sabato 16 marzo 2013

Se Pensi Di Essere Solitario

Sono nel caldo e ventoso mattino di un località qualunque di un agosto infernale. Guido il mio blues mobile (cosi ho battezzato il mio furgone) colmo di campionari per il mio consueto giro di lavoro. La spiaggia è piena di villeggianti e porto stampato in faccia quel sorriso che ogni commesso viaggiatore impara ad utilizzare quando va a trovare i propri clienti. Imbocco la strada sterrata che fiancheggia il mare e mi soffermo a guardare una ragazza dalle curve mozzafiato che passeggia sulla battigia. Strani pensieri affollano la mia mente, mentre un’imprevista tempesta di sabbia e ormoni mi assale, accendo la radio e inserisco nel lettore quel dischetto “Dead Man's Suit' ” di Jon Allen che da quando mi è arrivato alle orecchie non riesco più a staccarmene


Ci vuole qualche brivido ogni tanto e quello che mi giunge è caldo ed eccitante (bisogna pur accontentarsi!) come solo certa musica sa fare. Quelle canzoni, man mano che le faccio mie, si trasformano in ricci sulla pelle. Mi danno la sensazione che tutto potrebbe ancora accadere e, anche se hanno sapore di cose antiche, è quell’antico che sa di amore e rispetto per chi è passato prima da quelle parti e, nello stesso tempo, sa guardare avanti con speranza. Canzoni ispirate e annaffiate dai colori del blues, del soul, del folk, cantate con una voce sporca di alcool e fumo e sorrette da un organo Hammond che è una meraviglia. Canzoni che mi fanno venir voglia di andarmene lungo la strada a macinare chilometri a bruciare gasolio solo per il piacere di ascoltarle fino allo sfinimento .

Stamani , quando partii all’alba, portai con me quei cd che la musica di Joe Allen in qualche modo aveva rispolverato nella mia memoria e, mi viene il desiderio di riascoltare, primo fra tutti, Eddie Hinton e il suo Letters From Mississippi”. Un artista sfortunato, Eddie, un chitarrista che aveva fatto parte dei Muscle Shoals   Sound  Rhythm Section, 
 che aveva lavorato con tutti i più grandi della soul music come: Wilson Pickett, Arthur Conley, Aretha Franklin, Joe Tex , Solomon Burke, The Staple Singer, The Box Tops e, in ultimo, Otis Redding che fu l’artista che più l’influenzò musicalmente. Per natura sono attirato dai vinti, da chi resta coerente con la propria personalità e con le proprie scelte. Requisiti che i signori dell’industria ti fanno pagare a caro prezzo, ma, dall’altro lato, ti fanno intascare in credibilità e considerazione. Figuratevi voi se uno come Eddie Hinton, segnato dalle sconfitte, per come si è sviluppata la sua storia artistica e personale, e da una delicatezza interiore fuori dalla norma, avrebbe mai potuto sfondare con canzoni che sono di una bellezza diamantina, che ti fanno sorridere alla vita, a un punto tale che corri il rischio di accenderti d'amore per la prima signorina che incontri solo per portarla con te in qualche “steak house” a ballare sotto le stelle.

Mi fermo ad un’area di servizio per fare rifornimento e stiracchiarmi la schiena. Posteggio il furgone all’ombra dei pini e vado al bar della stazione, mi rifocillo con un panino alle verdure grigliate e bevo una birra ghiacciata mentre osservo l’asfalto della strada liquefarsi per il calore. Salgo sul furgone lasciando aperto lo sportello per riposare un po’ prima di riprendere il viaggio. Dopo una mezz’ora passata all’ombra, riparto infilandomi dentro quella sfera di fuoco che è l’agosto siciliano. Guido rilassato con il condizionatore acceso, quando la temperature all’interno della cabina inizia a farsi troppo fredda. Dalla cartucciera dei cd tiro fuori “Reach Up And Touch The Sky “ del leone di Asbury Park ed alzo il volume. Ci penserà Southside Johnny a rimettere le cose a posto, temperatura inclusa.

Quel disco lo comprai durante una gita scolastica a Ravenna, città che mi è rimasta nel cuore. Camminavo per il centro cittadino insieme ai miei compagni di classe quando incrociai un negozio di dischi e la tentazione di entrarci fu troppo forte. Al mio seguito c’era Carmelo, un musicista che a quel tempo suonava l’organo in una cover band dei Rolling Stones. Abituati ai negozi della mia città, quello ci sembrò l’eldorado. Tutto ciò che chiedevamo era a nostra disposizione e così, presi dalla pazzia più irrefrenabile, spendemmo tutti i soldi che ci avevano dato i nostri genitori per la gita. Poi ci toccò restarcene chiusi in albergo tutte le tre sere seguenti, mentre gli altri si godevano le notti della riviera romagnola.

Un grande live, Reach Up And Touch The Sky”, un concerto dove Johnny non risparmia una goccia di sudore, dove puoi toccargli l’anima e il cuore, dove si fa il pieno di passione con una musica che non avrà mai i riflettori del grande pubblico e che resterà per sempre relegata a quegli illusi che non si decidono a smontare dal proprio sogno. Un live che è un luogo dell’anima, un brivido che ti corre addosso anche se ci sono 40 gradi di temperatura, che ha il culmine dell’emozione con il medley dedicato al suo grande idolo, Sam Cooke. Ed è cosi vera e intraducibile quell’emozione, che il leone cede e s’inginocchia piangendo sul palco mentre canta “Bring it on home”. E’ il suo sogno che si materializza e chi ascolta lo capisce che non c’è finzione: la differenza tra chi fa musica per mestiere e chi, invece, ha quel fuoco dentro che gli corrode i sensi. Il sole mi abbaglia all’improvviso e, ancora adesso come allora, mentre guido in un pomeriggio assolato e deserto, punto il dito verso l’alto e tocco il cielo insieme a lui. 

Giungo puntuale dal cliente che sono le quattro del pomeriggio, trovo posteggio davanti al negozio e mi preparo a lavorare con buona lena, anche se il calore è veramente insopportabile. Tolgo i catenacci dalle portiere del furgone, monto gli stands porta indumenti e carico le sacche con i campionari che devo mostrare.  Dopo un paio d’ore ho completato con soddisfazione di entrambi, ma non è ancora finita. Devo percorrere un centinaio di chilometri per raggiungere la località di Pozzallo dove questa sera pernotterò.

Ci salutiamo con il cliente che è quasi il tramonto. Il cielo è vestito di rosso. Quando imbocco la statale abbasso il finestrino e spengo il condizionatore. Ho voglia di sentire il vento caldo accarezzarmi la pelle. E’ stata una buona giornata di lavoro. Con il buio mi faccio accompagnare dalla voce profonda e suggestiva di James Carr che canta “At the dark end of the street”, una versione con cui tutti i cantanti soul devono fare i conti. Mi dondolo a tempo di musica nell’oscurità della cabina, aggrappato allo sterzo, mentre viaggio su strade tortuose e piene di buche. La malattia della sua mente tormenterà James Carr per tutta la vita, lasciandolo nell’ombra più oscura. Ma la bellezza delle sue canzoni è tale che quando lo ascolti stai sempre sulla corda ed è talmente profondo che ti smantella le certezze e ti tocca ricominciare tutto daccapo. Avrebbe meritato molto di più, ma è facile dimenticare. Cosi è rimasto solo un fiore appassito, volato nel vento dei ricordi.

Durante il tragitto mi fermo in un chiosco per cenare con una granita e briosce. Ho ancora il tempo di ascoltare “Live At The Harlem Square Club 1963 del più grande soulman di tutti i tempi, Sam Cooke. Questo live  è un disco che ti rimette a posto con te stesso e che ha un effetto liberatorio sulla mia stanchezza. L’eccitazione del concerto è palpabile Sam è tra la sua gente: ride, canta, scherza e ti trascina dentro la sua anima, che ti scoli la vita in un botto.

E’ in questi momenti che mi rendo conto di quanto ami questa musica. E’ il lungo sogno che mi porto dietro da sempre, nell’unico posto più libero che ancora esiste che è la strada. E’ ormai sera quando arrivo al B&B, dove pernotto. Non ho più tempo per ascoltare Bobby Womack, ma domani inizierò la mia giornata con “Across 110th street, una di quelle canzoni che ti fanno amare la vita, che ti alzano l’adrenalina e ti fanno correre dietro i tuoi desideri anche se non sei allenato. Corrado, il titolare del B&B mi accoglie come fa di solito, con un sorriso e un abbraccio. Suo figlio Stefano, che é un cantante raggamuffin che assomiglia sempre più a Peter Tosh, mi batte un cinque mentre mi dà la chiave della stanza. La località è piena di turisti che passeggiano sul corso principale. I ragazzini si rincorrono per strada mentre la gente del luogo sta seduta sui gradini delle case a godersi la frescura della sera. Il vento che arriva dal mare mi porta l’odore di una grigliata di pesce. Sono i giorni spensierati delle ferie, ma sono totalmente distrutto dalla stanchezza per godermi quell’atmosfera di festa. Quando entro nella stanza e appoggio la sacca sul letto mi sento finalmente a casa: mi svesto e apro l’acqua per una doccia ristoratrice e, mentre mi ci ficco sotto, prendo a canticchiare il Marvin Gaye di “Wherever i lay my that 's my home”


Non lo sai che sono il tipo di ragazzo che è sempre in giro, dovunque appoggi il mio cappello quella diventa casa mia. E mi piace così.

Bartolo Federico

Southside Johnny & The Poor Fools – Songs From The Barn (2013)


mercoledì 13 marzo 2013

Uscendo Dal Blu Ed Entrando Nel Nero

Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé. Riaprire il fiotto dei sogni e partire dal primo che si è fatto quando si era ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, nuovi punti di arrivo e, quindi, nuovi punti di partenza. Squadrai il cielo sopra la mia testa che restava fuligginoso, mentre sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che mi incrostavano l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e saziarmi di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio della mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza. Ma non riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi attraversava mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato parecchio complicato stare sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più. Il pericolo era di fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a tradirmi.



Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio stambugio. Ero pallido e stanco. Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con rabbia e avidità. Ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la vita. Ero un precario dei sentimenti come del lavoro. Cosa avevo da offrirgli se non la mia stessa confusione? Probabilmente era il momento di fare quella puntata balorda e giocarmi i numeri alla ruota del lotto rimanendo in attesa del miracolo  di diventare ricco. Ma non avevo mai creduto abbastanza che questo potesse accadermi da dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di male a immaginarmi nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei occhi che scoppiai a ridere sconciamente. Lì da solo in mezzo alla strada.



Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai della musica “Willy And The Poor Boys” dei “Creedence Clearwater Revival”, anno 1969. Tirai  un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai voluti salire per restare fedele a se stessi. Persone che hanno pianto come bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte. E che, sbandati e confusi, non hanno trovato più la strada di casa.



My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare fino in fondo,che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero.”MY MY, EHI EHI” (OUT OF THE BLUE)- Neil Young-



Sono poche le cose che ci legano al passato, ma alla fine sono proprio quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979. Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San Francisco, dove Young con la sua  chitarra acustica prima si scioglie  dentro le sue ballate dolenti e, poi,  insieme ai Crazy Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin  quando non è sopraggiunta la rassegnazione. Live Rust è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso che  fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle, e i Clash erano il mio unico credo. La sua musica, in quei giorni, era il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già vecchia. Ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di fantasmi.“Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo. Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli strada: è il solitario.(The Loner). Sdraiato sul letto pensai a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come se avessi lasciato le mie tracce sul bagnasciuga, e al mio ritorno non c’era più nulla.



La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina sulla statale 113. Quando avevo  bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo preferito. La 113 è una strada lunga e silenziosa, che cammina a ridosso del mare. E’ un percorso dai  lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come una canzone dei Velvet Underground. Il vento che era venuto giù faceva increspare le onde, intanto che un flebile sole si faceva largo tra le nuvole nere che schiamazzavano nel cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata, al pari di quei grigi villini per le vacanze di cui era attorniata. Ad un tratto mi si parò davanti, con la sua bicicletta e lo zaino legato al portapacchi, uno che veniva da un’altra era. Arrancava lentamente, senza una meta da raggiungere, quel figlio dei fiori. Come il vento, andava dove credeva. Lo superai, osservandolo dallo specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi sembrò che avesse la faccia serena.



1967 a San Francisco. Andava in scena la rivoluzione. Ventimila anime che inseguivano un sogno comune si erano riunite al Golden Gate Park, in quella che fu definita l’estate dell’amore, per ascoltare gratuitamente i Grateful Dead e i Jefferson Airplane. In città erano giunti da New York, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso appena uscito dal carcere, per unirsi al poeta e letterato Kenneth Rexroth. Gli hippy prendevano allucinogeni e si decoravano i capelli con i fiori, mentre a Berkeley i movimenti studenteschi si scontravano con la polizia reclamando diritti civili. Nella vicina Oakland dei duri, quali erano Eldridge Cleaver, Huey Newton e Bobby Seale, fondarono l'organizzazione radicale delle Pantere Nere.Guardate cosa sta accadendo  fuori nella strada: è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Hey, sto danzando giù nella strada, è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Non è sorprendente tutta la gente che incontro? E’la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Una generazione è invecchiata una generazione ha trovato la sua anima. (Volunteers, Jefferson Airplane).



La prima volta che i Jefferson Airplane cantarono questa canzone fu nella radura di Woodstock il 21 agosto 1969, davanti a 500.000 persone, con rabbia e passione. Nel novembre dello stesso anno venne pubblicato Volunteers, un disco che è anche un manifesto politico, apertamente sovversivo. We Can’t Be Together apre l’album e spara subito a zero contro le repressioni anti-libertarie dell’America di Nixon e di Kissinger. I Jefferson Airplane, per non disgregare il messaggio politico, cercarono di unire coerentemente parole e musica, in questo aiutati dalla  presenza di ospiti illustri. In The Farm Jerry Garcia suona la pedal steel, creando un’atmosfera prettamente rurale. Wooden Ships, regalata dal duo Crosby e Stills, presenti entrambi, è sinistra nel suo incedere e parecchio inquietante. Jorma Kaukonen incrocia la chitarra con quella di Jerry  Garcia in Hey Fredrick, mentre Grace Slick canta con profonda emozione. L’incedere country di A Song for All Season sembra anticipare di qualche anno Sweet Virginia dei Rolling Stones, forse per la presenza nel disco del pianista Nicky Hopkins, poi alla corte delle pietre rotolanti, che ricama e caratterizza le canzoni con il suo distintivo suono. Questo disco, comunque sia, suggella la comunanza d’intenti e quel senso di fratellanza che avevano in quegli anni tutti i musicisti della Baia. Volunteers è la fine di un epoca ed è come una capsula del tempo. La si può schiudere e tornare ai giorni in cui era bello sperare che la musica potesse cambiare il mondo. Viaggiando, fatti di benzedrina, su camion che ti avevano raccattato nella notte da qualche parte in mezzo al deserto.

Questa generazione non ha mete da raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!  Su, venite, stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I volontari d’Amerika  I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” (Volunteers -Jefferson Airplane



Andai all’edicola e comprai un quotidiano. Poi mi diressi all’ufficio di collocamento e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano, aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le pagine politiche del giornale. Sempre la stessa tiritera, bugie su bugie. Tirai dritto e andai alla pagina della musica. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di Leonard Cohen e mi chiesi perché certi giornalisti dovevano campare alla grande, pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie. Mentre altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano vivere nel limbo. La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro figli del vento, nati senza la lingua a pennello. 
 

 Sentii puzza di merda nell'aria. Allora pensai a Luisa e solo a lei.





Bartolo Federico




martedì 12 marzo 2013

Accelerando Nel Vento


Nel 1978 avevo quindici anni e con Alessandro Maugeri, un mio compagno di classe che era uno svitato come me, ce ne andavamo a zonzo per la città in cerca di emozioni forti. Ale era un tipo chiacchierone che raccontava frottole, ma buono come il pane e grandissimo fan di David Bowie. Era talmente dentro quel personaggio che lo emulava in tutto e per tutto. Si abbigliava e si truccava, si dipingeva le unghie delle mani proprio come lui e, pur non essendo gay, assunse movenze femminili. Era più forte di lui quel voler essere a tutti i costi al centro dell’attenzione. Gli piaceva alimentare tensione, provocare, sbeffeggiare l’ordine costituito, essere indisponente. Era un aspetto che il rock più trasgressivo ci aveva insegnato e che lui metteva in pratica. Ma questo suo modo di essere, il più delle volte, era male interpretato da chiunque persino  dai nostri stessi coetanei che ci isolarono, o forse, a pensarci adesso, dai quali ci eravamo isolati. Quello che a noi interessava era il rock e i personaggi che via via andavamo scoprendo. Del resto, passando il nostro tempo a cercare di tradurre Lady Godiva dei Velvet Underground, che cazzo avremmo mai fatto ad una loro festa di compleanno?

Io, da par mio, ero il suo esatto contrario, taciturno e facilmente irritabile, pronto a digrignare i denti se le cose prendevano una brutta piega. Portavo capelli lunghi, jeans sdruciti e giubbino di pelle nero, comprato insieme a degli stivali con la punta ricamata stile cow boy al mercato dell’usato di Ponte Americano nella bancarella del signor Ferrari. Allora, ma anche adesso, mi piacevano molto più di Bowie, Lou Reed e Iggy Pop (che in quel periodo erano molto vicini al Duca Bianco), ma anche Elvis, Little Richard, Gene Vincent e Jerry Lee Lewis.

Il bar di fronte la RTP, l’emittente televisiva locale, aveva la saletta e un juke box. Ci andavamo a prendere il caffè che ci dividevamo fumando Lucky Strike (allora si poteva ancora fare) e ascoltavamo Stay di Jackson Browne. Quel falsetto di David Lindley ci faceva letteralmente impazzire ed eravamo capaci di ascoltarla dieci volte di seguito quella canzone, per poi passare a Miss You dei Rolling Stones. Ale allora si metteva a ballare e cantando mimava Mick Jagger, mentre io mi smascellavo dalle risate. Finiva sempre che il signor Giuseppe, il proprietario del bar, spazientito dal nostro atteggiamento, ci allontanava perché facevamo troppo casino e disturbavamo gli altri clienti. Ma questo è il rock, è quel che ti combina quando va in circolo.

Jackson Browne mi stette da subito simpatico. Pur essendo una star di prima grandezza, aveva un atteggiamento di estrema umiltà, sembrava il vicino di casa di quelli buoni e generosi. Questo suo modo di essere, oltre alle sue belle canzoni, lo fecero amare da un vasto pubblico e anche qui da noi riscosse un buon successo e fu davvero un anomalia, dato che questo paese con il rock americano non è che sia mai andato a braccetto.

Lo stesso atteggiamento che aveva allora lo ha conservato intatto fino a giorni nostri. Il suo tour acustico di un qualche anno fa, che ha toccato la Sicilia, mi ha fatto riamare un musicista ancora capace di coinvolgere la platea, ispirato e affabile , sempre pronto a mettersi in discussione. E poi, che invidia per tutte quelle chitarre acustiche in bella mostra sul palco che ha suonato meravigliosamente bene! Jackson è stato anche un uomo impegnato nel sociale. Fu sua, infatti, la battaglia contro il nucleare e l’organizzazione del grande concerto-evento No Nukes in cui parteciparono i più grandi nomi del rock a stelle e strisce.

Running On Empty fu un disco che all’epoca ascoltai parecchio, anche perché fu talmente grande il successo da essere di facile reperibilità nei negozi della mia città. A dispetto dei dischi che aveva prodotto per il suo amico Warren Zevon, un musicista che le cronache di quel tempo raccontavano essere scorbutico e solitario, ubriacone, drogato, attaccabrighe, insomma un vero figlio di puttana, lo sentivo a pelle che sarei andato d’accordo con quel tizio e la sua musica e lo andavo cercando come una pepita d’oro.

L’incontro avvenne in maniera del tutto fortuita e dopo qualche anno. Era il 1981 e, mentre scartabellavo in negozio i dischi nel reparto delle novità, mi si piazzò davanti la copertina rosso fuoco di “Stand In The Fire”. Me la ricordo come fosse oggi quell’emozione bruciante che provai nel tenere quell’album tra le mani. Il cuore mi batteva forte quando adagiai la puntina dello stereo sul disco e la musica mi avvolse. Quel vinile era una selezione live di cinque concerti che Warren aveva tenuto al Roxy di Los Angeles e raccontava di un musicista in grande forma che tirava alla grande di rock e di altro. I titoli delle canzoni erano tutto un programma e la chitarra solista affidata a David Landau graffiava che era una meraviglia. Mi ritrovai dopo un paio di ascolti a fare il verso del lupo di Warewolwes Of London che poi è la sua canzone più famosa.

Warren è sempre stato un musicista atipico, uno tosto, mal avvezzo ai compromessi e se, ad un ascolto fugace il primo nome che viene in mente ai più è Springsteen (i due collaborarono nel disco “Bad Luck Streak In Dancing School”, pubblicato nel 1980) andando più in fondo alle canzoni e alla sua vita ci si rende conto che è molto vicino al mondo oscuro di Willy De Ville, e non solo per la splendida cover che il gitano ha fatto di Carmelita. Cover, detto per inciso, che ha subito lo stesso trattamento che fece Hendrix a “All Along The Watchtower” di Bob Dylan. Ovvero, come una grandissima canzone può diventare un capolavoro.

Mister De Ville dal quel repertorio avrebbe potuto attingere a piene mani e sono certo che sarebbero state tutte delle meraviglie come Carmelita perché, oltre al fatto che Warren scrivesse sopra la media, Willy era uno che quando cantava e arrangiava una canzone sapeva quali strade prendere. D’altronde, e lo dico senza tema di smentita, è stato il più grande cantante bianco di rock e soul mai apparso sulla scena mondiale. Qualsiasi canzone in mano sua (anche l’elenco telefonico) avrebbe emozionato . Era il cuore e l’anima, era la musica fatta persona.

Zevon non aveva di certo l’aspetto della rockstar, troppo dimesso, troppo umile e fin troppo sincero con quel rock proletario a tinte forti messo a servizio di chi non c’è la fa, di chi è in lotta per la sopravvivenza. Raccontare in modo diretto e surreale come fosse uno scrittore di noir di eroinomani, bari, pistole e avvocati, di vita spericolata di quella vera, di quella vissuta sulla propria pelle, e mischiarci dentro ballate che sanno spellare il cuore fino a farlo grondare sanguinate non aiuta a uscire dal buio per andare in cima alle classifiche, anzi porta dritto in fondo all’oblio, che poi è come essere nell’anticamera per l’inferno.

Il mondo musicale che conta lo ha sempre bistrattato, forse anche detestato. Sin dall’inizio nessuna casa discografica lo voleva far incidere. Solo la testardaggine e il carisma di Jackson Browne gli hanno permesso di ritrovarsi in sala d’incisione con la crema del rock americano. Ma sempre in pochi si sono accorti dei suoi dischi, della bellezza delle sue canzoni. alla fine ci è voluta la mano pesante di Bob Dylan per sdoganarlo al grande pubblico, ma è stata la gloria di un attimo. Quando Bob seppe della sua malattia, inserì nella scaletta dei suoi concerti alcune sue canzoni e questo gli diede visibilità. Il gesto fu molto apprezzato dallo stesso Warren, tanto che nel disco “The Wind” che stava incidendo in compagnia di tanti amici che si erano stretti a lui, mentre il tumore lo divorava, per ricambiare registrò una commovente versione di Knocking On Heavens Door.

Lei gli dice di pensare alla necessità di sentirsi libera. Lui dice di non comprendere. Lei gli prende la mano dicendo che nulla si è realizzato nel modo che aveva previsto. E’ come molte donne, lui non ne trova una che sia anche amica. Lei pende da metà del suo cuore, lui non può possederne la rimanente parte, così le dice di accelerare nel vento. Quindi condivide sulla necessità che lei ha di sentirsi libera. Lei dice che potrebbe pure restare con lui, ma sarebbe semplicemente un capriccio (Hasten down the wind)


E’ stata tutta colpa del “Live at the Main Point” di Bruce Springsteen. L’ascolto di quel disco ha distrutto le barriere protettive che avevo alzato in fondo a me stesso, dove mi ero rifugiato da chissà quanto tempo. All’improvviso tutto è crollato sotto i colpi di canzoni che non avevo dimenticato come avrei potuto e mi sono sentito nuovamente fragile, miseramente me stesso ma finalmente vivo. Ed allora ho continuato a percorrere quei sentieri e sono andato verso casa raggomitolato nelle tracce di Genius, che è una buona raccolta di canzoni di Warren Zevon. I brividi mi hanno accarezzato, non avevo fatto in tempo a nascondere tutto, ho pianto sommessamente mentre ascoltavo “Hasten down the wind” e mi sono chiesto perché ero stato via tutto quel tempo, come avevo fatto senza di lui, senza quel rock che mi ha protetto, che mi ha fatto diventare adulto, quel rock che mi ha insegnato più cose di mille libri di storia. Ed allora, stando ben attento a non fargli del male, col cuore che mi batteva forte l’ho stretto ancora una volta tra le mie braccia. Se anche voi non avete più fretta, se vi va, tenetelo stretto, molto stretto al vostro cuore almeno per un po’, fin quando non gli viene sonno, fino a quando non si addormenta, laggiù, in paradiso.

Bartolo Federico










Eric Clapton – Old Sock (2013)




domenica 10 marzo 2013

Rock In Un Mondo Libero

L’altra notte  non riuscivo a dormire. Invece di continuare a girarmi nel letto, decisi di accendere la tele per vedere se riuscisse a conciliarmi il sonno. Girando i canali, incappai in un vecchio filmato d’epoca in cui rividi Lelio Luttazzi. Un flashback improvviso mi afferrò. Di Luttazzi conservo il ricordo indelebile dei miei giorni spensierati, quando la sua voce attraverso la radio entrava in tutte le case perché lui era il presentatore di Hit Parade, un programma radiofonico sui dischi più venduti in Italia. Una trasmissione seguitissima, allora, da tutte le famiglie italiane e che andava in onda intorno alle 13 su Radio Due. Fu un attimo e mi rividi in quella piccola cucina con quella faccia da furbetto smaliziato, vestito con i pantaloni alla zuava, la camicia celestina e i capelli cortissimi stile militare, le gambe piene di graffi e di sangue incrostato. Me ne stavo seduto con il braccio appoggiato al tavolo e mi reggevo la testa sbuffando e tenendo il broncio a mia madre perché avevo una fame da lupo ed ancora non era pronto. Lei, rivolta di spalle, intenta a preparare il pranzo, mi zittiva perché voleva ascoltare le canzoni e non i miei piagnistei.

Me lo ricordo perfettamente quel radio registratore sulla mensola della cucina. Era di colore grigio scuro con i tasti neri. Mia madre adorava ascoltare le voci di Barry White e Demis Roussos, due cantanti melodici che a me facevano venire il sonno ma guai a dirglielo perché, come minimo, ci si beccava un colpo di scopa. Era la metà degli anni settanta e in quel periodo mia sorella più grande, che possedeva un mangiadischi color arancio regalatole per il compleanno dai miei nonni, ascoltava i 45 giri dei Santo California, di Afric Simone, dei Goblin, di Wess e Dori Ghezzi , di Drupi, dei Rubbets, di Berto Pisano, dei Soleado, dei Cugini di Campagna, di Claudio Baglioni, di Riccardo Cocciante, di Mina, di Carl Douglas, Claudia Mori.  Ci litigavo sempre con lei perché quella musica mi stava sulle palle cosi tanto che per dispetto gli nascondevo il raccoglitore dei dischi. Ma da lì a poco non gli avrei dato più importanza, correo Carmelo, un ragazzo più grande di parecchi anni. Avrei scoperto il mio mondo, ma tutto accadde in maniera casuale. Si vede che in qualche modo ero un predestinato.

Era estate  ed insieme ai miei amici giocavamo con le figurine dei calciatori nell’androne del palazzo, dove c’era sempre una bella frescura. Ad un tratto i nostri schiamazzi furono sovrastati da una musica dura, suonata ad alto volume ed era la prima volta che sentivamo una cosa del genere. Per un momento quella novità spostò la nostra attenzione ma, mentre gli altri ripresero quasi subito a giocare, io restai in ascolto. Quella musica strana proveniva dal terzo piano dove abitava Carmelo. Alla chetichella mi allontanai e salii le scale e, per ascoltare meglio, mi sistemai dietro la porta. Quello che udivo mi sconvolgeva e mi incuriosiva ad un punto tale che mi feci coraggio e suonai il campanello. Quel dì Carmelo era solo. La durezza educativa dei suoi genitori non gli avrebbe mai permesso di tenere il volume dello stereo cosi alto. Quando la musica finì, suonai nuovamente e lui venne ad aprirmi. Dapprima mi guardò imbarazzato, poi mi chiese cosa desideravo. Gli dissi la verità, che volevo sentire da vicino ciò che stava ascoltando. Lui spalancò la porta e mi fece accomodare nel salone, raccomandandomi di stare molto attento a non rompere nulla sennò i suoi gli avrebbero impedito di usare ancora lo stereo e suo padre lo avrebbe pure picchiato. Mi sedetti sul divano e mi diede le copertine dei suoi dischi. Provai un emozione fortissima a tenere in mano quegli lp, che non erano molti, ma che a me parvero tantissimi. Quel giorno per me si aprirono le porte della percezione, quel giorno fu come se avessi spalancato un forziere pieno d’oro e in un botto avessi scoperto di essere diventato ricco. Conobbi i Led Zeppelin , i Deep Purple, i Vand Der Graaf Generator, i Genesis, i Gran Funk Railroad, gli Uriah Heep, Joe Cocker e, mentre guardavo le copertine imbambolato , ascoltai quella musica senza capirci nulla. Restava il fatto che mi attraeva e mi attraevano quei tipi con i capelli lunghi e i pantaloni a zampa e mi piaceva un sacco quel suono selvaggio delle chitarre elettriche. Tornai a casa con la promessa di Carmelo che mi avrebbe registrato quei dischi su cassetta. Non stavo più nella pelle per l’eccitazione.

Dopo qualche giorno, Carmelo venne a portarmi le cassette registrate di Made in Japan e Machine Head dei Deep Purple, Led Zeppelin I, Sweet Freedom degli Uriah Heep, H to He, Who Am the Only One dei Van der Graaf Generator e Foxtrot dei Genesis. Ero gasatissimo da quella musica e, anche se l’ascolto mi era difficoltoso, stavo tutto il tempo attaccato al radioregistratore. I miei amici mi reclamavano per andare a giocare, ma io non mi muovevo da casa, dovevo rompere quel muro immaginario che ancora non mi consentiva di passare dall’altro lato del mondo. Dovevo vedere quella luce a tutti i costi. Il volume di quella radio, di certo, non era granché per il rock duro dei Purple e degli Zepp, che del lotto divennero i miei preferiti. Sentivo che per godere in pieno di quel suono avevo bisogno di ascoltare ad un volume più alto. Nella discarica trovai un vecchio televisore a cui smontai l’altoparlante e con una scatola di scarpe feci una “cassa acustica”, ne riempii l’interno di cotone, la nastrai con del nastro adesivo nero, collegai il filo all’uscita della cuffia e, magicamente, la musica suonò un po’ più forte di prima.

Chiuso nella mia stanza, con il battipanni suonavo la chitarra e con i fustini del Dash, che allora erano rotondi, e i coperchi delle pentole formai una batteria. Mia madre, che un giorno entrò mentre accompagnavo un solo di Ian Paice, mi disse che ero andato fuori di testa. Non aveva ancora visto niente. Dopo di allora non mi tagliai più i capelli ed assunsi l’aria da rocker. Quando l’anno seguente andai al primo per geometri, ero alto e magrissimo e con quei capelli lunghi, a pensarci adesso, sembravo Joey Ramone. Alla fermata dell’autobus conobbi Piero, anche lui più grande di me di un paio d’anni, che mi parlò di Neil Young , dei Dobbie Brothers e di Bob Dylan ,ma anche di De Gregori ,Dalla,Guccini, De Andrè,Claudio Lolli, ma quest’ultimi per la verità ,non catturarono molto la mia attenzione. Poi, non ricordo come accadde, incontrammo Fulvio, uno più grande di tutti e due, e fu allora che il rock diventò qualcosa di imprescindibile dalla mia vita. Quando ci portò a casa sua a vedere la sua collezione di dischi, restammo a bocca aperta. Su quegli scaffali c’era un mondo nuovo.Sistemati rigorosamente in ordine alfabetico c'erano i vinili degli Allmann Brothers, Quicksilver Messanger Service, Grateful Dead,  Marshall Tucker Band, Ry Cooder, Taj Mahal , Cream, Traffic, gli Stones di Exile, The Band, Little Feat,Lynyrd Skynyrd, The Outlaws, Henry Paul Band, David Essig, John Renbourn, i Pentangle, Stefan Grossam, NRBQ, Commander Cody, New Riders of the Purple Sage, i Flying Burrito Brothers, i Doors, Jefferson Airplane, Hot Tuna, Janis Joplin, Animals, David Blu, Eric Andersen, Tim Buckley, Jackson Browne, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Laura Nyro, Van Morrison, Randy Newman, Simon &Garfunkel, Lou Reed, Mott The Hopple, i Byrds, Fleetwood Mac, Canned Heat, Mike Bloomfield, Tim Hardin, Phil Ocks, Dave Van Ronk, Nick Drake, Fairport Convetion, Frank Zappa, Miles Davis, John Coltrane, Art Ensemble of Chicago, Muddy Waters,B.B.King, John Mayall, Ten Years After.

Fulvio era davvero un pazzo scellerato, per la musica organizzava concerti di folk e jazz,ci coinvolse anche nell’organizzazione, non so più quante cassette registrai nei mesi seguenti. Ricordo solo che la mia stanza era invasa da TDK C60 e C90 , che allora erano il mezzo più economico per ascoltare musica. Poi, pian piano nel tempo, comprai tutti quei dischi che amavo di più. Aveva ragione mia madre, ero proprio andato fuori di testa.

Quando la mattina mi alzai, mi sentivo più stanco di quando ero andato a dormire. Feci una doccia, bevvi un caffè e, prima di andare a lavoro. cantai e suonai con la mia chitarra acustica Rockin' In The Free World. Rimango pur sempre un fuori di testa no.

Bartolo Federico