pagare delle bollette. Durante il tragitto mi ha fermato una chiromante, che ha voluto per forza leggermi la mano. Con un certo imbarazzo gli ho teso il palmo. Mi sembri ubriaco dice, guardandomi dritto negli occhi. No, non lo sono, gli urlo quasi. Il tuo amore ritornerà. Adesso sì che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a ballare. Infilo una mano in tasca, e le do tutti gli spicci che possiedo. Quando arrivo alla posta la gente è in fila fino a fuori dalla porta. Ma dal momento che le bollette sono già scadute, mi armo di santa pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco, della mia incapacità di adattarmi. Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare. La gente che mi sta intorno è scoglionata, e anche nevrastenica. Dal governo si lamentano alcuni uomini, ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio per tanti. Un vecchietto quando arriva il suo turno chiede all’impiegato se gli può scrivere un indirizzo sulla busta, ma il tizio lo respinge in malo modo. Ed è così che mi stacco dalla fila e prendo a sbattere le mani sullo specchio che ci divide, e lo protegge. Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda cuccia, che ho delle cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo, di persone come lui. Il tizio mi guarda terrorizzato, restando fermo e silente sulla sua comoda poltroncina. Lo so che non ci puoi sopportare gli continuo a gridare, ma neanche noi sopportiamo individui come te. Poi mi rimetto in fila, mentre un silenzio raggelante scende giù. Illegale non vuol dire che non sia giusto. Weldon “Juke Boy” Bonner, amava la strada. Con la sua chitarra dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con l’armonica per sottolineare il suo tormento, il suo blues mise in scena la lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti, ma anche della sua stessa sopravvivenza. Ricordo che vivevo sulla costa occidentale francese. Avevo solo diciassette anni quando una ragazza mi tocco per la prima volta il cuore. Nonostante io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai belli come lo sei tu. Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il mondo è in bianco e nero (Where The Rivers End - Jacobites). Hai sempre paura di ciò che non conosci. E il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa dell’eternità, rincorrendo la giovinezza. Ma in fin dei conti, cos’è sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo. Ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci! Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci. Mi sedetti sul divano e alzai gli occhi verso lo specchio. Una volta scendevo al fiume con Maria, ed è lì che ci siamo amati. Ma adesso quel fiume si è inaridito, perché i cuori sono come i fiori.



Bartolo Federico


sabato 24 settembre 2016

Miagolando Il Blues (vagabondo per orgoglio)



Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie, coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina “Blues From Laurel Canyon”, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969 anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen, ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, Jack, e Peter, e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me.



Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. 

I "travellin’ man" così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un'unica direzione Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la città del vento. 

Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. 



Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer, e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico pronto ad esplodere, in questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino.


La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. 

È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di Then Play On. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica come nella migliore tradizione psichedelica si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato, il blues torna a viaggiare libero. E diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. 


C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dei numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare Blues On Highway 49 è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte.


In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte, è tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre è solo, alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay, una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle, scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti. Ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Ma quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del bullo di Arcore, e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori, tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti ? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l'ipocrisia.


La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. 

Non m’importa se piove o gela starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si ci puoi scommettere che lo sono. 


Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma mio agio. E mi fermai in uno spiazzale.  Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare, in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie. E nessuno faceva niente. Chissà perché’? Mi sentivo arrabbiato, ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo. Ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric Clapton, Bobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un'altra piega. Negli studi del Criteria di Miami nel 1970 si registrò Layla And The Other Assorted Love Songs, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa, starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton, ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero.


Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai Blue Matter dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere. Miagolando il blues.


Bartolo Federico

domenica 17 gennaio 2016

Melissa

Erano quasi le dieci di una mattina di fine maggio, senza sole e con le nuvole dietro la collina che minacciavano una pioggia torrenziale. Me ne stavo sotto la pensilina di legno della veranda di casa di Melissa e guardavo il Mississippi scorrere. Lei era in ospedale, dove lavorava come infermiera. La mattina, quando era uscita, mi aveva baciato sugli occhi che ancora dormivo, sussurrandomi di fare la spesa perché “di lì a poco il frigorifero avrebbe fatto le ragnatele”. La sera prima avevo suonato, dopo l’esibizione di Zach Williams and the Reformation, con una band locale dei vecchi classici del blues e avevo tirato tardi. Mi ero divertito parecchio insieme a quei ragazzi ed anche il pubblico aveva gradito, visto l’entusiasmo che si era scatenato a riascoltare quelle vecchie canzoni, che sono la spina dorsale della musica del Delta. Avevamo reso omaggio a Charlie Patton, e al suo blues selvaggio e ispido, che sapeva, essere anche tecnico e sofisticato. Fu tra i primi a utilizzare le accordature aperte per suonare in slide con il collo di bottiglia.

Quel piccolo (appena un metro e sessanta di altezza) grande bluesman era un uomo di forte personalità, individualista e vagabondo ma con una miniera d’oro in fondo al cuore. Aveva capacità artistiche non comuni che lo fecero diventare una stella nell’ambiente del Sud. Fu uno dei primi bluesman ad avere un repertorio di canzoni scritte di proprio pugno: “Pony Blues”, “The Dirty Road”, “ Banty Rooster Blues” e se ne andava con questo tesoro lungo il Mississippi accompagnato dal suo fedele amico, il chitarrista Wille Brown, suonando in qualsiasi posto fosse possibile, dando mostra delle notevoli capacità di showman. Riusciva sempre a infiammare le platee perché era un grande istrione, pieno di voglia di comunicare che era anche una caratteristica del suo modo di fare blues. Charlie Patton suonava la chitarra come un funambolo, tenendola tra le ginocchia o dietro le spalle, molto tempo prima che lo facesse Jim Hendrix. Nei suoi duri blues raccontava di sceriffi e guardiani, “High Sheriff Blues”, ma anche della provvisorietà della vita, “Oh Death”, toccando temi come la droga, “Spoonful Blues”, o l’ecologia, “High Water Everywhere”, cantando con una voce rauca e sabbiosa come il fondo del suo fiume. Da Howlin’ Wolf a Elmore James, passando per Robert Johnson, Muddy Waters e Son house, tutti gli sono debitori.

Patton fu anche il progenitore di uno stile di vita depravato e dissoluto che ebbe molti epigoni nel rock’n' roll. Fumava e beveva esageratamente, andava a puttane ed era rissoso e irascibile. Si sposò una miriade di volte e fini più di una volta in galera. Insomma il padre putativo di Keith Richard. Bob Dylan, uno che ha il blues tatuato nel cuore, gli ha dedicato una canzone,“High Water”, nell’album “Love and Theft” ed io gli sono grato. Acque alte che crescono, le baracche crollano giù, La gente perde le sue proprietà - sta lasciando la città Bertha Mason lo ha scosso, lo ha spezzato, poi lo ha appeso al muro. Dice, “Balla con chi ti dice di farlo o non ballare per niente” Lì fuori è dura, Acque alte dappertutto.” Mentre il chitarrista John Fahey ha raccontato la sua storia in un libro: Charlie Patton (Studio Vista, Londra 1970).

Raccolsi il biglietto della spesa dal tavolo, uscii da casa e m’incamminai per andare al supermercato. Il vicino di Melissa stava lavando l’automobile tirando via lo sporco con una spugna insaponata. Quando gli passai accanto mi lanciò un’occhiata fugace L’occhiata di un uomo che non bada ai fatti propri. Però,tutto sommato, non potevo dargli torto: ero uno straniero e non è che passassi inosservato con quei lunghi capelli, i jeans a zampa d’elefante, la camicia aderente, gli stivaletti e il gilet con le frange. Parevo fuoriuscito da una copertina di un vecchio disco di Southern Rock, un reduce allampanato degli anni 70. Quando il rock divenne monotono come una maglia sformata da infilarsi tutti i giorni, ecco che dietro l’angolo fu pronto il mutamento. Una generazione di musicisti, stufa dei lustrini ormai sbiaditi del glam rock e della leziosità borghese del progressive, riportò tutto a casa. Gli tolsero le incrostazioni, i sedimenti che lo avevano imbambolato e lo fecero nuovamente suonare in maniera forte e aggressiva, ma anche melodica. Gli restituirono la voglia di vivere, di divertirsi. Quella forza trascinante, naturale e istintiva, che è nel suo DNA e che conquistò subito quel pubblico d’insoddisfatti che voleva altro rispetto a quelle saghe barocche in cui si era impantanato. Lo ricondussero cosi al suo stato primordiale, prendendo spunto da Elmore James, T-Bone Walker, Muddy Waters e dall’esperienza di band come Cream, Zepp, Who, Faces, Rolling Stones. E ripartirono con orgoglio per una nuova musica tutta americana. I ragazzi che fecero parte di questo movimento e che formavano i vari gruppi divisero tutto come una grande comunità hippie e il denaro fu veramente l’ultima delle loro preoccupazioni. Per questo motivo il rock suonò libero e innocente. Macom, una città della Georgia, divenne il centro della scena, dove i musicisti divisero casa, famiglia e anche vizi di vario tipo. Famosa a tal proposito fu la Big House degli Allman Brothers Band, dei fratelli Duane e Greg Allman, che insieme ai Lynyrd Skynyrd di Ronnie Van Zandt, ai Wet Willie, alla Marshall Tucher Band dei fratelli Caldwell, furono i principali protagonisti della scena musicale. 

Feci la spesa stando ben attento a non dimenticare nulla. Non volevo deludere in nessun modo Melissa, che era premurosa e felice di avermi con sé. Lei era stata l’unica donna a riuscire a illuminare i miei angoli bui. Nulla succede all’improvviso, alla fine basterebbe guardare meglio negli altri e in noi stessi per capire come vanno le cose. Melissa lo sapeva che prima o poi il mio sangue zingaro mi avrebbe costretto nuovamente a vagare senza meta per rincorrere quella cosa che non avrei mai raggiunto. Ma proprio per questo ci amavamo, perché ognuno di noi aveva il suo mondo parallelo, la sua linea d’ombra, il suo giardino segreto dove conservare qualcosa per sé. Ed entrambi lo rispettavamo. Quando arrivai a casa raccolsi dal pergolato dei fiori che appoggiai sul tavolo dell’entrata, mangiai dei biscotti e disposi nel lettore il cd che Zach Williams and the Reformation mi avevano regalato dopo il concerto della sera precedente. “Electric Revival” era il loro debutto. I ragazzi erano galvanizzati per come si erano messe le cose. Stavano suonando in tutti gli States, e raccoglievano consensi da più parti. Si preparavano anche per un tour in Europa. Quella sera omaggiarono la Marshall Tucher , con una bella versione di “Cant’You See” e i Corvi Neri con “Wiser Time”.

I Reformation sono una formazione ben impostata, con musicisti di ottimo livello, dediti al verbo del rock di matrice sudista. Zach, nonostante la giovane età, ha una voce con la giusta dose alcolica. La chitarra di Robby Rigsbee, disegna traiettorie che riportano direttamente ai giorni in cui Ronnie Van Zandt bruciava i suoi giorni vivendo di corsa. Nelle loro canzoni nulla suona patetico o superfluo, anzi riaccendono quello spirito rock, potente ed elettrico, che è alla base di tanta musica da strada che parte dai Creedence e arriva allo Steve Earle di “Copperhead Road”. Luther Dickinson, dei North Mississippi All Stars, dà una mano a questi “ Angeli con un’ala rotta”, suonando per loro la sua sfavillante chitarra.

Avevo il volume alto e non senti Melissa rientrare. Mi prese alle spalle mentre stavo seduto sul divano e mi cinse il collo con un abbraccio proprio mentre stavo ascoltando Zack che cantava “ Take Me Home ”. Una gettata di emozioni mi attraversò il cuore mentre la osservavo. Portava i jeans e una camicia color ottanio attillata. E un foulard dello stesso colore le legava i capelli. Mi sorrideva ed era bellissima. Il cielo si era rasserenato. Adesso era di un blu intenso, come solo al sud si può vedere. Mentre lei preparava la cena, mi sporsi sulla veranda e osservai il Mississippi. In quell’attimo mi tornarono in mente le parole che aveva scritto Jack Kerouac in On the road: E qui per la prima volta vidi il mio adorato fiume, il Mississippi, asciutto nella calugine estiva, l’acqua bassa con quel suo forte odore che è lo stesso del crudo corpo dell’America perché la lava tutta”. Poi scrutai la strada, lì immobile, pronta in ogni momento a riprendermi con sé. Ma quando, rigirandomi, incrociai i suoi occhi fui certo che stavolta mi avrebbe atteso per molto tempo.



Bartolo Federico