C’ero finito per caso in quel posto di anime sperdute, l’unico aperto a quell’ora della notte. Un caffè con due grandi ventilatori sul soffitto, e un vecchio flipper messo in un angolo. Sorseggiando un whisky allungato con acqua, guardai la ragazza con cui mi ero incrociato uscendo dalla toilette.
Nel bagno si era rifatta il trucco e sistemata l’acconciatura, poi con
aria spavalda aveva attraversato la sala e si era seduta sullo sgabello
del bar, proprio davanti al bancone. Guardando dritto negli occhi il barman,
ordinò da bere appoggiando i gomiti sul ripiano di marmo. Il barista in
una coppa che tirò fuori dal frigo ci versò due terzi di vermouth dry,
un terzo di kirsch, ci aggiunse un cucchiaino di granita, e le allungò
il suo bicchiere di Jack Rose. Si beve per svariati motivi. Per la paura del presente, del futuro, per smorzare l’ansia, o come anestetico. Ci sono però anche quelli più imprudenti, quelli che bevono per il piacere di bere.
Gente che non si crea nessun senso di colpa, come quella donna lì.
Smorzai gli occhi nel momento esatto in cui una fitta al collo mi fece
mancare il fiato, e presi a massaggiarmi delicatamente la nuca. Era da giorni che pioveva in città per il passaggio di una perturbazione africana, e l’umido aveva riacutizzato i miei disturbi alla cervicale. La ragazza terminò di bere, si alzò e si avviò lentamente verso l’uscita,
cosa che fecero in contemporanea anche altri due clienti. Non appena
fuori si fermò davanti al lampione che stava proprio di fronte
all’ingresso, si girò verso il barman e scambiandosi un occhiata di
complicità, scomparve nel buio. Abito al secondo piano di un palazzo di colore giallino, l’appartamento è di tre stanze. Sulla mensola della cucina ci ho messo una radio che ogni tanto accendo, quando i miei vicini si mettono a litigare. Deniz Tek è
una leggenda del rock, almeno per quelli che musicalmente sono
cresciuti nel buio dei garage, o nelle cantine maleodoranti. Un
chitarrista che nel 2013 con “Detroit” ci aveva raccontato della sua città, regalandoci un disco bellissimo e imperdibile, rinverdendo quel suono caro a tutti gli orfani di quella banda di rocker che ti levava il silenzio dal cuore, che erano i suoi Radio Birdman. In questi anni di crisi mondiale Detroit è diventata una città fantasma con i suoi capannoni immersi nel degrado urbano, con i quartieri periferici sconfinati abitati da persone in preda alla disperazione più cupa, e abbandonate in un declino economico e occupazionale che sembra non trovare argini. Colpito profondamente da quel disagio sociale Deniz Tek,
ha scritto quelle canzoni, per offrire un seme di speranza e di
rinascita alla sua gente. Quel disco gli ha dato nuova linfa, e anche
quella forza per andare avanti, e tuffarsi in nuove avventure. “Mean Old Twister” disco uscito nel 2016, lo conferma con dodici brani in cui sparge il suo credo, e placa le sue ansie con una musica che inquieta e fa ribollire il sangue,
di una nuova voglia di trovare una generazione disposta a riempire quel
vuoto nel rock, che si sta allargando a dismisura. Un pugno di canzoni
adatte a chi ha fatto della strada, il suo regno. Le novità sono un sax e
certe ballate notturne, che mettono i brividi. Adesso le strade di Detroit sono più pericolose di un tempo, e le zone critiche si sono allargate a dismisura per tutta la città. Gil Scott-Heron lo aveva cantato nel lontano 1977, che cominciavamo a perdere The Motown. Detroit è stata la città della General Motors, della Chrysler, GMC, Chevrolet, ma anche del soul, del rock’n’roll, del garage rock, del proto-punk. Bob
Seger, Commander Cody And His Lost Planet Airmen, Al Green, Diana Ross,
Hank Ballard, The Four Tops, Martha Reeves And The Vandellas, MC5, The
Stooges, Alice Cooper, Ted Nugent, Funkadelic, Suzi Quattro, Stevie
Wonder, Marvin Gaye, Smokey Robinson And The Miracles, The Falcons,
Jackie Wilson, Aretha Franklin, John Lee Hooker, The Knack, Grand Funk
Railoard, Del Shannon, ed il burbero e scontroso Mitch Rider,
sono una parte di tutti quei musicisti che provengono da quell’area
geografica. Ho spostato la radio sopra una pila di libri. Dopo mi sono
messo a fare le pulizie. Chi come Mitch Ryder è cresciuto ascoltando Sweet Jane, Subterranean Homesick Blues, Like A Rolling Stones, CC Rider, Rock’n’Roll, Soul Kitchen, Good Golly Miss Molly, Gimme Shelter, War, Heart Of Stone, House Of Rising Sun, On The Road Again… è di certo uno che ha il cuore al posto giusto. Nei primi anni sessanta, pur giovanissimo, se ne andava in giro con quelle canaglie dei Detroit Wheels, cantando con quella voce aspra che si ritrova, musica R&B e soul.
Mitch Ryder Iniziò come tanti a suonare per non finire prigioniero
dentro una fabbrica… oggi che quel lavoro appare come un miraggio. Per via del suo carattere che non gli ha fatto accettare compromessi che lo avrebbero sicuramente spedito diritto dentro le hit-parade,
è rimasto ai margini ad arrancare.Alle volte, nei pugni che la vita ci
riserva e che ci sconcertano, c’è racchiuso un dono. Quando le speranze
di rivederlo in giro si erano spente sbucò John Cougar Mellencamp, che lo tirò fuori da sotto quella pioggia torrenziale in cui era finito. La copertina di “Never Kick A Sleeping Dog” del 1983 è uno scatto che lo riproduce come un bastardo selvaggio, come il Marlon Brando di “Fronte Del Porto”, e questo dà subito indicazioni sul contenuto del disco. Il leone di Detroit
sigaretta tra le dita, carte da poker gettate sul tavolo, e uno sguardo
di chi non è abituato a piangersi addosso ti guarda dritto negli occhi,
fiero di ruggire un blue-collar rock senza compromessi. Cantando
canzoni che ti fanno correre a perdifiato, Mitch
aspetta solo che calino le tenebre per dilatare il petto e spremere il
dolore, gonfiandosi di rock’n’roll su qualche scalcinato palco di
periferia. Ritornai in quel bar il sabato sera. A mezzanotte passata, quattro ragazzi entrarono nel locale.
Li guardai con aria assonnata sotto la luce smorta. Una pioggia velata
veniva giù dal cielo, la osservai da dietro il vetro sporco di manate e
polvere appiccicata e mai tirata via. Quando ero ragazzo mi piaceva guidare lungo le strade senza una meta da raggiungere, nel caldo soffocante, come nel freddo pungente. Erano i giorni del coraggio,
e della passione incontenibile di un sognatore, che osservava la vita
da un’altra angolazione. Me ne stavo ore sotto il muro del torrente a
fissare i rami dei rampicanti attorcigliarsi tra loro, con le lucertole e
le formiche a passeggiarmi sulle dita delle mani, pensando che ce l’avrei fatta ad uscire dal grigiore della mia vita di periferia, e niente mi scoraggiava. Neanche quelle nuvole nere sparse nel cielo. Adesso quei bambocci
dall’aria insolente, e di sfida dipinta sul volto, se ne stavano anche
loro nel vento ululante. Li guardavo ed era come se mi rivedessi. Erano
arroganti come lo ero stato anch’io, per riuscire a fiutare le menzogne
di chi trama nell’ombra. Ancora non lo sapevano che conviene viaggiare
sottovento, perché quanto meno si ha una speranza di salvezza. Quella sera ero ritornato in quel posto con il desiderio segreto di rivedere quella ragazza dai capelli rosso henné,
ma non era venuta. Sprofondato nel mio angolino, avvertii da subito una
certa tensione tra il barista e quei tizi. Il più duro di loro portava
una montatura d’occhiali gigante, e anche se era ancora un ragazzino
aveva davvero un’aria minacciosa. Fiutando l’aria mi alzai dal mio posto
e mi avvicinai al barista, prendendo a conversare con lui. Anche Bob Seger nei primi anni settanta
aveva un aria da ribelle con quei capelli lunghi e lisci che gli
cadevano sulle spalle, e quello sguardo denso e fiero, mentre cantava
dei bisogni del sottoproletariato, e del duro lavoro in fabbrica. Se lo poteva permettere Bob Seger perché anch’egli proveniva dalla miseria dei sobborghi di Detroit,
ed era uscito da quelle strade con l’intento di svegliarsi per sempre
da quell’incubo che lo circondava. Voleva solamente salvarsi l’anima
suonando un rock caldo e sanguigno, intriso di soul e cantato con una
voce forte e coraggiosa, che da sola valeva il prezzo del biglietto di
un suo concerto. In Italia Bob Seger è sempre stato detestato e ignorato dai più, quasi deriso ma “Live Bullett” un doppio long-playing contenente uno show tenuto a Detroit nel 1975, ( ma pubblicato nel 1976) che ti fa balzare in piedi per il calore e la forza che ha il suo rock selvaggio, e per quella versione pazzesca di Nutbush City Limits, una hit di Ike & Tina Turner. Sul palco insieme a lui c’è la Silver Bullett Band, (niente da invidiare alla più famosa E Street Band).
Un gruppo di musicisti eccellenti e versatili, suonano una sequenza
vertiginosa di canzoni che sono un alternanza di suoi successi, e cover straordinarie. Musica che ha avuto una forza d’urto dirompente per molti ribelli di strada. Meravigliosi perdenti, gente fradicia di sudore e di whiskey, che per un brivido sulla pelle avrebbe fatto qualunque cosa. Anche scalare le porte dell’inferno. Ero un po’ brillo quando m’incamminai per far ritorno a casa. Rimuginai che avevo ancora paura dell’ignoto, e che ero stato uno che da sempre aveva combattuto contro i propri demoni, restando in bilico su quella impercettibile linea di sbarramento che passa tra la luce e le tenebre.
Che poi non è altro che la via che punta dritto al cuore, all’anima più
profonda, dove vi è relegato quello che non abbiamo ancora saputo di
noi. Conducevo silenziosamente la mia battaglia fra il bene e il male,
fra pazzi e saggi, non sapendo niente di entrambi. Non comprendendo
neanche dove collocarmi in questa assurda lotta. Era una serata non
troppo fredda, segnata da strane luci nel cielo. Aveva smesso di piovere
per cui mi sedetti sui gradini del porticciolo e, guardando la città
attraverso una nebbiolina d’umido, me ne restai lì in silenzio, aspettando l’alba di un nuovo giorno. Rock’n’roll never forgets.
Bartolo Federico