martedì 30 maggio 2017

Colpo Di Grazia

Spanish Jack è stato uno che cantava i battiti del suo cuore, che scriveva canzoni che sapevano scaraventarti addosso raffiche di passione, vizi, e poesia. Un musicista che non si è mai addomesticato come hanno fatti in tanti, ma che alla fine si è ritrovato a combattere per la mera sopravvivenza. Strano come vanno le cose in questo mondo, mezze schiappe che si arricchiscono, e talenti che restano al palo. Pure da morto Willy DeVille non è mai stato preso in considerazione dalla stampa e dal pubblico, solo quell’anima gentile di Peter Wolf gli ha tributato un sentito omaggio per le straordinarie pagine di musica che ci ha lasciato, e per quel fiume di emozioni che ha saputo regalare. Dagli altri “colleghi” solo un assordante silenzio. Persino uno stracotto come George Michael ha avuto tutti gli onori quando se n’è andato nel regno dei morti, ma per Willy nulla, come se fosse scomparso il gatto del vicolo. Eppure il rock quello vissuto a rischio e pericolo della propria vita, passa dai suoi dischi, sin da quando, nella metà degli anni settanta, infiammava le notti newyorkesi al CBCG’s con la sigla Mink DeVille. Un tipo sentimentale e tormentato Willy, un gentiluomo che saliva sul palco offrendo rose rosse alle signore, ma anche un artista pieno di dubbi e solitudine. Uno che ha ecceduto in tutto quello che ha fatto, ma che non ha mai tradito la sua musica per nessun motivo. Prima di “Coup De Grace” album uscito nel 1981, bisognerebbe andare a rispolverare anche “Cabretta” del 1977, “Return To Magenta” del 1978, e Le Chat Bleu del 1980, dischi pieni zeppi di soul e rhythm&blues, di ballad notturne e affascinanti e di quel rock latino suonato da chi è veramente nato e vissuto nella Lower East Side. I suoi amici si chiamavano Ignazio, Carlito, Juan, Pedro, Flaco… ragazzi con cui se ne andava in giro nei quartieri di Little Italy o China Town, nella notte zozza e depravata di una New York al neon, in cui tutti abbiamo sognato almeno per una volta di perderci. Quando uscì “Coup De Grace” il mondo correva dietro a “The River” di Springsteen, quindi in pochi si accorsero di quel disco con etichetta Atlantic Records. Una nuova line up, e i concerti di quel periodo dimostrano come sapeva infiammare la notte con un suono secco e selvaggio, romantico e vizioso, cantando con una voce che non ha uguali nel rock, che sapeva intaccarti fin dentro le ossa. Un colpo di grazia a tutti gli effetti, che suonava nel chiaro scuro dei sogni di tutti quelli che vivevano appesi alle canzoni di Gene Vincent, Ben E. King, Chuck Berry, Otis Redding, e i languori di donne come Edith Piaf e Billie Holiday. Gente dimenticata nei bassifondi, con l’immancabile sigaretta accesa tra le labbra, e James Cagney tatuato sul braccio. Un disco che tutti dovrebbero possedere se si crede nella magia del rock’n’roll, e se si ha nel petto un cuore vero, che pulsa sangue ed emozioni, e non un stimolatore cardiaco. Maybe Tomorrow è polvere calda e soffice sul viso, è la mano di un amante che ti accarezza e ti fa respirare basso e roco, portandoti in giro in quella parte della città dove anche gli angeli hanno paura a camminare. So long Willy.

Bartolo Federico




martedì 23 maggio 2017

Tutto Quello Che Volevo


Tutti i giocatori d’azzardo finiscono per fare quell’errore che li condannerà, superstiziosi e arroganti e anche un tantino bizzarri, sono colpevoli come il diavolo dei loro guai. Però sapere quando frenare non sarebbe sbagliato, almeno per non farsi troppo male quando le ombre con la loro faccia liscia e lucida iniziano a guardarti fisso negli occhi, e a rimproverarti i tuoi peccati. Ho aperto il cassetto e ci ho trovato delle sigarette spezzate, ne ho presa una e ho annusato il tabacco che sapeva di vecchio, mi è venuto da tossire, l’ho riposata e ho richiuso il cassetto. Erano le sue. Mi sono seduto vicino alla scrivania, tamburellando le dita sul tavolo. In questa casa si respira ancora il suo risentimento, le mie bugie, il nostro odio. Ho sentito un rumore da dietro la porta, non mi sono mosso, sapevo che non c’era nessuno. Non mi è mai piaciuto fare il cattivo, non è mai stato quello il mio ruolo. Cosi su quella disfatta, è toccato a lei infliggere il colpo finale. Mi sono alzato e ho acceso lo stereo, forse sparirò per un po’ di tempo, me ne andrò da qualche parte e porterò con me solo “Hustle Up Starlings” l’ultimo disco del cantautore Matthew Ryan, perché anche io come lui, sono morto in volo, come un aviatore. Ho riascoltato per l’ennesima volta All I Wanted e ho finito per piangerci di fianco, per quel suo modo di parlami di quelli che sono rimasti senza nulla in mano, che si sono persi senza fare rumore che, irrequieti come le mosche, si sono spostati nel buio, come per essere sicuri di esistere ancora. Il sole che sta occhieggiando tra i rami dell’albero mi striscia sul viso, e Close Your Eyes con gli occhi fissi nel nulla, sembra che insegua chi è già nelle braccia di un altro. Ho aperto la finestra e un venticello leggero è entrato soffiando sulle note febbrili e inquiete di Maybe I’ll Disappear, che affascinano con quella voce zeppa di raucedine, e strappano un brivido su quella cicatrice lunga e sottile. È sempre il suo modo di fare rock’n’roll questo, scuro e tagliente, la sua impronta netta e riconoscibile, di chi ha imparato a fare musica in bianco e nero, con canzoni che non rincorrono mai l’effimero, ma che ti fanno provare quei sussulti che ti mettono sdraiato sotto un’insegna al neon, ad ascoltare lo strascichio dei passi del mondo. Brian Fallon dei The Gaslight Anthem produce il disco, riportandolo dopo undici incisioni e vent’anni di carriera (svoltasi quasi nel più completo anonimato) a prendersi nuovamente cura di sé. Un musicista Matthew Ryan lasciato da solo a sorreggersi, che per farsi forza si è ferito di quel rock’n’roll che gronda sangue, e ti fa venire la voglia di mordere la vita, di spingere sull’acceleratore con l’antenna della radio a captare quelle emozioni che si diffondono solo in quella musica che ti fa fare le capriole, anche se non ne hai più la voglia, perché non sei più quel ragazzo che è scivolato senza respirare nel buio. Lo sa bene anche lui che quando s’invecchia si ha bisogno di una Summer Never Ends, di sole, di spiaggia e schiuma, delle onde del mare. Ho chiuso la porta dietro le mie spalle, erano le quattro meno dieci. Adesso metterò a posto le cose come ho sempre fatto, e quello che lei mi ha lasciato lo nasconderò nella parte bassa del cuore, nei profili senza luce, e ogni tanto ci danzerò con un delicato valzer. Non ho più da preoccuparmi di strabuzzare gli occhi, o sentire nell’oscurità quel groppo in gola, c’è sempre dell’altro, in ogni paura, in ogni sconforto, per i bastardi come me; e allora m’incammino lentamente, spingendomi attonito in quel trambusto dell’anima.
Bartolo Federico


Occhi Stellati


Quando si ascolta "All That May Do My Rhyme" di Roky Erickson uscito nel 1995, è come starsene nella California dei vagabondi con un sacco in spalla, e certi sogni sudati e stonati sotto il cappello. Sono gli anni sessanta, i giorni di quando si aveva fiducia nel prossimo e si dormiva in spiaggia attorno a un falò, e c'erano viandanti che sbucavano da tutte le parti che incrociavi anche solo con uno sguardo, e pure quella era un emozione profonda. Allora non contava dove eri diretto, quello che importava era la voglia di sentire strisciare sulla tua pelle quel brivido caldo che ti sconvolgeva, per essere passato soltanto da lì. Era il tempo dell'autostop e della difficoltà a farsi prendere su, mentre le nuvole t'inseguivano e l'odore dell'erba ti sfangava le narici. C'erano un mucchio di novelli Jack Kerouac lungo la strada presi da quell'andare non importa dove, antiborghese, antimilitare, schiocchi e babbei che credevano che si potesse cambiare il mondo con le chitarre e la musica rock, sgasando e frenando in quelle fughe solitarie attraverso il deserto, insieme alle canzoni di Bob Dylan e la poesia eccitata di Allen Ginsberg. Ma come si spiega adesso che quel mondo è morto e sepolto, che quello spirito di ribellione è rimasto soffocato sotto rotoli di catrame, di odio, di sogni infranti e promesse mai realizzate? Quel modo di scolarsi la vita, non esiste più. Ma è quel viaggio che senti scorrere attraverso queste canzoni e questa voce libera e pura, perché l’animo di Roky Erickson non conosce malizia, ma soltanto la confusione selvaggia di chi si è perso nella più eccitata quotidiana disperazione di vivere.
Bartolo Federico



domenica 21 maggio 2017

Sulla Linea Di Confine

Eccola qui un altra ragazza sperduta nel diluvio, questa volta sbucata dalla notte molle e umida della California. Una che è dolce, ma anche corrotta come il rock'n'roll, che se né andata in giro per molto tempo con in testa i versi di Hank Williams, Townes Van Zandt e Lucinda Williams (succede in  Back When) per riempire i suoi silenzi. Gilded è il suo disco d' esordio prodotto da Mike Ness dei Social Distorsion, un rocker di razza che ha dentro di se quel fuoco che brucia, difficile da spegnere. Un contrabbandiere d'emozioni  per chi è stato allevato giù nei vicoli, ed è sparito all'improvviso nel buio, senza dire una parola, senza un saluto, neppure un addio...sibilino. Sono canzoni piene di debiti, esigibili da chiunque abbia la voglia di ascoltarle, basta riempirsi un bicchiere e mandare giù un lungo sorso, e loro si trasformano in  un bacio languido, come in quel calore che  ti fa arrossire mentre riscalda il corpo. Ma nessuno ne sono certo si sentirà infastidito mentre si torna a riva nuotando...lentamente. Alle volte però si fanno dure  e rabbiose serpeggiando sotto la pioggia, ma continuando a fissarci negli occhi arrancano in quel dolore che ognuno di noi si porta appresso, come una pioggia di fuoco. E anche quando arriva  il violino di Sara Watkins che  le rende piene e armoniose, imbronciate di passione, si sente sempre un vento oscuro fischiettare. Respiro dopo respiro con quella paura che alle volte ci prende di soppiatto e ci piega in due, sono come una coperta da buttarsi addosso, dopo una forte scossa.  
E' arrivata di notte gocciolando di pioggia, con uno strano sorriso dipinto sul volto, mentre vuotavo le tasche e mi spogliavo del mio vestito. Era destino che c'incontrassimo. Lanciandomi sguardi di sottecchi l'aria si è fatta calda, ed è così che abbiamo viaggiato su quella strada dove i sogni continuano a cadere dal cielo, solo per guadagnarsi da vivere. 

Bartolo Federico




venerdì 19 maggio 2017

Fuori Dalla Zona Di Guerra

Tom Hickox si era presentato nel 2014 con l’album “War, Peace And Diplomacy” una colonna sonora per tutti quegli angeli dalla pelle troppo sottile, rimasti da soli con il cuore ferito e tristi romantici pensieri. Canzoni che sanno parlare di quelle cose perdute, che fanno mancare il respiro, e che riempiono gli occhi di lacrime, senza le quali lo spirito soffoca; è come se le tenebre lo avessero invitato a guardare là dove non abbiamo ancora scritto la parola fine, e intrufolarsi in quel gelo che ci portiamo appresso. Di recente ha pubblicato il suo nuovo lavoro, “Monsters In The Deep”, e il buio ha ritrovato l’anima, perché la luce del mondo è solo negli occhi degli uomini, e Tom Hickox sembra che tenga in mano una lanterna per illuminare il viso di quei mostri che si annidano nelle nostre profondità. Anche se la sua impostazione di musicista classico alle volte non manca di farsi notare (è figlio del direttore d’orchestra inglese Richard Hickox) questo non ostacola il suo costruire musica da novello sperimentatore, creando composizioni che riescono a sfuggire a qualsiasi classificazione. “War, Peace And Diplomacy” è prevalentemente un concept di ballate acustiche suonate al pianoforte, arrangiate in maniera originale con gusto e grande personalità, che hanno quella vertigine e quella magica atmosfera di “Notes to an Absent Lover” del cantautore canadese Barzin, e “The Boatman’s Call” di Nick Cave and the Bad Seeds. Qualcuno lo ha anche paragonato a Leonard Cohen e Randy Newman, senza citare Nick Drake; ma pur se questi accostamenti sono di grande prestigio, non focalizzano appieno la policroma personalità di Tom Hickox. La guerra, la pace e la diplomazia… suona intimista e parecchio suggestivo, nei suoi brandelli d’anima che sanno intrufolarsi in quei pertugi dove si annidano le nostre disfatte, scoperchiando nuovi e inquietanti dettagli; ma è la voce la Sua vera forza: un emozione nell’emozione, un baritono che riesce a toccare note improbabili. Una voce poliedrica, unica, che esplode contorcendosi con fragore in quel freddo che ci portiamo appresso; è un cielo bigio certo, e c’è qualche nuvola carica di pioggia, ma queste canzoni a cominciare dall’inziale The Angel Of The North, passando per White Roses Red, alla splendida The Lisbon Marù e Good Night (solo per citarne qualcuna, facendo sicuramente un torto alle altre) sono finestre aperte nel cielo, che illuminano quei solitari che scricchiolando si sono persi lungo il cammino. Per chi scende nell’oscurità non è mai facile risalire, ma in “Monster In The Deep” Tom Hickox ha cambiato direzione, pur continuando a scavare in quei coni d’ombra in cui ama abbandonarsi. In questo nuovo album c’è un cambiamento radicale rispetto all’anima “folk” di “War, Peace And Diplomacy”. La Sua incredibile voce si trasforma in mille altre voci, e le canzoni hanno un’aria più solare, come accade in Istanbul o in The Dubbing Artist, dove affiora il pop degli’indimenticati Housemartins, cosa che avviene anche in Korean Girl In A Waiting Room, solo che qui vengono “mixati” con l’anima sentimentale dell’Elvis di “Viva Las Vegas”. Quello che sicuramente gli è rimasta incollata addosso è la sua malinconia sognate, come nell’introspettiva The Mannequin Heart, e l’acustica The Plough, un vero tuffo al cuore con quel suo aleggiare ai giorni romantici e miserabili del giovane Morrisey“Monster in the Deep” è un disco che fa dei passi per aprirsi al mondo, pur con le sue ansie e la sua disperazione, e li fa mischiano rock ed elettronica, cinema e storie attuali, come accade in Perseus and Lampedusa, un piccolo gioiello di eleganza musicale, sempre frastornato da quelle figure inquietanti che lo assillano in una speranza di luce. Tom Hickox è un viaggiatore impetuoso, che nel caldo respiro del buio tocca il dolore e i tormenti, procedendo, sobbalzando e traballando nella luce smorzata, tenendo in mano il pistillo di un fiore scartocciato dal vento.

Bartolo Federico



domenica 14 maggio 2017

Guariscimi


Sarebbe stato fiero Hank Williams di una come Sarah Shook, se la sarebbe portata sotto quella luna assassina a farsi un giro di valzer, innaffiando la notte con secchiate di Jack Daniels. Sarebbe stata la ragazza perfetta per quell’ossuto e sbilenco cantante di honky-tonky, per bruciare insieme a lei la vita. Avrebbero vagato nel buio e corso come cavalli impazziti, con il fantasma del bandito Jesse James dietro la schiena, a proteggerli dalla loro stessa ingenuità. Si sarebbero infilati sotto una pioggia fredda e scura, consolandosi a vicenda, ululando ubriachi una oscura canzone che ripete ossessivamente che non sarebbero tornati più indietro. Perché si sa che agli uomini piacciono le donne spudorate e piene di guai, e alle donne gli uomini imprudenti. Ha un suono secco e duro questo disco registrato nel 2015 da Sarah Shook & The Disarmers, ma pubblicato solo adesso. Un album che si porta appreso un po’ di cose raccattate per strada, sotto quel cielo d’America che un giorno è stato lo spettatore di una folla di sballati, abbigliati e stonati di punk e radici. “Sidelong”, insieme a una buone dose di follia, ti fa sembrare nuova una cosa che nuova non è; perché Sarah Shook ha una vaga somiglianza fisica con Janis Joplin; come lei è selvaggia e imprudente, è cerca di colmare quel vuoto esistenziale che si porta appresso sprizzando scintille, ringhiando canzoni che possiedono melodia e personalità, e che si attaccano alla pelle come il nastro adesivo, sorrette da chitarre sporche e spigolose. Canzoni che sono un piccolo bignami del rock, dal momento che contengono tutti gli ingredienti per farti arrivare alla fine del disco, con la voglia di ricominciarlo a sentire. Anche quando spunta una miagolante lap steel c’è sempre una storia dura da ascoltare, come del resto sono tutte le vicende narrate da un autrice che guarda a quelle esistenze balorde e sperdute, confinate ai bordi delle città. Gente con il cuore sanguinate che si aggira tra bar malfamati e motel di quarta categoria, aspettando un alba che non porterà nulla di buono, se non un gran mal di testa, e il solito buco nero nel cuore. Piccoli diavoli senza nome che si fermano a guardare quelle ragazze che ballano da sole, tipe toste che come la stessa Sarah Shook hanno voci piene di tabacco e whiskey, e che tra un drink e l’altro si spostano nella notte come una volta lo faceva anche quella lupa affamata di Exene Cervenka, voce magnetica della band losangelina The X. In queste tracce il tradizionale “boom chicka boom” che a tratti viene fuori, prende le sembianze di un rockabilly alla Link Wray, ma anche quando la band lambisce i territori del country tradizionale, siamo sempre in presenza di un suono torrido e depravato. Alla fine solo un cammeo, con la sanguinante Heal Me, perché è uno di quei pezzi che ti marchiano a fuoco, e che ti fanno entrare in sintonia con il resto del disco. Mentre lei rantola una improbabile guarigione da quella vita dissoluta che conduce, il chitarrista dei Disarmers incastona una chitarra sudicia e desolata, per quello che tra qualche tempo sarà un classico del genere. Un brano per tutti quei santi e perdenti che si agitano scalpitanti e sbuffanti, quando la bottiglia è vuota. Il futuro adesso è un nuovo disco che uscirà nel 2018, ma “Sidelong” è polvere e fumo, disperazione e perseveranza, e l’impronta insanguinata della sua anima che è salita su quel treno del rock’n’roll pieno zeppo di storie dolorose, in viaggio senza una direzione. Canzoni smilze e grigie che sembrano abiti impigliati nei rami spogli e secchi di un albero, e che svolazzando nel vento sotto il cielo pieno di fenditure, dipingono un grande cerchio all’ombra di quel grande sole nero che la protegge.

Bartolo Federico




sabato 13 maggio 2017

Bersaglio Facile


John Mellencamp come il vecchio personaggio di Waits Frank Leroux ha da tempo appeso i suoi anni selvaggi al chiodo ma, invece di conficcarli nella fronte di sua moglie e di dar tutto alle fiamme, si è abbandonato alla malinconia e alla riflessione. Quel duro teppista che ai tempi di “America Fool” (1982) si faceva chiamare il puma, e che anche nel seguente “Uh-Huh” (1983) suonava un rock selvaggio figlio dei Rolling Stones; lentamente ha cambiato direzione facendo posto a canzoni dalla forte presa sociale, scavando nelle zone buie dell’animo umano. Così come un nuovo Woody Guthrie, disco dopo disco è diventato portavoce degli sconfitti, e di quell’America dalle mani rugose lasciata da sola a combattere contro gli spaventapasseri. Usando un songwriting privo di intellettualismi, e un linguaggio semplice e diretto, ispirato dalla lettura di scrittori come John Steinbeck o Larry McMurtry, è riuscito ad arrivare al cuore della sua gente. “C’è pioggia sullo spaventapasseri e sangue sull’aratro. Questa terra ha nutrito una nazione, questa terra mi ha reso orgoglioso. Mi dispiace figliolo, che questi siano soltanto ricordi per te. (Rain on the Scarecrow) Quando nel 1987 incide “The Lonesome Jubilee” nel suo rock fino ad allora prettamente chitarristico avviene la prima delle sue tante svolte; inietta nel suo sound rollinstoniano un’impetuosa dose di strumenti acustici (violini, fisarmoniche, mandolini, lap-steel, autoharp, dobro, banjo, pedal-steel) per raccontare della difficoltà del vivere e di quella solitudine in cui sono stati lasciati agricoltori e contadini, da un sistema bancario spietato e disumano, che sa solo strangolarli fino alla morte. Un album che è un urlo di dolore per le ferite subite, da non potersi più rimarginare. A distanza di trent’anni “The Lonesome Jubilee” mantiene intatta tutta la sua magnetica bellezza, e resta un caposaldo per ogni nuova band dedita al genere americana. Il piccolo bastardo però non è mai stato un tipo facile: un carattere spigoloso e burbero il suo, che alle volte lo ha fatto apparire indisponente quasi al limite dell’antipatia; ma che lo ha anche protetto e gli ha consentito di non montarsi la testa di fronte ai milioni di dischi venduti; usando invece quella forza per sperimentare sempre nuove strade sonore. “Big Daddy” del 1989 è il disco in cui si firma per l’ultima volta Cougar, ed è una lunga e malinconica ombra su un piccolo e misconosciuto Nebraska, che attraversa con toni dimessi e tormentati la povertà della gente e le umiliazioni, raccontando di quei sogni infranti e della disperazione che l’amministrazione Reagan ha causato a milioni di persone. In quel drappello di canzoni secche e solitarie, c’è spazio per rilasciare un piccolo capolavoro folk, che è la memorabile Jackie Brown. Per qualche strana ragione John Mellencamp è sempre stato sottovalutato dai più, ritenuto un gregario, una penna di secondo livello; ma la sua è una discografia solida, piena di stelle arrotolate nel cielo, dischi che sanno spaziare anche tra suoni più moderni, come ha fatto in “Dance Naked” (1994) e “Cuttin’ Heads” (2001) rimanendo comunque sempre fedele a se stesso, sempre attento a raccontare quelle storie di quegli uomini che non c’è l’hanno fatta, ma che nonostante la sofferenza e le mortificazioni restano pieni di dignità. Musica rock libera, calda e nuda, influenzata dal country, dal blues, come dal folk la sua, che meriterebbe ben altri riconoscimenti. John Mellencamp è uno che non si è mai messo in vendita, anzi ci ha sempre messo la faccia nel criticare i vari Presidenti che si sono avvicendati alla White House, cosa che di certo non gli ha portato favoritismi. Anche dopo l’elezione di Donald Trump non ha fatto mancare il suo grido di dolore pubblicando in anteprima il singolo Easy Target, tratto dall’album appena uscito, “Sad Clown & Hillbillies” qui posta in chiusura del disco. Una canzone che è ancora una volta una denuncia politica, una preghiera austera e implacabile, cantata con una voce malinconica, sempre più simile a quella del crooner Bob Dylan.
“Well let the poor be damned and the easy targets too. All are created equal, equally beneath me and you. Children crying under the time keeping sun. The war on the easy targets. We won’t ever, get this done. Easy targets.”
L’album da qualche giorno in circolazione è un tuffo nelle radici più profonde dell’american music. Sembra che aleggi lo spirito dell'uomo nero lungo il tragitto di questo disco, non per la presenza di Carlene Carter, ma per quell’atmosfera rurale e mistica assai cara a Johnny Cash. È una strada piena di dolore quella che attraversa, una scia di polvere marrone, giacigli e carri merci, angeli desolati con fagotti sulle spalle, ferrovie e albe grigie. Corpi infreddoliti e indifferenza, gente ferita dalla vita che si muove nel mondo con una certa cautela. I primi tre pezzi dell’album sono in perfetto stile Mellencamp, e anche il duetto con Martina McBride non aggiunge nulla di nuovo a quello che già sappiamo su di lui; poi arriva Indigo Sunset (cantata con Carlene Carter) e il disco decolla, anche se What Kind Of Man Am I ha la stesso intro di accordi della Hurt di Cash, non si ha più voglia di mollarlo questo disco, per quella profondità della voce mai così espressiva e piena di pathos che ha raggiunto; e che lo apparenta sempre di più al cantato maturo di Bob Dylan: esplicativa in questo senso è proprio la title track Sad Clown. Chi non ha mai prestato attenzione alle sue canzoni può iniziare da qui il suo viaggio; gli altri con le suole degli stivali bucati arrancheranno nel buio, reduci da quella fuga solitaria che li ha messi un giorno su quelle strade polverose, sapendo bene che non sarebbero più tornati indietro da quelle notti con la fuliggine sulla fronte, e il cuore a pascolare fuori da qualsiasi recinto. Ha smesso di piovere adesso, e il sole è venuto su. Non si sentono più rumori lungo la strada, e le nuvole cigolando sembrano dissolversi nell’ombra. Un disco per tutti, buoni e cattivi. 
Bartolo Federico