domenica 25 febbraio 2018

La Terra Degli Uccelli

La radio che possedevo quando ero ragazzo era un macinino, un ferrovecchio, che sputava musica dalla mezzanotte alle sei del mattino… e spesso era grande musica. Era tramite quell’aggeggio che mi arrivavano le emozioni più grandi che avessi mai provato. Me le ricordo ancora quelle ore nel cuore della notte, sdraiato sul mio letto. Era come se ci facessi l’amore con la musica. Era lei la mia amica speciale. Mi fu anche chiaro che non sarei mai diventato un avvocato, un dottore, un politico, e neanche un commercialista. La musica aveva intaccato la mia anima, accomodandosi in quelle profondità dove nessuno potrà mai arrivare. Mi ha cambiato per sempre la musica. Adesso sdraiato sul mio letto fisso delle ombre a forma di palla. Rimango a fissarle con un occhio aperto e l’altro semichiuso. Il suono di quelle vecchie melodie alle volte sembra svanire… ma poi come un soffio spinto dal vento, ritornano. Lasciandomi nell’ombra. Patti Smith durante gli anni sessanta, ascoltava musica attraverso le radio Fm che trasmettevano Wilson Pickett, James Brown, Smokey Robinson, Otis Redding… ma come lei stessa ha raccontato furono i Rolling Stones la sua più grande influenza musicale, per il fatto che Mick Jagger riuscisse a muoversi sul palco come se fosse un nero. Questo la colpirà profondamente, tanto che la reazione che ebbe di fronte alla tv guardandoli per la prima volta, fu quella di bagnarsi le mutandine. Poi anche Little Richard, Elvis, Chuck Berry, sono stati suoi punti di riferimento, con Jimi Hendrix e Jim Morrison. Nell’estate del 1970 i Velvet Underground si esibirono per l’ultima volta al Max’s Kansas City, un locale di New York, e Patti Smith era tra il pubblico ad assorbire energia. In quel periodo nella grande mela, si mettevano in bella mostra anche due band provenienti da Detroit. Due complessi che si muovevano sui sentieri della passione e dell’azzardo mescolando la musica alla vita, suonavano un rock violento e trasgressivo, antagonista al potere. Patti Smith non sfuggì al fascino animalesco ed eccitante degli MC5, e dei dissacratori Stooges di Iggy Pop. La loro musica diretta e convulsa, insieme all’approccio selvaggio che avevano dal vivo, influenzeranno profondamente il suo linguaggio sonoro. Conoscevo tutti i passaggi, i respiri, le pause di “Absolute Live” dei The Doors. Anche gli scricchioli, di quel doppio live pubblicato nel 1970 che conteneva una serie di concerti che il gruppo aveva tenuto in giro per gli States, fra l’agosto del 1969 e giugno del 1970. Quel disco si prendeva cura di me, nel freddo e nel buio. Era come se mi sedessi sul lettino dell’analista. Riusciva a fare uscire il buono e il cattivo, che covavo dentro. Almeno fin quando mia madre non entrava nella stanza urlando perché assordata e stravolta, da quella musica suonata a tutto volume. Facevo un balzo negli anni sessanta, la California, i figli dei fiori. Quello era un volantino dell’esistenza emancipata. Collanine e bracciali. L’allargamento della coscienza, attraverso l’uso di acidi lisergici. La meditazione. Le filosofie orientali. La sperimentazione. La sessualità, e la trasgressione. Un bisogno vero di liberazione. Per me Jim Morrison era un sogno. Una spina nel fianco al sistema, una provocazione continua. Un’immaginazione reale. Un sicario delle buone maniere. Si spingeva e mi spingeva, oltre il muro. Dall’altra parte del mondo. Adesso lo capisco anche meglio che era il suo delirio a tenermi vivo come non mai. Perché quando sei debole ti lasciano solo, e tutto va a rotoli. Un concerto dei Doors era una cerimonia pubblica, un atto sociale, un’azione reale. Arte e vita, tutto messo insieme. “Do You Feel Alright” urla Jim dentro il microfono. La gente gli risponde con gridi d’eccitazione. Ecco che Who Do You Love parte con i suoi ritmi primitivi. Musica scarna ed emotiva, avvolgente e lirica, spesso anche improvvisata. Visioni e poesia. Questo fu il rock dei Doors. Nient’altro. Patti Smith in uno dei suoi tanti viaggi fatti in Francia, si recò al cimitero parigino dov’è sepolto Morrison. S’immaginava di trovarci energia, ma su quella tomba non c’era altro che sporcizia e fango. Alla fine del 1976 esce “Radio Ethiopia”, corredato da una bellissima copertina, rigorosamente in bianco e nero. Un disco che è l’evoluzione di “Horses”. Perché è solo con questo disco che il gruppo ha un’anima, ed è diventato un vero ensemble. L’unità è la nostra droga disse Patti Smith. La musica adesso esce allo scoperto libera, fluida, e si fa linguaggio di strada nell’interpretare i sogni e le speranze, di quella nuova generazione di ribelli che scalpitano per le strade di Londra… ma è anche una discesa nell’abisso, il veicolo primario per trasmettere messaggi, introdurre idee, informazioni. Per questo all’interno del disco si trovano una serie di consigli dati dalla stessa Smith, per usare la musica. “Radio Ethiopia” brucia parole di fuoco, e parla una sola lingua universale… non ha strutture rigide e trasmette rock’n’roll. L’unica alternativa al silenzio delle coscienze. “Radio Ethiopia” invia messaggi di rivolta ma, oltre alle parole, in questo disco c’è la disubbidienza musicale di “Metal Music Machine”, il doppio album di Lou Reed. E’ difatti il suo sperimentalismo sonoro a guidare in R.E./Abissinia, (dedicata tra l’altro allo scultore Costantin Brancusi, e al poeta Arthur Rimbaud) il Patti Smith Group nell’esplorazione di nuove strade musicali, usando la chitarra Fender duo-sonic. La stessa usata da Jimi Hendrix. John Sinclair era un poeta, scrittore, critico, musicista, amico di molti personaggi della Beat Generation. Un rivoluzionario. Fu lui che aiutò i MC5 a diventare il gruppo di punta della rivolta giovanile americana, alla fine degli anni sessanta. Le esibizioni dei Five erano una vera provocazione alla morale e all’ordine costituito. Come quelle degli Stooges, loro illustri concittadini. Un gruppo legato all’impegno sociale i Five, dal suono duro e animalesco. La band aveva fatto suo il motto di Jerry Rubin un altro sovversivo, (con Abbie Hoffman andrà a turbare il sogno di pace, amore e libertà di Woodstock) che recitava di non fidarsi di nessuno che avesse più di 30 anni. A Detroit loro città natale questa regola fu messa in pratica rigidamente. Ai loro concerti non si entrava in nessun modo se avevi più di trent’anni. I Five si erano tirati dentro i disillusi del sogno americano, vecchi beat, pantere bianche, pacifisti, movimenti studenteschi, filosofi delle droghe, musicisti alternativi. Li avevano coinvolti tutti quanti, nella loro dura lotta al potere. Persino Allen Ginsberg era un loro fan. Il loro primo album, il live “Kick Out The Jams”, uscito nel 1968, vi darà solo un’idea di quello che erano capaci di tirar fuori questi musicisti. Una prova che a dispetto del tempo che passa resta integra è forte. Rock’n’roll selvaggio, per l’anima e il corpo. Per chi ancora crede che ci sia la possibilità, di avere una vita diversa. Senza idoli confezionati, pronti da consumare. Musica schietta, suonata con profonda emozione. La musica degli Stooges incarnava la paura, l’angoscia esistenziale, l’odio contro la borghesia, e la vita facile di tanti teenager bianchi. Era una musica forte, sfrontata, suonata su quei tre accordi che hanno fatto grande il rock’n’roll. Un suono brutale, un urlo demoniaco, psicotico, lacerante, nel buio della notte. Iggy Pop, il cantante della band, era un vero figlio di puttana, un talento naturale, che a diciotto anni se n’era andato da casa per vagabondare in quei luoghi dove si suonava il blues più scellerato. Un ragazzo che durante le esibizioni dal vivo aggrediva il pubblico ruzzolandosi tra la gente, agitandosi, denudandosi, bestemmiando e sputando. A fargli da spalla i fratelli Ashenton, Ron alla chitarra, Scott alla batteria, e Dave Alexander al basso. Il concerto che tennero a Cincinnati nel 1970 passò alla storia. Iggy Pop continuava a sbattersi il microfono dentro la bocca sanguinante, poi si lanciò tra la gente che lo aspettava con le braccia alzate. A torso nudo, le gambe fasciate dai pantaloni di cuoio nero, e il dito puntato contro un bersaglio immaginario, muoveva la lingua insanguinata. Un suicidio live che scandalizzava chiunque e che ha quasi ucciso Iggy. Il loro primo disco “The Stooges” è del 1969 e fu inciso in solo quattro giorni, con la produzione di John Cale. “Fun House” invece è del 1970. Nel gruppo fece la comparsa il sax lacerante e nervoso di Steven Mackay. Un disco accecante di rabbia e di energia. Un suono implacabile sostenuto dalla voce rauca di Iggy, a segnare una delle pagine più belle che il rock’n’roll ci ha regalato. Basta ascoltare L.A.Blues, il brano che chiude il disco, per capire fin dove gli Stooges si erano spinti. Cinque minuti di puro inferno sonoro, con il sax isterico di Mackay che attraversa i territori del free jazz, inseguito da riff micidiali di chitarra, mentre Iggy continua a urlare la sua depravazione. Un’esperienza devastante. La droga, la follia, la rabbia, rese la musica degli Stooges oscura e ipnotica. Il tempo di un altro disco con la produzione di David Bowie è il sogno se ne va a catafascio. Braccato da quella nuvola nera che lo stava distruggendo, Iggy decide di sparire. Poi lentamente risalirà la china. Certo, per qualche tempo ho pensato di avere preso la strada sbagliata ma, arrivato al bivio, non ho fatto nulla per tornare indietro. Quando ero giovane pensavo che avrei cambiato il corso delle cose, se solo lo avessi voluto. Non è andata così… ma ci tenevo di più a guardarmi allo specchio, e non vedere qualcun altro. Perché si paga tutto prima o poi, e si paga anche per quello che non si vede alla luce del sole. Certe cose dentro di noi, non vanno mai in prescrizione. Mi sono tolto la giacca, e ho lasciato vagare i miei pensieri. Dopo ho acceso la radio. La notte stava salendo, senza un filo di vento. Una volta volevo diventare una rockstar, poi un bluesman… ma in effetti cercavo solo un po’ di calore. Il rock’n’roll mi ha svegliato, mi ha guarito, mi ha protetto. Mi sono guardato intorno e ho visto tutti quelli che mi hanno superato, imprecando, spingendo. Non so dove siano finiti. In effetti io ho solo fatto del mio meglio, per restare integro. Ho rivolto il mio sguardo alla “terra degli uccelli”, ed ho visto delle piccole stelle brillare. Mi si è stretto il cuore. I miei eroi sono i nati perdenti… e il mio cuore è nella strada.

Bartolo Federico 

domenica 18 febbraio 2018

Gli amici del diavolo

“Metto in valigia i miei vestiti ed inizio la mia fuga Sono nei guai, tesoro, sono in viaggio Non riesco ad essere soddisfatto Ma proprio non riesco a smettere di provarci.” (I Can’t Be Satisfied – Muddy Waters).
Guidavo senza sosta con il gomito appoggiato al finestrino
. L’auto andava che era una meraviglia, intanto che il vento alzava nuvole di polvere bianchiccia. Bevvi un sorso d’acqua e infilai un cd nell’autoradio. Non appena la musica venne fuori, mi sentii al sicuro dentro le canzoni di Blind Willie McTell. Nonostante quei blues fossero cantati con toni scuri e ruvidi e all’improvviso si impennassero in falsetti che mi turbavano, le sue canzoni parlavano di speranza che non capitolava mai, neppure di fronte alla sfortuna più nera, di quella determinazione che occorre sempre per affrontare i periodi più duri cui la vita ci mette al cospetto. McTell era uno zingaro, un vero vagabondo. Per lui il richiamo della strada era qualcosa di irresistibile. Pur se cieco, era sempre in movimento, all’inseguimento di quella cosa che mai nessuno raggiungerà. Hot Shot Wille, Georgia Bill, Pig’n Whistle Red e Blind Sammie erano i suoi fantasmi che utilizzava per incidere e aggirare gli obblighi contrattuali con le case discografiche dell’epoca, dato che era anche un autore prolifico… ma pur celandosi, il suo stile restava unico e riconoscibilissimo. Nel cielo del mattino, avevo ingranato la marcia indietro dei ricordi e sotto un sole cocente un po’ di nostalgia mi sbucciò gli occhi. La notte l’avevo trascorsa nel buio di una squallida stanza di un fottuto motel che avevo trovato lungo il tragitto. Un posto senza clienti che costava poco. Buono per chi non si attende più nulla dalla vita. O per chi non ha più voglia di parlare. Manco con se stesso. Correvo in auto e mi chiedevo come fossero state quelle strade polverose, percorse da quell’esercito di pezzenti di cui anche il giovane cieco McTell faceva parte e che, come tanti altri, percorreva per unirsi agli spettacoli itineranti dei medicine show. Era davvero bravo a spostarsi, nonostante il suo handicap. Suonava ovunque capitasse i suoi blues che poi divennero assi portanti del rock. Statesboro Blues ne è un esempio. Gli Allman Brothers ne fecero una versione stupefacente. Ma anche Mama,Tain’t Long For Day, Three Women Blues e Broken Down Engine Blues lasciarono il loro segno indelebile. Era un esploratore della chitarra dodici corde. Lo strumento non aveva segreti per lui. Sapeva usare benissimo le accordature aperte e il suo repertorio abbracciava svariati stili che andavano dal ragtime, al folk, alla ballata popolare e, come gran parte dei musicisti girovaghi di quel tempo, sapeva adattarsi alle richieste del pubblico. Il cielo sulla mia testa mi sembrò una prateria con tutte quelle piccole nuvole a pecorella che giocavano a rincorrersi…. e m’immaginai per un attimo che goduria sia stata per tutti quelli che lo incrociarono, magari in compagnia del suo compagno di viaggio, il texano Blind Willie Johnson, per le strade di un America che è andata via via sbiadendosi. Certo, tutti più o meno siamo stati innocenti una volta. Poi il tempo ha fatto il suo corso e ci ha cambiato ferocemente. Me ne andavo vagando in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti, e mi sentivo come se il mondo di cui facevo parte non mi appartenesse. Mi fermai per una sosta. Comprai un panino e bevvi acqua frizzante ghiacciata. Presi anche un caffè. Ci voleva una volontà di ferro per proseguire con tutto quello che stava accadendo. .. ma avrei di gran lunga preferito essere un viaggiatore furtivo, uno di quelli che dormiva in spiaggia nel sacco a pelo e al mattino se ne andava cercando la linea ferrata per saltare sul primo treno che passava.
“Il treno merci è stato quello che mi ha insegnato a piangere Il grido del macchinista è stata la mia ninna nanna Ho il blues del treno merci Oh cara, ce l’ho sulla cima delle mie scarpe vagabonde”. (Freight Train Blues – Traditional)
Avrei voluto incrociare sguardi ed emozioni che mi assomigliassero, ma in quel posto non c’era più nulla. Mi rimisi in macchina e me ne andai così come ero venuto. Senza fretta. Se davvero vuoi imparare a suonare e scrivere canzoni – diceva Tommy Johnson – devi andare da solo a mezzanotte a un crocicchio. Un enorme uomo nero arriverà, prenderà la chitarra e suonerà un brano. Bere era sempre stata la sua ossessione e quando non trovava il whiskey riusciva a mandare giù qualsiasi cosa, anche l’alcool denaturato o il lucido da scarpe a base alcolica. Tommy aveva fraternizzato con il diavolo o, forse, era lui stesso un demone e bruciava dentro quel fuoco in cui poi molti protagonisti del rock finiranno. Vederlo suonare dal vivo era sconvolgente. Si dimenava come posseduto, cantando con una voce drammatica e intensa i suoi blues indemoniati. Anche lui, come Charlie Patton con cui aveva condiviso alcune esibizioni, suonava la chitarra dietro le spalle… ma non era per niente ossessionato dalla tecnica. Gli bastava semplicemente far venire fuori il suo boogie woogie maligno, per graffiare a sangue l’anima. Per sempre. Di questo passo all’inferno ci finirò io pensai, dando fuoco a una cicca. Era già il crepuscolo, e la quiete era assoluta. Non so più cosa voglio o forse non l’ho mai saputo… ma ci sono cose che ti piovono addosso, e che devi accettare supinamente. Hai voglia a scuoterti come un tarantolato, cercando di mandarle via. Si portano con sé anche quel po’ di magia che possedevi… allora ti rendi conto che è stato il mondo a prenderti a calci nel culo, e non viceversa. Cosi smetti di credere. Mentre tenevo gli occhi fissi sulla strada avrei voluto che piovesse. Cercai un indizio per non capitolare e mi chiesi in quale cazzo di direzione era mai la terra promessa. Il fantasma William George Tucker nasce il 14 novembre del 1905 a Henning in Tennessee. Nello stesso anno di Arthur “Big Boy” Crudup. Quel giorno, suo padre mise delle ciotole sul davanzale della finestra e raccolse la pioggia. Più tardi con quella stessa acqua lo battezzarono. Fu in quella circostanza che si accorsero di quegli strani graffi scarlatti che aveva sul petto.
“Una zingara disse a mia mamma, il giorno in cui nacqui, “Oh, sta per arrivare un maschietto. Oh Signore, sarà un vero diavolo”. (Hoochie Coochie Man – Willie Dixon).
Nessuno di noi può prevedere il proprio destino, ma quello riservato a William George Tucker fu davvero spietato. A quel tempo quando nascevi nel Delta del Mississippi, la musica ti veniva servita sin dalla prima poppata. Ben presto William imparò a tenere una chitarra in mano e con questa si esibiva alle feste, nei bordelli e per strada. Nella prima metà degli anni trenta arrivò a suonare con John Lee Williamson (Sonny Boy I) e Sunnyland Slim. Il suo blues rozzo e primitivo, ma pieno di pathos e cantato con una voce sgraziata che toccava nel profondo. Le cose sembravano andare per il meglio, ma quei segni che il diavolo gli aveva lasciato sul petto erano premonitori. In circostanze che resteranno per sempre oscure venne accusato dell’assassinio di un uomo bianco, tale Mr. Charlie. Sapendo bene che il giudizio sarebbe stato scontato, fece perdere le sue tracce per diventare un vero spettro. Ricomparve dopo qualche anno a Chicago con una nuova identità, facendosi chiamare John Henry Barbee. Si esibì sui marciapiedi di Maxell Street, in compagnia di altri randagi e della sua fedele sei corde… ma per sopravvivere dovette svolgere i lavori più umili, convivendo sempre con la paura di essere riconosciuto. Paura che lo smantellò irrimediabilmente nel fisico e nell’animo. Durante il blues revival degli anni sessanta fu riscoperto e incise per l’etichetta di Victoria Spivey. Andò anche in Europa a suonare a seguito dell’America Folk Blues Festival… ma il diavolo volle il saldo.
“Ho due ragioni per piangere tutte le notti solitarie La prima si chiama Sweet Anne Marie ed è la delizia del mio cuore. La seconda è la prigione, bimba, lo sceriffo è sulle mie tracce e se mi raggiunge passerò tutta la mia vita in cella”. (Friend Of The Devil – Garcia-Hunter-Dawson).
Perdutamente alla deriva, una sera restò coinvolto in brutto incidente d’auto. Quest’evento cagionò un effetto devastante su di lui, tanto che lo indusse a costituirsi per dimostrare finalmente la sua innocenza. In carcere, in attesa del processo, si sentì male. Un’ambulanza lo caricò per trasportarlo all’ospedale ma morì d’infarto durante il percorso. C’è solo un album che testimonia la sua umanità, “Portrait In Blues vol 9″, che è la colonna sonora di tutti quei fantasmi che come lui non hanno mai avuto giustizia. Il suo blues è disperato, drammatico, carico di dolore lacerante come solo questa musica può esserlo, quando sgorga direttamente dal cuore. Ero lì da solo e guidavo su quella strada tortuosa e solitaria. Con i miei sogni raggrinziti che sentivo, anche se stancamente, pulsare… e quel vuoto immenso dentro di me. Imboccai la statale e oltrepassai un ponte. Udii il rumore del traffico venirmi dinanzi. Non riuscivo ad essere in pari con me stesso, era questa la verità: il fatto di essere stato più e più volte ferito aveva cambiato la mia prospettiva, la mia visuale delle cose. Avrei dovuto trovare un posto dove stare. Con il finestrino abbassato, il caldo afoso mi ansimò in faccia. Una farfalla volteggiò nell’abitacolo. Le farfalle simboleggiano il calore dell’estate. I sacerdoti Zuñi usano mettere le farfalle nere dentro i tamburi in modo che il loro suono porti al delirio gli ascoltatori. Proprio come i blues. I miei maledetti blues.

Bartolo Federico

domenica 4 febbraio 2018

Bang Bang

Il cielo sulla sua testa si era fatto rossiccio e quella stella sperduta gli parve una borchia per capelli. La notte era calata ruvida come una ballata rock di Frankie Miller. Non c’era più niente in questo fottuto mondo che gli importasse, disse pensieroso fissando la strada buia e rigirandosi tra le mani la bottiglia vuota. Un vento umido proveniente dal mare saettò sul suo viso. Era caduto ancora una volta, ma non era una novità neanche questa per uno precipitato in terra ancora prima che nascesse. Spinse il tasto del play che stranamente schioccò come un bacio sulla guancia e la canzone ripartì.
“Melinda era mia fin al momento che la trovai stretta a Jim mentre lo amava. Poi arrivò Sue mi amava intensamente questo è quello che ho pensato. Io e Sue. Ma anche questo finì. Non so cosa farò. Ma fino a che non troverò la ragazza che vuole rimanere e non giocherà alle mie spalle. Sarò quello che sono. Un uomo solitario. Un Uomo solitario”. (Neil Diamond – Solitary Man). Hai voglia a spingerli da qualche parte, a seppellirli nell’immondizia o sotto fiumi di alcool, i ricordi tornano sempre, specie quelli più dolorosi. La strada silenziosa era gialla di luna. Strinse per un attimo gli occhi che gli bruciavano maledettamente e congiunse le mani a mo’ di preghiera. Nel palazzo di fronte si accese la luce di un bagno. Si sbottonò la camicia bianca intrisa di sudore e una smorfia gli irrigidì il volto. Il pallore del suo viso celava una rabbia mortale. Era sbucata all’improvviso quella donna, alta, bella, con uno charme tale da mandarlo in tilt come non gli era capitato mai in vita sua. Forse era un fantasma sbucato da chissà dove e a cui lui non doveva dire nulla. Adesso, però, seduto nell’abitacolo, sembrava che portasse tutto il peso del mondo sulle sue spalle e, a guardarlo negli occhi, faceva davvero spavento. Con quell’aria da animale ferito sembrava una ballata aspra dei Thin White Rope.
E qualcuno al telefono seppe le cose che io avevo sempre conosciuto Colonne sonore canticchiate ai sogni che avevo dimenticato Ho amato il telefono, parlato col segnale di linea Mentre la gente sui marciapiedi fuggiva da me”. (Thin White Rope – Diesel Man).
L’orologio a cucù sulla parete dell’ingresso misurava inesorabile il passare delle ore. Si racconta che il canto del cuculo è profetico, capace d’indicare la buona e la cattiva sorte. Poco prima che quell’uomo arrivasse, sua madre era solita chiuderlo a chiave nella viscere buie della sua stanza e solo dopo che il cuculo cantava tre volte gli riapriva la porta. Aveva otto anni, e questo succedeva ogni qual volta suo padre si allontanava per lavoro. Un commesso viaggiatore, suo papà, che ogni quindici giorni faceva il giro dei clienti fuori città assentandosi anche tutta la settimana. Aveva memorizzato le gesta di sua madre e sapeva che quel giochino, così lei lo chiamava, stava per iniziare. Poco prima che quell’uomo arrivasse si sistemava i capelli, si profumava il collo e indossava sotto la vestaglia una sottanina nera di seta. Poi accendeva il giradischi e ascoltava quella canzone. Sempre la stessa.
Mi ricordo quando noi eravamo due bambini e puntavamo le pistole dai cavalli a dondolo. Bang bang. Io sparo a te. bang bang. Tu spari a me. Bang bang. E vincerà bang bang. Chi al cuore colpirà”. (Dalida – Bang Bang).
Lo chiamava “Bang Bang”… sì, era così che lo chiamava da sempre sua mamma. Avvicinandosi al suo viso, glielo raccomandava che quello era un segreto fra di loro e che doveva restare tale per sempre. “Ricordalo, Bang Bang, ricordalo”, gli ripeteva, “non dirlo mai a nessuno”. Lui, così piccolo, non capiva e si limitava ad annuire stringendosi forte alle sue gambe. Quando era chiuso nella stanza per non sentire i gemiti aveva imparato a svuotare la mente, a non pensare a nulla. Restava immobile seduto sulla poltroncina, inebetito chiudeva gli occhi e vedeva tutto nero… ed era come se morisse. Solo il canto del cuculo lo scuoteva. Ma era un fremito che durava un attimo. Nella penombra dell’abitacolo si guardò le mani ingiallite dalla nicotina e quelle dita diventate tozze da sembrare gonfie. Erano mani possenti, le sue, mani che avrebbero potuto uccidere. Tali e quali a quelle di suo padre. Tre uomini in abiti eleganti con cravattino e scarpe lucide lo distolsero dai pensieri. Parlottando tra loro gli passarono accanto, e gettandogli un occhiata svogliata scomparvero nella notte. Aveva come l’impressione che dovesse stare sempre in castigo tanto che non ci capiva più nulla delle cose del mondo. Troppo dure le batoste che aveva ricevuto… ma giù nei vicoli, se abbassi la guardia, ti fanno fuori in un baleno… e i teneri di cuore hanno vita breve. Accese una sigaretta, anche se si sentiva la gola grattare, e tirò una lunga boccata bruciando il filtro che divenne molle. Abbassò il finestrino e una folata di vento lo fece rabbrividire. Come una canzone dei Beasts Of Bourbon.
“Ridestato nella stanza di Johnny, Mama era proprio lì accanto al suo letto e le mie mani intorno alla sua gola, desiderando che entrambi fossimo morti. Pensi che sia pazzo, Mama, e tu? Ho appena ucciso il cagnolino di Johnny. Pensi che sia fuori di testa, e tu, Mama? Faresti meglio a farmi rinchiudere”. (Beasts Of Bourbon – Psycho).
Con le dita si trastullò per un po’ sul volante. Poi si ricordò di prendere la pillola per i nervi che teneva nel taschino della giacca. Tirò fuori l’astuccio, ne staccò una e la inghiottì. La luce dei fari di una macchina che transitava in senso opposto illuminò per un attimo il marciapiede. Qualche isolato più avanti, sepolto nel buio riconobbe un uomo. La sua faccia era indubbiamente smorta ma sinistra. Però su di lui non sortì alcun effetto. Mise il nastro di 
Otis Redding e Hard To Handle popolò le ombre. Era chiaro che non gli faceva bene rimuginare nel passato, ma quello torna sempre quando meno te lo aspetti ringhiandoti nell’anima. Certo, aveva fatto di tutto per dimenticare, ma alle volte dimenticare è quasi impossibile.
“Ho lasciato la mia casa in Georgia. Diretto verso la baia di Frisco. Perché non avevo niente per cui vivere. E sembra che niente incrocerà la mia strada (Otis Redding – Sittin’On The Dock Of The Bay).
Il cuculo aveva cantato tre volte e poi altre due. Le aveva contate con le dita della manina, tenendola aperta sulle ginocchia. Come pietrificato, se ne restava seduto immobile aspettando che sua madre lo facesse uscire. Dopo il primo
cucù” aveva udito dei passi nel corridoio ma era tornato subito con la mente nel vuoto, non immaginando nessuna cosa… o forse fingendo a se stesso. Finalmente la porta della stanza si schiuse. Con la coda dell’occhio vide entrare due poliziotti in divisa che si avvicinavano delicatamente. Uno di loro lo prese in braccio e si accorse che si era bagnato. Bisbigliandogli di stare tranquillo, con la sua grossa mano gli coprì il viso mentre lo portava fuori dalla stanza ma, l’odore pungente della morte è inconfondibile, lo senti anche se sei un bambino e lo avverti perché ti penetra nelle narici quasi fino a sfondartele. Velocemente l’agente percorse il corridoio, ma lui gli spostò la mano e vide il corpo di sua madre nuda riverso in terra. C’era sangue, sangue sui muri, sul pavimento, sui quadri, sulle maniglie. Persino sull’orologio a muro. C’era sangue dappertutto. Vide anche quell’uomo accasciato sulla porta della stanza da letto con un profondo taglio nel petto. L’agente lo caricò alla svelta dentro un auto cercando di tenergli con molto garbo la testa bassa, ma Bang Bang, sempre con un gesto fulmineo si divincolò e dietro la siepe incrociò lo sguardo di suo padre. Lo scorse lì, fermo, ammanettato, con gli occhi stralunati e le sue grandi mani tinte di rosso… e fu quella l’ultima volta.
“Non c’è solo odio nel mondo. Non ci sono solo buchi nel cielo. C’è solo un destino che non puoi rinnegare. Due amanti aspettano di morire. Joe si è ammalato in guerra, tra le vene e la mente. Sammy si è ammalato a causa di tutte le bugie. Due amanti aspettano di morire…C’è solo una lacrima che continua a volar via…”. (Green On Red – Two lovers Waitin’ To Die). 

Anche se Bang Bang riusciva a svuotarsi la testa, quelle urla disumane non potevano essere ignorate. Suo padre li aveva uccisi con una crudeltà inaudita. Durante quei momenti aveva azionato i meccanismi che ci portano a rinchiuderci nella nostra linea di difesa. Come una pietra scagliata in uno stagno forma dei cerchi che man mano si dilatano e si estendono per poi scomparire nell’infinito. Bang Bang era scomparso da quel luogo e si era messo a volare nello spazio tra le nuvole… ma quella puzza di morte, lui, la sentì sempre incollata addosso. Pure adesso la percepiva mentre, sbucavano fuori dalle ombre anche i più piccoli dettagli. Quando fu tutto finito suo papà aveva azionato il giradischi e messo quella canzone. Sempre quella. Sempre la stessa.
Ora non mi ami più Ed ho sentito un colpo al cuore Quando mi hai detto che Non vuoi stare più con me Bang bang… E resto qui Bang bang A piangere Bang bang hai vinto tu Bang bang Il cuore non l’ho più”. (Dalida – Bang Bang). 
Non era più tempo d’ ingannare nessuno, neppure se stesso. Lei aveva un bel viso liscio che assomigliava a Rickie Lee Jones. Indossava una giacca di pelle nera striminzita e una camicetta bianca di raso sopra un jeans attillato. Quando arrivò sorridendo e salì in macchina, si strinse contro di lui. Quel calore che lei emanava lo aveva scosso fino dentro le ossa e sentirsi vivo, per uno che aveva le carte del destino nate male, era una sensazione indescrivibile. Guardando la strada mentre calava la notte, aveva parlato e ancora parlato, fino a spurgarsi l’anima. Poi si era librato nel cielo, ma questa volta lo aveva fatto un attimo prima che non riuscisse più a piangere. Quando riaprì gli occhi lei lo stava guardando e sfiorandolo con un bacio si accorse che c’era ancora una certa tensione in lui. Adesso puoi levarti quella faccia da lupo, gli sussurrò con dolcezza accarezzandogli i capelli. Lui avviò il motore, inserì un nastro e fece partire Burn, una canzone dei Dream Syndicate. Il cielo era scintillante di un blu intenso. Lei si girò nuovamente verso di lui e, affondandogli lo sguardo negli occhi, si accorse che per la prima volta gli sorridevano.
“Ma puoi sentirlo nel cuore. Sentirlo nell’anima. Sentirlo andare intorno finché non perdi il controllo. Sono solo poche cose che non possono essere raccontate. Non lo senti bruciare?” (
Dream Syndicate – Burn).

 Bartolo Federico