venerdì 22 gennaio 2016

giovedì 21 gennaio 2016

Perso Nella Folla

Alla seconda sorsata gli si riempirono gli occhi di lacrime. Nemmeno gli angeli del paradiso lo avrebbero potuto consolare. Si sentiva come un bambino, terrorizzato da quell’attacco di panico. Posò lo sguardo sui suoi pensieri e rimase stranito, tremante, fermo in mezzo alla strada. Si era attaccato alla bottiglia, anche se quel vino sapeva d’aceto. Ma alla fine ci si sbronza con quel che si trova. L’alcool gli esplose dentro lo stomaco, facendolo quasi vomitare. La strada puzzava di merda di cane. Mentre un pallido velo di fumo, infiacchiva la luce dei lampioni. Aveva sempre fatto una gran fatica a sbaraccarsi da quelle barriere in cui si era recintato. Anche se uno non lo sa, o fa finta di niente, s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri. Un suo zio prediletto, quello che ti porta al cinema e ti offre da fumare, gli disse di comportarsi bene, se non voleva finire in galera. Adesso la pioggia aveva cominciato a cadere densa. Sotto quel diluvio, i suoi spettri presero a far rumore e a urlare violentemente. Gli parve di vedere dei corvi alzarsi in volo. Girò lo sguardo verso il muro, e quando alzò nuovamente gli occhi, il giorno arrivò. In una tromba di luce accecante.  La vita è piena di delusioni. Di sogni rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Dopotutto la speranza non costa granché. Anche quella di diventare ricchi e famosi, non costa nulla. A lui piaceva viaggiare nelle strade buie e silenziose, osservando la linea di mezzeria. In fuga da tutto e da tutti.

Ed Cassidy aveva suonato la batteria con Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Art Pepper, Cannonball Adderley. Quando a Los Angeles incontra Randy California - un chitarrista fantasioso e originale che aveva suonato con Hendrix e Jimmy James The Blue Flames - con Mark Andes, John Locke e Jay Ferguson, danno vita a uno dei gruppi più atipici della scena rock americana. Gli Spirit suonavano musica davvero difficile da etichettare. Erano tra i pochi a sapere mescolare il pop, (uno dei più grandi riff rock rimane la loro I Got A Line On You) con spunti jazzistici, musica psichedelica e limpide armonie vocali. Musicisti eccelsi, impeccabili, ma non per questo privi di cuore. “The Family That Plays Together” venne fuori nel dicembre del 1968 e conteneva sette canzoni, che suonano misteriose e inquietanti, ambigue e tenebrose. Ma anche oniriche e rilassanti. Come fantasmi nella notte, riescono ancora ad aprirsi un varco in quei frammenti di luce, che in un modo o nell’altro ci tengono vivi. L’autunno e il freddo. Fondi di caffè e sfere di cristallo. Imposte chiuse, campanelle e fanfare. Alle volte non riesci a respirare. Quel morso che ti attanaglia, non si calma. Toc! Toc! Toc!  Si fermò ansimando come un cane rabbioso. In quel grande vuoto, poteva anche marcire di malinconia. E allora si mise a canticchiare "Sunny". Quella canzone lo faceva sentire meglio. Il cuore riprese a battere, tremare, tuonare. La musica lo ripuliva. Il sogno era come un’ambulanza che lo soccorreva. Prese a camminare a testa alta, con il passo di chi non ha più paura.

E musica che potete sentire in ogni luogo, allo radio, nelle strade, blues, soul, country, rock, musica religiosa e suoni del traffico, della folla, della strada e dei prati, il suono del silenzio della gente.

Questo scriveva il chitarrista Mike Bloomfield nelle note di copertina di A Long Time Comin’ l’album d’esordio targato 1968, degli Electric Flag. Con Michael c’è anche il vecchio amico Nick Gravenites, Buddy Miles, Barry Goldberg, e Harvey Brooks. Una sezione di fiati completa l’ensemble, per un progetto stilistico ambizioso. La band è davvero esplosiva, soprattutto dal vivo. Si esibiscono con buon successo al festival di Monterey e partecipano alla colonna sonora del film The Trip. Ma in studio forse per colpa di certi arrangiamenti, non riescono a essere convincenti. Sicuramente Bloomfield è l’esatto opposto di una rockstar. Un uomo stracarico di tormenti interiori. Un carattere schivo e taciturno, che lo mette in  difficoltà a stare sotto le luci della ribalta. Soffre anche di una grave forma d’insonnia, tanto che comincia a farsi di eroina. Prima di formare gli Eletric Flag, tra il 1964 e il 1965, suona in studio con Bob Dylan in Highway 61 Revisited. In seguito farà parte della Butterfield Blues Band, e dopo aver accompagnato per un pezzo di strada Eddie Vinson, forma i Flag. “A Long Time Comin’” rappresenta uno spaccato di quell’epoca del rock, quand’era più facile tuffarsi su qualche strada, e dare gas ai propri sogni. Ma allora si aveva voglia di ubriacarsi a ogni fermata che si faceva, pronti a ricominciare, qualsiasi cosa capitasse. Ci sono dentro queste canzoni i frastuoni ossessivi della città del vento, e i suoi rumori. E anche i miei giorni innocenti.

La cucina era in miniatura e dava su un piccolo cortiletto sporco, pieno di vecchie cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel che restava di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per gatti. Un ventilatore a colonna, un saldatore elettrico, un rullo per pittura, mazze da carpentiere, uno scappello a punta. Un cane arrotolato su se stesso dormiva a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo, i ragazzi giocavano a carte bevendo succo di pera mischiato a gin. Prese una birra e accese lo stereo. Con suo fratello da bambini giocavano ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contò più di cinquanta. Era cresciuto in quel quartiere dove conosceva tutti, e in qualche modo in quel luogo, si sentiva al sicuro. Ma nel tempo molte cose erano cambiate. Molti luoghi della sua memoria erano spariti per fare spazio a inutili palazzi, e a quei centri commerciali del cazzo, che stavano sterminando il suo passato.

Alle prime note di “God Bless The Child” alzò il volume dello stereo. Aveva sempre uno strano effetto quella canzone su di lui. Quel disco gli emanava una sensazione dolce, lo metteva a suo agio. Rimase a guardare fuori dalla finestra la strada che si faceva buia. Quando la musica terminò stappò la birra che teneva in mano, e si sedette sul bordo del letto. Dopo si distese e si addormentò di colpo. Certo che non sarebbe male, se ci fosse qualcosa che ci facesse distinguere da subito i buoni dai cattivi. Ma alle volte basterebbe guardarle da vicino le cose, per vederle. Il quartiere della diciottesima circoscrizione era abitato da operai, gente umile, alla buona. Fin da piccolo aveva imparato frequentando quelle strade, che c’erano solo due modi per cavarsela nella vita. O ci penetravi inzuppandoti fino alla testa col rischio di soffocare, oppure era meglio risalire il fiume spingendo lentamente la canoa, in modo tale da potere vedere i giorni che passano. Lo avevano svenduto quel quartiere in nome del progresso, i fantocci che amministravano la città. I piccoli negozi avevano chiuso, gli affitti erano diventati vertiginosi, ed erano arrivati in massa i cinesi ad arraffare tutto quello che potevano, per aprire i loro punti vendita, e riempirli di pattume. Camminava stordito anche tra le cose che gli sembrava di conoscere. Era tremendo osservare come ce ne fossero di cose, e persone smarrite nei ricordi, che non si muovevano più. Come i morti. Quando uno invecchia non sa più chi risvegliare. Ascolti vai! Poi ti ritrovi. Sali in cima e scendi, guardi dappertutto. Un passo, due passi, adagio, non vedi nessuno. Buongiorno angosce. Cadrai a pezzi come un rottame. Niente di grave. Ma vada come vada, non farai domande. La gente sbraita e rompe le palle. Mi concentrerò solo sul respiro, solo sul respiro. Siamo tutti tremendamente soli, in questo mondo. 


Bartolo Federico 


lunedì 18 gennaio 2016

Stelle Di Rock'N'Roll (vivrò domani)

Il cantante vestito di nero, era pallido e ansioso d’iniziare la sua performance. Con il braccio destro piegato dietro il collo, si reggeva la testa e con l’altra mano afferrato il microfono, guardava il pubblico con un ghigno allucinato. Come di uno che spia il suo stesso disfacimento. La musica è selvaggia e le canzoni danzano in un improbabile immaginario, che va da Bob Dylan al Marchese De Sade. Una marea di gente era assiepata sotto quel palco. Esaltati e impazienti precipitavano in quell’inferno metropolitano, di violenza e angoscia. Ma anche di Amore. Un pubblicò giovane  ma che capì il senso delle sue parole, che non era robetta da top of the pops.

La gente rimaneva stupita dal trucco sulla faccia rideva ai suoi lunghi capelli neri, alla sua grazia animale il ragazzo nei blue jeans chiari saltava sulla scena e la signora polvere di stelle cantava le sue canzoni di oscurità e disgrazia.

Si consuma la musica rock come le mutande, il sesso, la droga la vita. Carolina la puttana del quartiere, risaliva stanca sulla strada principale. Era triste come la domenica mattina. Cento dollari e un pompino. Ecco laggiù che arriva il suo uomo. Ma è solo una comparsa. IGGY POP trascorse quasi un anno della sua vita in un ospedale psichiatrico per cercare di disintossicarsi, seguito con amore da David Bowie. Poi di ritorno dal quel soggiorno inglese, si rinchiuse per quattro mesi al Bevery Hotel. Quando un giorno uscì incontrò Nico, una femmina talmente bella che gli sbarellò il cervello, più di una botta d’eroina. Ma anche lei era sballata. Affittarono una casa e con un mucchio di soldi, e una montagna di roba, si rinchiusero dentro. Cosi fan tutte le strafottute Rock’n’roll Star.

Eccola che viene è meglio che guardi dove vai, ti spezzerà il cuore in due non ci vuol molto a capirlo”.

Sembra un invito al suicidio, ma forse è solo il caldo che ci rende suscettibili. Ci sono domande? Eroi, rotocalchi, riviste, manifesti, gadget, soldi, droga, donne. Concerti, dischi, interviste. Vita spericolata. Gente che si vende come un prodotto al mondo dello svago. La loro nuova prigione. Solo per cercare di rappresentare una rivolta, un sogno giovanile, che finisce come merda nel buco del cesso. Tirato via per sempre da due tre sciacquoni d'acqua, in un giorno qualunque.  

Nonostante i Rolling Stones siano conosciuti per avere incoraggiato e glorificato la droga, gli sforzi di Richard per liberarsi dalla sottocultura delle droghe, possono avere un effetto salutare su milioni di persone che lo ammirano.

 Il giudice Lloyd Graburn emise questo verdetto dopo che Keith Richard accusato di detenzione di 22 grammi d’eroina, e una cura disintossicante allo Stevens Psychiatric Center di N.Y, AVEVA DONATO 500.000 STERLINE per la COSTRUZIONE di UN CENTRO PER tossici. TENNE CONTO di questo quel giudice accomodante. Ci Sono Sempre I Soldi Di Mezzo. Che Cazzo Pensavate voi eh! Fottuti Romantici.

Jimi Hendrix è morto soffocato dal vomito fra le braccia della sua ultima ragazza. “Il sole non arriva dalle mie finestre mi sento come se vivessi in fondo a una tomba. vorrei che ti affrettasi a salvarmi così continuo per la mia vita miserabile. Io non vivo oggi. Vivrò domani?”(I don’t live today)

Mi sento stordito, ho il volto teso e gli occhi spalancati. Credo di avere tutta l’aria di essere pazzo, o sono solo come un bambino spaventato. Ho bevuto mezza birra, e non m’importa se vinco o perdo. A che serve avere in mano un trofeo. Le porte si chiudono e poi si riaprono. Siamo tutti collegati fra noi. “C’era sangue dappertutto. Sulle tende sui muri, sui materassi. E le tracce andavano fino al bagno”. Qualcuno aveva ucciso Nancy. Quando le auto della polizia arrivarono al Chelsea Hotel, Sid Vicious era dentro uno sporco Trip. Il poliziotto gli chiese: perché l’hai fatto ragazzo? “Fatto cosa” rispose Sid. Perché L’HAI UCCISA? “Io non l’ho Uccisa” rispose. “Se non l’hai fatto perché non hai il coraggio di guardarmi negli occhi”.

 Questa è la fine, la mia sola compagna, la fine dei nostri piani elaborati, la fine di ogni realtà.”

David Bowie è numero uno nella classifica americana dei dischi più venduti. Da vivo non gli era mai riuscita questa cosa. Cosi fan tutte le rock’n’roll star. Un lampo illuminò la sala, ma era la luna che si spostava nel cielo. C’era del fumo denso in quel bar. La musica suonò rigirandosi su se stessa. Sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa, qualunque cosa, putrefatta come un fiore morto. Ma era ancora lì che pulsava. Martellante dentro l’anima. La musica.


Bartolo Federico


domenica 17 gennaio 2016

Melissa

Erano quasi le dieci di una mattina di fine maggio, senza sole e con le nuvole dietro la collina che minacciavano una pioggia torrenziale. Me ne stavo sotto la pensilina di legno della veranda di casa di Melissa e guardavo il Mississippi scorrere. Lei era in ospedale, dove lavorava come infermiera. La mattina, quando era uscita, mi aveva baciato sugli occhi che ancora dormivo, sussurrandomi di fare la spesa perché “di lì a poco il frigorifero avrebbe fatto le ragnatele”. La sera prima avevo suonato, dopo l’esibizione di Zach Williams and the Reformation, con una band locale dei vecchi classici del blues e avevo tirato tardi. Mi ero divertito parecchio insieme a quei ragazzi ed anche il pubblico aveva gradito, visto l’entusiasmo che si era scatenato a riascoltare quelle vecchie canzoni, che sono la spina dorsale della musica del Delta. Avevamo reso omaggio a Charlie Patton, e al suo blues selvaggio e ispido, che sapeva, essere anche tecnico e sofisticato. Fu tra i primi a utilizzare le accordature aperte per suonare in slide con il collo di bottiglia.

Quel piccolo (appena un metro e sessanta di altezza) grande bluesman era un uomo di forte personalità, individualista e vagabondo ma con una miniera d’oro in fondo al cuore. Aveva capacità artistiche non comuni che lo fecero diventare una stella nell’ambiente del Sud. Fu uno dei primi bluesman ad avere un repertorio di canzoni scritte di proprio pugno: “Pony Blues”, “The Dirty Road”, “ Banty Rooster Blues” e se ne andava con questo tesoro lungo il Mississippi accompagnato dal suo fedele amico, il chitarrista Wille Brown, suonando in qualsiasi posto fosse possibile, dando mostra delle notevoli capacità di showman. Riusciva sempre a infiammare le platee perché era un grande istrione, pieno di voglia di comunicare che era anche una caratteristica del suo modo di fare blues. Charlie Patton suonava la chitarra come un funambolo, tenendola tra le ginocchia o dietro le spalle, molto tempo prima che lo facesse Jim Hendrix. Nei suoi duri blues raccontava di sceriffi e guardiani, “High Sheriff Blues”, ma anche della provvisorietà della vita, “Oh Death”, toccando temi come la droga, “Spoonful Blues”, o l’ecologia, “High Water Everywhere”, cantando con una voce rauca e sabbiosa come il fondo del suo fiume. Da Howlin’ Wolf a Elmore James, passando per Robert Johnson, Muddy Waters e Son house, tutti gli sono debitori.

Patton fu anche il progenitore di uno stile di vita depravato e dissoluto che ebbe molti epigoni nel rock’n' roll. Fumava e beveva esageratamente, andava a puttane ed era rissoso e irascibile. Si sposò una miriade di volte e fini più di una volta in galera. Insomma il padre putativo di Keith Richard. Bob Dylan, uno che ha il blues tatuato nel cuore, gli ha dedicato una canzone,“High Water”, nell’album “Love and Theft” ed io gli sono grato. Acque alte che crescono, le baracche crollano giù, La gente perde le sue proprietà - sta lasciando la città Bertha Mason lo ha scosso, lo ha spezzato, poi lo ha appeso al muro. Dice, “Balla con chi ti dice di farlo o non ballare per niente” Lì fuori è dura, Acque alte dappertutto.” Mentre il chitarrista John Fahey ha raccontato la sua storia in un libro: Charlie Patton (Studio Vista, Londra 1970).

Raccolsi il biglietto della spesa dal tavolo, uscii da casa e m’incamminai per andare al supermercato. Il vicino di Melissa stava lavando l’automobile tirando via lo sporco con una spugna insaponata. Quando gli passai accanto mi lanciò un’occhiata fugace L’occhiata di un uomo che non bada ai fatti propri. Però,tutto sommato, non potevo dargli torto: ero uno straniero e non è che passassi inosservato con quei lunghi capelli, i jeans a zampa d’elefante, la camicia aderente, gli stivaletti e il gilet con le frange. Parevo fuoriuscito da una copertina di un vecchio disco di Southern Rock, un reduce allampanato degli anni 70. Quando il rock divenne monotono come una maglia sformata da infilarsi tutti i giorni, ecco che dietro l’angolo fu pronto il mutamento. Una generazione di musicisti, stufa dei lustrini ormai sbiaditi del glam rock e della leziosità borghese del progressive, riportò tutto a casa. Gli tolsero le incrostazioni, i sedimenti che lo avevano imbambolato e lo fecero nuovamente suonare in maniera forte e aggressiva, ma anche melodica. Gli restituirono la voglia di vivere, di divertirsi. Quella forza trascinante, naturale e istintiva, che è nel suo DNA e che conquistò subito quel pubblico d’insoddisfatti che voleva altro rispetto a quelle saghe barocche in cui si era impantanato. Lo ricondussero cosi al suo stato primordiale, prendendo spunto da Elmore James, T-Bone Walker, Muddy Waters e dall’esperienza di band come Cream, Zepp, Who, Faces, Rolling Stones. E ripartirono con orgoglio per una nuova musica tutta americana. I ragazzi che fecero parte di questo movimento e che formavano i vari gruppi divisero tutto come una grande comunità hippie e il denaro fu veramente l’ultima delle loro preoccupazioni. Per questo motivo il rock suonò libero e innocente. Macom, una città della Georgia, divenne il centro della scena, dove i musicisti divisero casa, famiglia e anche vizi di vario tipo. Famosa a tal proposito fu la Big House degli Allman Brothers Band, dei fratelli Duane e Greg Allman, che insieme ai Lynyrd Skynyrd di Ronnie Van Zandt, ai Wet Willie, alla Marshall Tucher Band dei fratelli Caldwell, furono i principali protagonisti della scena musicale. 

Feci la spesa stando ben attento a non dimenticare nulla. Non volevo deludere in nessun modo Melissa, che era premurosa e felice di avermi con sé. Lei era stata l’unica donna a riuscire a illuminare i miei angoli bui. Nulla succede all’improvviso, alla fine basterebbe guardare meglio negli altri e in noi stessi per capire come vanno le cose. Melissa lo sapeva che prima o poi il mio sangue zingaro mi avrebbe costretto nuovamente a vagare senza meta per rincorrere quella cosa che non avrei mai raggiunto. Ma proprio per questo ci amavamo, perché ognuno di noi aveva il suo mondo parallelo, la sua linea d’ombra, il suo giardino segreto dove conservare qualcosa per sé. Ed entrambi lo rispettavamo. Quando arrivai a casa raccolsi dal pergolato dei fiori che appoggiai sul tavolo dell’entrata, mangiai dei biscotti e disposi nel lettore il cd che Zach Williams and the Reformation mi avevano regalato dopo il concerto della sera precedente. “Electric Revival” era il loro debutto. I ragazzi erano galvanizzati per come si erano messe le cose. Stavano suonando in tutti gli States, e raccoglievano consensi da più parti. Si preparavano anche per un tour in Europa. Quella sera omaggiarono la Marshall Tucher , con una bella versione di “Cant’You See” e i Corvi Neri con “Wiser Time”.

I Reformation sono una formazione ben impostata, con musicisti di ottimo livello, dediti al verbo del rock di matrice sudista. Zach, nonostante la giovane età, ha una voce con la giusta dose alcolica. La chitarra di Robby Rigsbee, disegna traiettorie che riportano direttamente ai giorni in cui Ronnie Van Zandt bruciava i suoi giorni vivendo di corsa. Nelle loro canzoni nulla suona patetico o superfluo, anzi riaccendono quello spirito rock, potente ed elettrico, che è alla base di tanta musica da strada che parte dai Creedence e arriva allo Steve Earle di “Copperhead Road”. Luther Dickinson, dei North Mississippi All Stars, dà una mano a questi “ Angeli con un’ala rotta”, suonando per loro la sua sfavillante chitarra.

Avevo il volume alto e non senti Melissa rientrare. Mi prese alle spalle mentre stavo seduto sul divano e mi cinse il collo con un abbraccio proprio mentre stavo ascoltando Zack che cantava “ Take Me Home ”. Una gettata di emozioni mi attraversò il cuore mentre la osservavo. Portava i jeans e una camicia color ottanio attillata. E un foulard dello stesso colore le legava i capelli. Mi sorrideva ed era bellissima. Il cielo si era rasserenato. Adesso era di un blu intenso, come solo al sud si può vedere. Mentre lei preparava la cena, mi sporsi sulla veranda e osservai il Mississippi. In quell’attimo mi tornarono in mente le parole che aveva scritto Jack Kerouac in On the road: E qui per la prima volta vidi il mio adorato fiume, il Mississippi, asciutto nella calugine estiva, l’acqua bassa con quel suo forte odore che è lo stesso del crudo corpo dell’America perché la lava tutta”. Poi scrutai la strada, lì immobile, pronta in ogni momento a riprendermi con sé. Ma quando, rigirandomi, incrociai i suoi occhi fui certo che stavolta mi avrebbe atteso per molto tempo.



Bartolo Federico