giovedì 12 aprile 2018

Bourbon Blue

Guidavo sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote. Quel paesaggio, se da un lato alimentava una sensazione d’intensa malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro appoggiato sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi la radio e inserii “Undead”, anno 1968, un set  dal vivo dei Ten Years After, gruppo inglese in auge dalla metà degli anni sessanta. Il chitarrista e anche leader della band, Alvin Lee, per tecnica, velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re della sei corde Jim Hendrix… ma la storia del rock è ingrata e, come spesso accade, i Ten Years After sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La musica riempì l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare via la cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano. Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far fischiare le gomme sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di scotch che tenevo nel cruscotto e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre avuto l’impressione che l’alcool potesse ripulirmi dentro, e spegnere quel tormento che mi portavo appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere, almeno in un certo modo, anche se l’alcool restava una tentazione molto forte. Il motore adesso tirava che era una bellezza, scrollai il capo e  mi abbandonai  alla musica. C’è un nugolo di ragazzi in fondo al viottolo. Sto lì, in mezzo alla stradina con il labbro gonfio e i pugni serrati. La lite è terminata ma è stata furibonda. Qualcuno adesso piange, altri scappano. Continuo a stare fermo, e fisso l’uomo di fronte a me. Lui prova a fare un passo in avanti, ma con un gesto rapido mi chino e prendo da terra una grossa pietra appuntita. Si ferma e intuisce che non ho paura. Il sole è alle mie spalle. Ha il viso tumefatto ed è una maschera di sangue per i colpi che ha preso. Bestemmiando mi urla che, prima o poi, con me regolerà il conto… ma i conti vanno regolati subito, se no stai bluffando. Per uscire dal viottolo cammino all’indietro. Qualcuno mi dà una pacca sulle spalle, sono stanco, esausto, scappo e vado a rifugiarmi sotto un albero di limoni con cui disinfetto anche le ferite. Mi sdraio a faccia in giù sull’erba secca. L’odore della terra è cosi forte che mi sconquassa le narici. Mi addormento. Giravamo sempre in gruppo da ragazzi. Se qualcuno si allontanava, aspettavamo che riapparisse nel tempo stabilito. Una volta scaduto, si andava tutti insieme a cercarlo. La regola era che nessuno doveva rimanere indietro da solo. Quel pedofilo aveva afferrato dalle spalle Lillo che, per il terrore, non riusciva neppure a gridare. E lo stava trascinando dentro casa, che era proprio in fondo alla stradina. Arrivammo appena in tempo per tirarlo via da li. La libertà è sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e Peter Fonda nel film Easy Rider”. Nell’ascoltare un disco di musica rock, fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può trovare in mille cose. Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le persone, marciscono e ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei ragazzi. Lo stesso buon senso che animò il gesto di Tommie Smith, un atleta di colore nato a Clarksville, Mississippi, la terra del blues. Tommie vinse la medaglia d’oro sui 200 m nella finale olimpica di Città del Messico con il tempo di 19”83… fu lui il primo uomo a scendere sotto la soglia dei 20”. Smith vinse quella medaglia anche per conquistare quell’America che lo bistrattava e che invece lui amava. Quell’America bigotta e razzista che lo applaudiva ipocritamente e che avrebbe preferito di gran lunga darlo in pasto al ku klux klan. Quell’America gli voltò le spalle nel momento esatto in cui scese i gradini del podio. Tommie Smith durante la premiazione, insieme al suo connazionale John Carlos, arrivato terzo, ascoltarono l’inno nazionale scalzi, chinando il capo e sollevando il pugno in aria avvolto in un guanto nero. Quell’azione cosi plateale fu a sostegno del movimento chiamato Olympic Project for Human Rights. La federazione statunitense li sospese dalla squadra con effetto immediato e furono espulsi dal villaggio olimpico. Una volta a casa ricevettero anche minacce di morte e furono licenziati dal lavoro. L’America del non senso aveva vinto. C’è stato un tempo in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi… il problema, semmai, era crescere, restare insieme, capirsi, ma anche comprendere se stessi. Quello sì che era difficile. A me sgomentava il dover sempre e comunque vestire gli stessi panni per tutta la vita. Perché mi sarebbe piaciuto una mattina alzarmi ed essere Keith Richard, in un’altra Robert Johnson, e via di questo passo… e invece, sempre la stessa faccia sempre la stessa esistenza, a volte grigia a volte piena. Un esistenza che se ne andava per i fatti suoi, ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia furiosa. Quando i Ten Years After salirono sul palco di Woodstock, mandarono letteralmente in delirio il pubblico suonando una versione stratosferica del loro hit I’m goin’home. Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando  al riparo dentro l’androne del portone di casa. Posteggiai l’auto di fronte all’ingresso e in un baleno saltò dentro dandomi un lieve bacio sulla guancia. Stavamo riprovando a stare insieme, cercando di raccogliere i cocci sparpagliati della nostra esistenza e, per la prima volta, entrambi attraversavamo sentieri sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire. E noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del dialogo e del dolore delle parole… ma cosa sarebbe la vita senza passioni, mi chiesi mentre guidavo. Sono queste che in un modo o nell’altro ci tengono in piedi anche quando tutto precipita. Cyril Davies era un armonicista innamorato profondamente della musica nera. Aveva cominciato dedicandosi alla musica Jazz suonando il banjo durante gli anni cinquanta, per poi passare ad una sorta di miscellanea musicale molto affine a quella delle jug band americane chiamata skiffle. Non potendo mantenersi solo con la musica, lavora anche come tappezziere. Ma il blues quando ti entra in circolo t’infetta fin dentro l’anima ed è per questo che Cyril impara a suonare l’armonica blues ascoltando i dischi del suo eroe, Sonny Boy Williamson. Nel 1961 insieme ad Alexis Korner forma i Blues Incorporated, dove militeranno musicisti del calibro di Jeff Beck, Nicky Hopkins e il cantante Long John Baldry, tutti personaggi che avranno un ruolo primario nell’ambito del cosiddetto blues revival. Questo movimento si andò affermando nella metà degli anni sessanta Cyril Davies ne fu il precursore… ma proprio quando la scena musicale cominciò a catturare l’attenzione del mondo, morì stroncato dalla leucemia. Un rovescio di pioggia sul parabrezza mi riportò alla realtà. Alex  guardava la strada avvolta in un cupo silenzio. Le presi la mano gelida e la strinsi forte. Lei si girò  mostrandomi un sorriso smunto. Poi, con calma, molto lentamente, iniziò a parlare, raccontandomi di quando bambina andava dai nonni al mare. Parlò per tutto il tragitto ed io l’ascoltai senza mai interrompere. Quando finì misi un blues di quelli che mi hanno accompagnato l’esistenza e le parlai di quel giorno nel viottolo e della mia paura. Di quella fottuta paura che ancora adesso mi porto appresso… e per la prima volta lo confidai. Se quell’uomo avesse fatto un altro passo in avanti l’avrei ucciso.

Bartolo Federico

lunedì 2 aprile 2018

Sperduto nel diluvio

L’ultima luce del giorno se la inghiottì un mare che pareva di vetro. Nell’oscurità che atterrava a rilento cercò una soluzione, intanto che la luna si impossessava del cielo. In quella città in perenne movimento nessuno poteva sentirsi al sicuro, neanche lui. Come inseguito da una melodia irresistibile, si spostava di continuo, nascondendosi con le altre creature che brulicavano nell’ombra. Accese la radio tenendola a basso volume.
Una pupa al silicone assieme al gorilla del suo boss mi ha detto che avevo ciò che serve, disse: ”ti accenderò io ragazzo mio con qualcosa di forte se mi suoni quella canzone dal ritmo funky”.
(Blinded By The Light – Bruce Springsteen).
Scese dall’auto e prese a camminare come faceva tutte le notti. Gli piaceva guardare i marciapiedi e le luci delle vetrine e gli piacevano quelle solitudini che arrancavano per le strade. Sentì la rivoltella con l’impugnatura di gomma che gli premeva sullo stomaco. Non si era mai fidato delle pistole automatiche, aveva paura che si inceppassero. Sempre solo come un cane bastardo, considerò… ma i silenzi a volte fanno un po’ di bene, specie quando i ricordi si induriscono e non hanno più gusto a pensarli. Tutto in un colpo s’invecchia.
Beh, saltai, girai in tondo, sputai in aria, caddi in terra. Gli domandai quale fosse la strada del ritorno a casa. Disse:prendi la destra al lampione vai sempre dritto finché è notte, e poi, ragazzo, sei solo”. (Blinded By The Light – Bruce Springsteen).
Da bambino con suo padre ci passava un sacco di tempo. Lui amava raccontargli le storie di quei musicisti del Mississippi che avevano viaggiato sulle strade impolverate. Storie che conosceva bene, essendo stato un appassionato di blues, ma anche un bravo chitarrista. Nel soggiorno, seduto su quel vecchio divano di velluto scolorito, prima gli cantava qualcosa, poi si accendeva un sigaro e, riempiendosi il bicchiere di uno strano miscuglio alcolico, con voce bassa prendeva a parlare. Per lui quei minuti e quelle ore, passati insieme a suo padre, erano stati momenti preziosi che aveva cancellato dalla mente dopo che questi morì. Una sera si era addormentato e non si era più risvegliato. Da allora Rocco con quella pena nel cuore si inasprii e, aspettando l’occasione che non arriva mai, s’incamminò sulle cattive strade.
“E non rimane altro che del sangue dove cade il corpo, cioè niente che si può vendere, solo cianfrusaglie all’orizzonte, un vero saluto da bandito. E dissi ”hey ragazzo! Credi che sia olio, è sangue ”mi chiedo a cosa pensasse quando è incappato in quella tempesta:o era solo sperduto nel diluvio?” (Lost In The Flood – Bruce Springsteen)
Il 12 novembre del 1909 a Houston nel Mississippi nacque Booker Taliaferro” Washington White, il primo di cinque fratelli. Bukka, come fu soprannominato, fu la raffigurazione vivente del dolore. Un uomo sensibile, lacerato nell’animo dalla vita durissima che condusse. Le sue vicende umane rispecchiarono in pieno la sua musica. Suonava un blues feroce, viscerale, capace di strapparti la carne di dosso e ridurti il cuore a pezzetti. Cantando con voce possente ed emozionale, ti scuoteva i sensi. Il suo fu il blues della solitudine, della fatica di vivere, del freddo interiore, di quelle anime che hanno sempre vissuto nella penombra bluastra del silenzio, agitandosi nell’anticamera dell’inferno. Dal padre John, un manovale delle ferrovie, ma anche musicista part-time, impara a suonare la chitarra e, nello stesso tempo, un pastore della chiesa battista gli insegna a cantare… ma non c’è spazio per la musica, la pancia è vuota e bisogna lavorare. A 14 anni trova occupazione in una segheria e si trasferisce da suo zio Alec Johnson, a Grenada. Ma quel lavoro è davvero troppo duro per un ragazzino anche se ben messo fisicamente. Così, con la sua chitarra fa fagotto e se ne va via errando per il Delta del Mississippi, mantenendosi suonando i suoi blues ancora acerbi. In uno di quei giorni fortunati che ad ogni uomo almeno una volta il buon Dio concede di avere, incappa in Charlie Patton che lo prende sotto la sua tutela. Un incontro che al giovane Bukka lascerà un segno indelebile dentro l’anima e nello stile musicale.
la mia pelle era come cuoio e il mio sorriso di diamante sembrava quello di un cobra. Sono nato triste e consunto ma ho bruciato le tappe”. (It’s Hard To Be A Saint In The City – Bruce Springsteen)
Era invecchiato senza accorgersene. Camminava ogni notte per la città per rifiatare almeno un po’. In periferia dove era nato, le luci non erano uguali a quelle del centro. Le ciminiere delle fabbriche avevano scurito i muri delle case e c‘era melma e puzza di piscio dappertutto. Il cielo, poi, era grigio come se vi fosse stata applicata una pellicola che l’offuscava. Si rese conto che lo avevano relegato a vivere in una grossa fogna, ad annerirsi sotto un sole artificiale.
Ero il re dei vicoli, potevo parlare un po’ sboccato. Ero il principe dei poveri incoronato là, fra i mendicanti, ero il vero profeta dei magnaccia, tenevo tutto sotto controllo. Un giocatore da bassifondi che poteva perdere solo la sua fortuna.” (It’s Hard To Be A Saint In The City – Bruce Springsteen).
Del quartiere era diventato il boss. Con la galera aveva anche conquistato il rispetto della paura, ma certamente non quello degli uomini. Gli anni passati dentro quelle quattro mura, però, lo avevano reciso come il gambo di una rosa, indebolendolo invece di temprarlo. Non sapeva perché era successo, ma era andata così. 
Bukka White solo con la musica non riesce proprio a sbarcare il lunario, per cui si vede costretto ad andare a lavorare nei campi di cotone… ma il richiamo del blues resta sempre forte dentro di lui e, non appena possibile, scappa per andare a suonare nelle bettole o nelle feste. Così ben presto riprende il cammino. Intorno agli anni trenta arriva a Memphis dove riesce a farsi apprezzare dalla comunità nera. Qui viene notato da un figlio di puttana come ce ne sono tanti sparsi per il mondo, un certo Ralph Limbo, un talent scout che possedeva un negozio di dischi e che, con la promessa di lauti guadagni, gli fa incidere dei pezzi per la Victor sotto il nome di Washington White… brani che restano per lo più inediti. La grande depressione rende la vita difficile a chiunque e Bukka White deve darsi da fare se non vuol morire di stenti. Per questo motivo fa i lavori più disparati, dal lattaio allo strillone, dallo sguattero allo spazzino, fino a diventare un giocatore professionista di baseball nel campionato di colore e tentando anche una carriera nel pugilato… ma il diavolo è girovago e non ti dà il tempo di fermarsi. Si sposta ad Aberdeen e, finalmente, riesce a liberarsi del contratto con la Victor che non gli ha fruttato un centesimo. Succede però che, durante la solita lite, Bukka spara ad un uomo e lo uccide. Fugge ma viene presto catturato e mandato in prigione. Dopo poco tempo, tuttavia, riesce a evadere e a rifugiarsi a Chicago, dove incide anche alcuni brani: Shake em on down e Pinebluff Arkansas. Nuovamente catturato, è condannato a sette anni di lavori forzati e viene inviato nella peggiore delle galere, la più dura, la più violenta, quella Parchaman Farm in Mississippi, che solo ad evocarne il nome mette terrore.
“Giudice dammi la vita stamane a Parchman Farm. Non voglio odiare così, ma ho lasciato mia moglie nel dolore. Oh, buona moglie, ciò che hai fatto è tutto andato. Ma spero che un giorno potrai udire il mio canto solitario. Ascoltate. Non voglio dire nulla di male se volete far bene, meglio star fuori da Parchman Farm. Cominciamo a lavorare al mattino, proprio all’alba, fino al tramonto. Questo accade quando il lavoro è finito, io sto a Parchman Farm, ma vorrei tornare indietro a casa dove spero un giorno di sopraggiungere”.
( Parchman Farm Blues – Bukka White).
Doveva stare attento alla polizia, non voleva finire nuovamente dentro. Quella era l’unica cosa che gli faceva davvero paura, non avrebbe resistito più di un giorno questa volta. Ogni uomo è un anello del mondo, ma lui cos’era? Forse solo un bersaglio che passeggiava nell’oscuro della notte.
la notte era buia, ma il marciapiede illuminato e foderato della luce di vita notturna. Dalla finestra di un appartamento una radio suonava a pieno volume. Girato l’angolo, tutto ammutoliva improvvisamente. Entrai così nella decima avenue fuori gioco, la decima avenue fuori gioco. Sono solo, completamente solo. E tu, ragazzo, dovresti diventare un personaggio, sono solo, assolutamente solo, e non riesco ad andare a casa”. (Tenth Avenue Freeze Out – Bruce Springsteen).
Si era costruito una reputazione nel peggiore dei modi, con la violenza e i soprusi, scegliendo la parte sbagliata del mondo… ma, se non altro, sapevi chi era. Non come i nostri governanti. Si era rifugiato nell’oscurità e poteva contare solo su se stesso. Come una bestia feroce si mimetizzava in modo perfetto, pronto a colpire la sua preda ma, adesso, ondeggiava nella risacca, come una foglia già caduta lentamente giù da un albero. Adesso aveva occhi che ballavano di nostalgia.
“E’ solamente uno l’errore che ho fatto. Restare in Mississippi un giorno di troppo”. (Traditional).
La prigione di Parchaman, che è pari ad un campo di concentramento, è il regno della violenza e della crudeltà. Bukka White ci trascorre due anni ed è attraverso la musica che riesce in qualche modo a lenire quelle atroci sofferenze. Si esibisce per gli altri detenuti cantando e suonando i suoi blues che sono divenuti aspri e durissimi, perché esprimono tutto il dolore e lo sconforto della sua anima. In quel periodo registra insieme al musicologo Alan Lomax, inviato nel terribile penitenziario, alcuni brani per la Biblioteca del Congresso. Poco dopo quell’evento, viene liberato. Bukka, però, è ferito, traumatizzato dai suoi spettri che sono la prigionia, l’alcool e l’ossessione della morte. Adattarsi alla libertà, in queste condizioni psicologiche, non gli è per niente facile.
“Mi sento strano, Signore, credo che morirò. Mi sento strano, Signore, credo che morirò. Beh, non mi importa di morire, ma non sopporto di dover lasciare i miei bambini in lacrime. Guardo lassù quel terreno per la sepoltura. Guardo lassù quel terreno per la sepoltura. Sembra molto solitario, Signore, quando il sole tramonta”. (Fixin’To Die – Bukka White).
Una brezza che pareva venisse dall’inferno, lo investi in pieno viso mentre camminava a testa bassa, là in fondo alla notte. Era molto tardi e la strada era silenziosa come un cimitero. Salì in macchina e il motore al primo giro di chiave rombò. Accese la radio ed alzò il volume:
”E guido un auto rubata in una notte buia. E dico a me stesso che andrà tutto bene. Ma corro nella notte e viaggio col timore di sparire nell’oscurità”. (Stolen Car – Bruce Springsteen).
Si sentiva come se gli avesse fatto schifo, all’esistenza. Non aveva niente di cui parlare, perché non gli capitava più nulla che lo interessasse. Avrebbe voluto uscire da quel business, ne aveva abbastanza di quella vita, ma come fare? Alla fine ne sarebbe valsa la pena? Se lo chiedeva intanto che l’auto sfilava lenta nelle strade deserte. Occorreva ritrovare il coraggio perduto, ripartire dalle stradine laterali. Aveva come la percezione che tutte le cose che aveva tenuto dentro, per tutto quel tempo, fossero uscite all’improvviso e si fossero messe tutte insieme a parlargli… ma, questa volta, voleva capire fino in fondo quello che avevano da raccontargli.
“Ti decidi e scegli l’occasione da sfruttare. Guidi fin dove la strada termina e inizia il deserto. Fuori, in strada, guidi fino a che fa giorno. Impari a dormire di notte con il prezzo che pagh”.
(The Price You Pay – Bruce Springsteen).
Dopo Il servizio militare Bukka White torna a Memphis, dove vive insieme a un suo secondo cugino, un certo Riley B.King (in seguito sarà conosciuto col nome di B.B. King), il quale apprende molto dalle vicissitudini umane di quel parente assai sfortunato ma, come succede a tutti i diseredati del mondo, Bukka scompare dalla circolazione. Nel 1963, un appassionato di blues, il virtuoso chitarrista John Fahey, riscopre questo enorme talento. A dirla tutta, l’anno precedente, fu il giovane Bob Dylan, incidendo Fixin’ To Die Blues nel suo disco d’esordio, a riaprire la passione per questo dimenticato randagio. Un contratto per la Arhoolie di Cris Strachwitz e varie esibizioni nei folk club fanno crescere l’interesse per il suo blues… ma lui resta un uomo dolorante, la vita lo ha enormemente devastato e quel terrore profondo per tutto quello che ha visto e subito è troppo difficile da cancellare. Le sue canzoni restano un patrimonio per chiunque voglia conoscere l’autenticità del blues di strada. Canzoni che sono alla pari di quelle di Robert Johnson, Charlie Patton, Tommy Johnson o Blind Willie Mc Tell. Canzoni dimenticate dai più, che provengono dal profondo del cuore di un uomo arrivato in cima a tutto quello che di brutto può capitare. Riscoprirle significa toccare il suo dolore e quello di un intero popolo esule. “Ricordati, Rocco,” concluse suo padre: “quando la tua pena non ti risponde più, quando si scivola, si sbanda, bisogna ritornare lì dove tutto ha avuto inizio, dove tutto ricomincia, anche solo per piangere”.
“Tutti hanno un segreto, Sonny, qualcosa che non possono affrontare. Alcuni passano la vita cercando di mantenerlo. Se lo portano dietro a ogni passo che fanno, finché un giorno lo abbandonano, lo abbandonano o si lasciano trascinare a fondo, dove nessuno fa domande o ti guarda in faccia troppo a lungo, nel buio ai margini della città”. (Darkness On The Edge Of Town -Bruce Springsteen) 
 
 Bartolo Federico