sabato 30 marzo 2013

Dammi Un Segnale-by Bartolo Federico-(1999)

Me ne andavo con i miei sogni allacciati agli scarponi,dentro ninnananne di mezzanotte e lune dispettose.Me ne andavo per la mia strada, con in testa le canzoni che mi avevano cambiato la vita per sempre.Percorrevo la strada che altri avevano fatto:vagabondi,clandestini,cuori infranti,sognatori.Me ne andavo appuntando canzoni storte e malandate.Aspettando tra le ombre quelle cose che ti abitano dentro e che aspettano d uscire in un modo o nell'altro.

Bartolo Federico

Sbroccati poeti & visionari (i tempi non sono cambiati)

La notte era di luna piena e me ne stavo stravaccato sul divano a sprecare il mio tempo. Erano le due e mezza e mi bevevo una birra fredda di frigorifero. Visto che mi annoiavo, per annoiarmi di più giravo i canali della tele, ma in effetti guardavo la parete e mi adattavo alla situazione.

Ecco, l’altro giorno sulla tranvia c’erano due tipe di quelle che se la tirano alla ” toccami Ciccio che la mamma non vuole”, che parlavano tra di loro ed io, che non avevo niente da fare (è un periodo nero per il mio lavoro ), origliavo i loro discorsi che andavano da quale modello di macchina era più trendy , al parquet della stanza da letto, che faceva chic cosi hanno detto,alla tenda da cambiare. Sapete com’è, non tutti hanno voglia di parlare di chissà cosa e poi la colpa era mia che stavo li a spiare.

Le due si sentivano stressate a pensare a tutti i regalini da comprare e da mettere sotto l’albero, ma il dilemma più grande era quale vestito mettersi per la notte di San Silvestro. Me l’ero voluta, non c’è che dire. Poi una fa: “ sai io e Giorgio abbiamo deciso di partire dopo le feste, faremo un viaggio come ai vecchi tempi con il camper come facevano i figli dei fiori. L’ho letto su “Chi” che è di gran moda, la prima tappa sarà Cortina”. Fu a quel punto che sobbalzai e mi venne un conato di vomito perché la linea del tram faceva pena e stavo per cadere di sopra alle tipe che mi guardarono con fare schifato, quasi fossi un sopravvissuto alla guerra del Vietnam.

Allora mi tenni stretto al corrimano e alle mie piccole cose. Era proprio vero: vivevo in un altro mondo con la mia macchina scassata e quel che restava dei miei capelli lunghi e delle mie utopie. Dei miei viaggi senza meta, magari lunghi solo 50 km, per ascoltare qualche cd ( prima le cassette) perché certa musica quando viaggia è un’altra cosa che sentirla al chiuso di una stanza, davanti a un camino con un brandy in mano o, ancora peggio, nelle cuffiette di quegli orribili apparecchi dove ci metti dentro centinaia di canzoni e alla fine non ci capisci più niente.

Già li sento i progressisti darmi del nostalgico, che i tempi sono cambiati, che il mondo va avanti, che sono un reduce di un sogno mai avverato. Vero, tutto vero, ma non mi do per vinto perché se un emozione è buona una volta sola ed è difficile replicarla a volte succede, come quando su strade già percorse ho incontrato i fratelli Felice. Li mi è tornato in mente il Dylan magnetico di Moonshiner e cosi il miracolo di non sentirmi più solo e quel senso di appartenenza si è riappropriato di me per qualcosa che ancora resiste, che tiene duro e che, nonostante tutto, non sono riusciti a far sparire. 

Allora penso che di sbroccati visionari poeti il mondo è pieno e il mio viaggio ricomincia di nuovo su quelle tracce magari piene di polvere e ragnatele a cercare di rovesciare le regole di un mondo che ci vuole tutti uguali. E quando accade non è nostalgia la mia o quella di tanti altri . No non è nostalgia, ma la consapevolezza che fin quando ci sarà qualcuno disposto a mettersi in gioco anche solo con se stesso e su quelle strade selvagge che fioriranno i sogni e le speranze di molti di noi.

Bartolo Federico

venerdì 29 marzo 2013

Blues Del Gatto Randagio


Avevo appeso i miei anni selvaggi sopra un chiodo arrugginito e contemplavo il mio passato guardando delle vecchie foto in bianco e nero quando vidi il volto di Teresa. Il cuore mi si fermò per un attimo, ma non mi mise di cattivo umore in quella notte di oblio e tormento. Come chiunque, avevo due facce e sapevo bene che alla fine una di loro avrebbe vinto la partita, era solo questione di attendere l’esito.Era da giorni che pioveva. La pioggia avvolgeva la città in una nube nera e silente e il paesaggio che osservavo dalla finestra spettrale. Avevo perso tutto senza fare nulla, avevo lasciato che tutto andasse alla deriva senza che provassi a frenarmi, ma la paura è una strana compagnia ed io la sentivo in tutto il corpo, quasi la potevo osservare scrutandomi allo specchio.


Accesi lo stereo e tirai fuori un vecchio disco di Richie Lee Jones. Qualche giorno prima avevo rivisto il film Alice nella Citta e mi era venuta voglia di riascoltare la sua versione di Under On The Boardwalk dei Drifters e, come l’attore Rudiger Vogler in quella scena sotto il pontile, anch’io osservavo delle polaroid, le sole foto che hanno la magia di non avere negativo, di essere uniche e non più riproducibili, proprio come quel sorriso che avevo di fronte. Come la vita. Faceva freddo ed ero intorpidito per l’umido. Mi versai un dito di Jack Daniels che buttai giù nell’oscurità più profonda di me stesso. Una pioggia pigra ticchettava sul vetro. Accesi l’ennesima Chesterfield e ne aspirai una lunga boccata, lasciai che la musica finisse e spensi lo stereo. Dal divano raccattai l’impermeabile, afferrai il vecchio cappello grigio topo ed uscii di casa.


Quando lei se ne andò da quella stessa porta non si voltò mai indietro ed io non feci nulla per fermarla. Allora andavamo troppo in fretta per accorgerci che entrambi stavamo calpestando la merda, ma i miei rimorsi pesavano come macigni, ad un punto tale che adesso mi pestavano il cuore come un pugile imbestialito. Uscii dal portone che non pioveva più e la strada luccicava come uno specchio.


Mi incamminai lentamente, dinoccolandomi sotto un vento maligno che mi faceva increspare la pelle.La strada era un deserto, solo qualche gatto randagio in cerca di cibo faceva capolino tra i bidoni dell’immondizia vuoti. Avevo perso tutto per nulla, per non avere mai avuto il coraggio di dirle che l’avevo amata sin dal primo giorno che l’avevo vista, sin dal primo istante. Avrei voluto scriverle un blues come aveva fatto Tom Waits alla sua donna in Swordfishtrombones: Lei è il mio unico amore riempie tutti i miei pensieri. Guarda qui nel portafoglio. Questa è lei. E’ cresciuta in una fattoria laggiù. C’e un posto sul mio braccio dove ho inciso il suo nome accanto al mio. Vedi, proprio non posso vivere senza di lei.


Ero arrivato in basso, dove tutto si confonde, dove non riesci più a resistere. Avevo superato la linea, quella linea di demarcazione che ti porta dritto all’inferno, nel buio della tua anima. Lo avevo sempre saputo che la vita non era un gratta e vinci, ma avevo puntato d’azzardo con me stesso ed avevo perso nella partita più importante.




Ora la notte e il freddo, insieme ad un forte mal di testa, mi fanno compagnia mentre mi reco al giornale, al mio lavoro di cronista di nera. Ha smesso di piovere e le strade si stanno riempiendo di gente. Intanto che vado, osservo i tetti delle case e il cielo che resta grigio e fosco sulla mia testa. Se n’era andata non molto lontano, ma se n’era andata e dovevo farmene una ragione, dovevo spegnere per sempre quella fiamma che bruciava di rimorso. A questo punto penso non ho più niente da rinfacciare a nessuno, nemmeno a me stesso. Mentre scorrono i titoli di coda cerco un sorriso da indossare e mi viene in mente lo strumentale Rainbirds. Per l’ultimo addio .

Bartolo Federico 

mercoledì 27 marzo 2013

Cacciatori D'Anime


La strada era buia e taciturna, non mi restava che spingere sull’acceleratore e dimenticare quel senso di vuoto che mi portavo appresso e che mi attaccava senza tregua. Ho imparato a cadere, pensai, quando i fari di un camion che procedeva in senso opposto illuminarono l’abitacolo. Per tutte le volte che ero franato sarei dovuto essere ridotto in pezzi, ma mi rendevo conto di non sentire più male, ero diventato uno stuntman di professione, sapevo smorzare i colpi, tuffarmi, saltare, assumere con il corpo angolazioni innaturali, fare piroette. Ero diventato un acrobata, solo che le cadute erano tutte vere, non c’erano controfigure venute a salvarmi.

Intanto che pensavo questi pensieri,con una mano tirai fuori le sigarette dalla tasca della giacca di tweed. Ne accesi una e aspirai una lunga boccata, guardando la fiammella bruciare nel buio. Sbuffai, ed abbassai il finestrino per liberare fuori dall’abitacolo quella nuvola di fumo che avevo incamerato nei polmoni. Una folata di vento gelido mi sferzò il viso.Hai sempre qualcosa da perdere. Ciascuno di noi ha qualcosa da perdere, sempre. Anche se fai finta che non esista, è li che ti divora i pensieri. Ti senti spinto, pur con gli occhi gonfi e tristi, a cercare di realizzare i tuoi progetti.

Nina me lo disse a sua insaputa una sera,dopo che il mio ennesimo fallimento era andato in onda sulle reti della mia vita e mi ero ubriacato da fare ribrezzo. Le mie velleità artistiche,vere o presunte di diventare uno scrittore, si erano nuovamente infrante di fronte all’ennesimo rifiuto di un editore di pubblicare i miei racconti. Così, quel desiderio di riconoscimenti e quella frustrazione che covavo vennero fuori in tutta la loro crudezza. Quella sera bevvi a più non posso, da svegliarmi in un letto d’ospedale, ricoverato d’urgenza in coma etilico. Non appena aprii gli occhi lei era li, pronta a fare di tutto per proteggermi da me stesso e dalle intemperanze della vita. Era Nina, la donna che un giorno aveva aperto il suo ombrello materno e mi aveva avvolto tra le sue braccia, come quel bambolotto con cui giocava da bambina. Nina, che inconsapevolmente mi feriva per non aver saputo ricambiare tutto l’amore che mi donava. Se prendi devi dare qualcosa indietro, ma ero troppo egoista per preoccuparmi dei suoi sentimenti, delle sue necessità, troppo sperduto dentro me stesso per potere pensare anche a lei.


“E se il whisky non mi uccide allora non so cosa lo farà. Andrò in qualche bar a bere con i miei amici, dove le donne non possono seguirmi per vedere quel che spendo. Dio le benedica quelle belle donne, vorrei fossero mie. Il loro respiro è dolce come la rugiada sui grappoli d'uva. Fatemi mangiare quando ho fame, fatemi bere quando ho sete, Hmmm, dollari quando sono al verde, religione quando morirò. Il mondo intero è una bottiglia e la vita nient'altro che un bicchierino di whisky”. (Moonshiner traditional - BobDylan)



Il mattino se ne uscì picchiettato da un pallido sole. Tirai fuori dall’autoradio il cd che avevo ascoltato per tutta la notte. Era una raccolta di Bob Dylan che attraversava quasi tutta la sua vita artistica, intitolata Uno sguardo intimo a Bob Dylan. L’avevo comprata inizialmente per il bellissimo titolo e perché conteneva Moonshiner, uno dei mie pezzi preferiti di sempre, in una differente versione rispetto a quella magnetica pubblicata a suo tempo nelle Bootleg Series. A voler essere un tantino pignoli, solo un po’ meno bella. Il cd contiene 17 canzoni tra cui anche rarità come Trouble in Mind, con la chitarra di Mark Knopfler e una versione superlativa per piano di Spanish Is The Loving Tongue più altre cose splendide come una Boots Of Spanish Leather, da brividi. Cose che arrivano da cinquant’anni di scrittura e che vale sempre la pena ascoltare, se siete anche voi arruolati nei cacciatori di stati d’animo. Queste canzoni vi serviranno per superare gli ostacoli e le transenne, serviranno a non sentirvi soli dentro la vostra pazzia ululante. Ma, badate bene, non sono semplici canzoni, sono turbamenti nel caos infinito del cuore che si incateneranno l’uno all’altra e giocheranno a darsi il cambio, restandovi dentro per sempre. Potete scommetterci.

All’improvviso, la stanchezza mi restituì alla realtà. Non sapevo dove mi trovavo, avevo guidato tutta la notte e non badato a nulla, piantonando senza tregua la strada buia davanti a me. Mi ero immerso in una folla di sensazioni che mi avevano cullato e anche rinfrancato.Adesso, però, cedevo sotto i colpi della fatica. Avevo il corpo indolenzito e il collo mi doleva,gli occhi si chiudevano da soli, cascavo dal sonno. Per dormire mi infilai dritto nella prima area di servizio.

Dio, sono uno, Dio, sono due, Dio, sono tre, Dio, sono quattro, Dio, sono cinquecento miglia lontano da casa. Lontano da casa, lontano da casa, lontano da casa, lontano da casa, Dio, sono cinquecento miglia lontano da casa Non ho la camicia addosso, non ho un penny, Dio, non posso tornare a casa in questo modo, in questo modo.” (500 Miles - tradidional eseguito anche da Bob Dylan)

Il campo di cotone era stato ripulito dalla gramigna. Fred, Fred McDowell, era fermo ai bordi ancora in tuta da lavoro, immerso nella canicola di luglio e guardava in un punto indefinito l’orizzonte. Ad un tratto, sentì urlare il suo nome, si girò e vide che il suo vicino di casa Lonnie Young correva verso di lui. Si era sparsa la voce che quel bianco, venuto dal nord con un registratore a bobine, stesse cercando artisti locali da registrare per l ’Atlantic Records. Lonnie informò Fred della cosa e si misero in cammino frettolosamente.McDowell passò da casa, prese la chitarra acustica, chiamò sua zia Fanny Davis che suonava il kazoo ed insieme si presentarono al cospetto di quel tizio che di nome faceva Alan e di cognome Lomax. Era il 1959.

Mississippi” Fred McDowell fu un musicista di talento, scoperto in ritardo ma, diavolo!, per una volta giustizia è stata fatta. Il suo blues,legato alla tradizione rurale del Delta, era suonato principalmente in stile bottleneck, ma anche in fingerpicking. Tecniche che aveva carpito durante le esibizioni di Charlie Patton che, senza dubbio, fu la sua principale suggestione insieme a Tommy Johnson, Son House e Frank Strokes. Il suono che tirava fuori dalla chitarra era implacabile e nello stesso tempo disorientante. Quando raschiava quel vecchio coltellino sulle corde o, in mancanza di esso, un pezzo di una costola di vacca, la musica assumeva contorni tenebrosi, perfino terrificanti. Poi, con voce nasale spezzata, per la tristezza ed il dolore cantava il suo blues ipnotico. Alan Lomax, che si trovava in compagnia del cantante inglese Shirley Collins, lo ascoltò sotto il portico di casa di Lonnie Young. Per il vero, rimasero stupefatti entrambi, ammaliati da quel suono twangy e da quel groove minaccioso che la sua acustica sprigionava. Il suo volto, però, si vestiva di rimpianto.


Dopo quell’incontro e quelle registrazioni, Fred McDowell (è l’uomo che ha scritto See See Rider, Careless Love, Shake 'Em On Down) dovette aspettare qualche anno l’arrivo di Chris Strachwitz per godere di fama considerevole. Strachwitz era il proprietario della Arhoolie, una casa discografica dedita al blues e le incisioni che Fred fece per lui gli diedero finalmente visibilità. Durante gli anni sessanta, partecipò a vari festival di blues e folk e prese parte a diversi documentari sulla musica nera. Anche se fu raggiunto dalla notorietà, non si allontanò mai dal suo stile di vita precario e dalla sua casa a Como nel Mississippi. Il mondo del rock ha attinto dal suo vastissimo repertorio e alcuni dei suoi blues sono divenuti dei classici. Gli Stones, nel 1971, registrarono You Gotta Move per l’album Sticky Fingers, che gli fruttò un po’ di royalty anche se, solo dopo un anno da quell’evento, McDowell morì di cancro allo stomaco in quel di Memphis. I Rolling gli donarono per l’ultimo viaggio un abito d’argento lamé. L’abito di re. La talentuosa chitarrista Bonnie Raitt, sua seguace, in seguito pagò di tasca sua per una lapide tutta nuova, dato che la precedente aveva il suo nome scritto male. Sempre una donna, la formidabile chitarrista acustica Rory Block, ha pubblicato un tributo interamente dedicato a lui. Per finire, i fratelli Dickinson (North Mississippi All Star) devono al suo blues la loro stessa esistenza musicale.

Le incisioni sul campo che Alan Lomax fece quel lontano giorno del 1959, anche se sono state già diffuse e sono sparse un po’ ovunque nella sua sterminata discografia, oggi si possono riascoltare, rimasterizzate in modo eccellente, e lasciano senza parole. Per provare a starci su, ascoltatele mentre la pioggia vi ticchetta sulla porta e lo sguardo incrocia una immaginaria linea ferrata. Come viaggiatori furtivi, vi inabisserete nella notte e, per magia, sentirete liberarsi il blues nelle fessure della vostra anima.

Tu mi fai debole e mi fai gemere”. Mississippi McDowell sputava fuori le parole di quella canzone, intanto che la strada si inerpicava vertiginosamente. Il vento improvviso fece sbandare l’auto che recuperai con un colpo fulmineo di sterzo. Come avremmo fatto ad incastrare le nostre vite, se le cose che ci dividevano erano più che quelle che ci univano? ”il blues è soltanto una donna nei pensieri di un uomo, il blues è soltanto un dolore dentro al cuore di un uomo.”Cosa ci saremmo detti con il passare del tempo? Lei si prendeva solo ciò che le interessava di me, ma io ero anche un altro perchè, come tutti, avevo un altro volto che a lei non interessava conoscere. A questo punto non restava che andarmene ancora una volta, non potevamo seguitare a farci del male. Mi chiesi, allora, per quale ragione non riuscissi a trovare mai niente, che guarisse il mio silenzio ed il freddo che mi portavo dentro. Non me lo sarei mai perdonato, non avrei mai accettato di contrabbandare le mie pene in cambio di un tetto e di un pasto caldo. Desideravo esprimerle la mia anima, senza che nulla me lo impedisse. Volevo dirle che ero malato d’amore, che anch’io avevo quel sogno oscuro di salvare qualcosa. Avrei voluto parlarle, dirle cosi tante cose che, alla fine, come sempre, non dissi nulla.



Mentre accatastavo i ricordi, i fari di un autoarticolato, mi lampeggiarono brutalmente nello specchietto retrovisore. Era una di quelle sere in cui le stelle sembravano il doppio nel cielo, mi strinsi ancora un po’al guardrail e lo lasciai passare. Non avevo fretta, non avevo più fretta. Tanto, a che serviva correre? Non avevo più un posto dove andare, la strada era tutto quello che mi rimaneva, e mi venne da piangere. Fu così che guardai quelle stelle nel cielo e dissi la mia preghiera, l’unica che conoscevo e che avevo voluto imparare, l’unica che ripetevo da sempre. L’unica che recitai nel silenzio di me stesso, anche quel giorno, davanti la bara di mia madre. Me la donò Jack Kerouac, insieme ad un mucchio di altre cose, in una notte frantumata di vino, musica e poesia, molti, molti anni fa. “Giù nel lago apparvero riflessi dorati di vapore celestiale, ed alzai gli occhi al cielo e dissi Dio ti amo, mi sono innamorato di te Dio. Per i bimbi e gli innocenti non ha importanza”

Poi il blues di The Road Is Dark di Michael Jerome Brown mi trascinò fino al mattino.

Bartolo Federico

lunedì 25 marzo 2013

Ho Un Debole Per I Treni

 Glauco se ne stava sulla branda tentando di familiarizzare con la penombra ma, avendone viste fin troppe di cose non chiare, era troppo suscettibile per riuscire a rilassarsi e dormire di botto. Così, i fantasmi che lo avevano in custodia fecero presto ad arrivare per tormentarlo. Non aveva mai avuto vita facile con quegli esseri inquieti e dalle mille facce strane. Scrutò il soffitto per tentare di scacciarli e iniziò a porsi degli interrogativi. Il treno delle due e trenta passò puntuale sotto la finestra con il suo carico di anime tremolanti, facendo oscillare le pareti della casa. Hai voglia a credere a tutti quei progetti, a quei tentativi per continuare a fare quello che avevi sempre fatto. Ogni sforzo è inutile se il destino non ha l'intenzione. Persino ritrovare dentro di sè quello slancio furioso è complicato. Mentre un angoscia profonda lo prendeva si sentii sempre più solo. Bisogna cadere in piedi, pensava, ma con l’età ad un certo punto la musica che hai dentro finisce. E non ha più voglia di ballare con la vita. Nel buio si era giocato pure quel po’ di sonno ristoratore. Assopirsi con tutti quei dubbi, quelle paure, quegli enigmi che gli rimbalzavano nella mente, non era per niente facile.

Si alzò dal letto, accese la lampada e controllò l’orologio alla parete. Da settimane non beveva più un goccio. Si era convinto di dover restare lucido per assistere al proprio tracollo. Che, comunque, era una cosa che non riguardava nessun altro all’infuori di lui. In quei giorni sobri aveva provato a ripercorrere il proprio cammino, cercando di metterne in chiaro le vicende. Ma alla fine si era arenato in un nulla di fatto. La verità muore sempre da sola, nell’ignoto di noi stessi. Non aveva quasi più un soldo e nessuno che gli pubblicasse i suoi scritti. A quasi cinquant’anni era un vecchio solitario, tagliato fuori da tutto. Mentre attendeva che il caffè uscisse dalla piccola moka, accese lo stereo. Ognuno sceglie i sogni che gli riscaldano meglio il cuore. Johnny Cash era tra quelli che raccoglieva i suoi supplizi. Un uomo che era vissuto e morto con gli occhi aperti. Con la sua vita ci aveva fatto una partita, sfidandola a più riprese. Intensamente e senza compromessi, aveva bruciato la candela da entrambi i lati, e dentro le canzoni aveva scacciato la sua solitudine. Ma con la stessa intensità aveva amato e si era ingozzato di sogni. Canticchiò insieme a lui i versi di Hurt

Oggi mi sono ferito da solo, per vedere se ero ancora in grado di sentire, mi sono concentrato sul dolore, la sola cosa reale, l'ago fa un buco, la vecchia familiare trafittura (che) cerca di eliminare ogni cosa. Ma io ricordo tutto. Cosa sono diventato? Mio dolce amico tutti quelli che conosco sono andati via alla fine.


Uscì dalle tenebre del suo appartamento che erano le quattro del mattino. La strada lo prese con sè, insieme agli altri nottambuli. Lungo il marciapiede, mentre si mescolava con la città, pensò che doveva stare attento a non cadere in nessuna discordia. Quel che restava di lui avrebbe fatto bene a ficcarlo nel primo tombino che incontrava, cosi da non cedere a nessun impulso. Si sa che i desideri dei pezzenti sono puniti con durezza. 

Dove è scuro come un cunicolo ed umido come la rugiada, dove i rischi sono molti ed i piaceri pochi, dove la pioggia non cade mai ed il sole mai risplende. E' scuro come un cunicolo giù nelle miniere. (Dark As A Dungeon)

Quello che in seguito fu conosciuto come l’uomo in nero, nacque a Kingsland in Arkansas il 26 febbraio del 1932, in piena depressione economica. Figlio di mezzadri poverissimi, a soli sei anni si trovò a lavorare nei campi aiutando, come poteva, i suoi genitori. Lo diceva la mia mamma e me lo diceva anche la mia maestra che ci sono un sacco di lavori che posso fare, asciugare i piatti, spazzare il pavimento. Ma se lavoreremo tutti assieme non ci vorrà un granché.(All Work Toghether - Woody Guthrie). L’America era in ginocchio, ridotta alla fame. Ovunque ci si girasse a guardare, c’era dolore, disperazione. In questo clima di assoluto abbandono, Johnny Cash crebbe dedito all’introspezione. La musica popolare americana, che gli arrivava per radio attraverso le canzoni di Jimmie Rodgers e della Carter Family, ben presto divenne la sua amica speciale. 

E poi vedo l'oscurità, e poi vedo l'oscurità. Non sai quanto ti voglio bene? E’ una speranza che in qualche modo tu possa salvarmi da questa oscurità...(I See A Darkness).


Glauco s’infilò per una stradina stretta e malridotta che lo portò all’ingresso laterale del mercato ortofrutticolo. Il guardiano lo salutò e, come faceva sempre, gli chiese una sigaretta che lui gli negò, solo perché non ne aveva. Quel tizio, a sentir parlare gli altri scaricatori, era un magnaccia rotto in culo per quella sua attitudine a mangiare a ufo. Ma a lui di tutta questa faccenda non gliene importava granché. Aveva ben altri pensieri su cui arrovellarsi. Raggiunse il box numero 16, si cambiò e prese a svuotare il tir frigorifero che era arrivato qualche ora prima. Lavorò in silenzio fino alle due del pomeriggio e quando terminò si spogliò, passò dalla cabina dove c’era accomodato il padrone. Se ne andò via dopo aver messa in tasca i trentacinque miserabili euro che il capo gli allungò. Non appena fuori dal mercato, prese il tram e, giacché era senza biglietto, si posizionò vicino la porta in modo che, se fosse salito il controllore, sarebbe sceso al volo. Il chiosco-bar vicino la stazione centrale aveva cambiato proprietario e da allora c’era la fila a qualunque ora del giorno. Con tre-quattro euro si riusciva a mangiare e bere decentemente. Si mise in fila e al suo turno ordinò dei panini e una birra piccola. Poi si diresse nella villetta attigua e si sedette su una panchina. I colombi lo accerchiarono appena addentò la pagnottella. Glauco li scacciò in malo modo. Mangiò pensando che la vita si era trasformata in un lungo rifiuto e che, non avendo mezzi economici, tutto si era complicato terribilmente. Aveva perso pure l’abitudine a fantasticare. A furia di prendere legnate, era pieno di escoriazioni e ferite. Se avesse potuto guardarsi l’anima allo specchio, sicuramente si sarebbe spaventato per come era scrostata. Un treno che stava entrando in stazione fischiò lungamente facendolo trasalire. Boom Chicka Boom

Sento quel treno che arriva, arriva da dietro la curva. Non ho più veduto la luce del sole da talmente tanto tempo che nemmeno io mi ricordo da quando (Folsom Prison Blues - J.C.)


Johnny Cash adorava quei vecchi treni sferraglianti e instabili che erano il simbolo di un’ America polverosa rimasta, ormai, solo un souvenir e le storie dei suoi viaggiatori solitari, che se la filavano con i propri sogni lungo le rotaie fumanti. Ma, soprattutto, amava i fuorilegge come John Wesley Hardin. Un Robin Hood che toglieva ai ricchi e dava ai poveri. Ci fece un disco nel 1960, raccontando quelle gesta. Ride This Train è un album che dà dignità e splendore a tutti quegli uomini, impegnati a superare il loro martirio quotidiano, costretti a spingere la vita giorno e notte. Che con un orgoglio che spaccava il cuore hanno dovuto ingoiare umiliazioni e rinunce. Uomini soli che hanno viaggiato sulle piantane dei treni e sputato sangue in cerca di lavoro, per respingere l’incubo della miseria. Senza l’ombra di un biglietto. 

Jesse James e i suoi ragazzi cavalcarono lungo il Dodge City Trail, rapinarono il postale di mezzanotte delle ferrovie del sud. Ma nessun uomo di legge è mai riuscito a mettere in prigione Jesse James. Frank e Jesse James uccisero molti uomini, è vero. Ma in cuor loro non furono mai dei banditi (Jesse James – traditional)


La luce del sole lo accecava maledettamente. Abituato a eclissarsi nell’ombra, tutta quella luminosità gli faceva girare la testa. La vita che conduceva da quando era caduto in disgrazia si era divorata tutta la poesia che aveva dentro. Tanto che non riusciva quasi più a scrivere i suoi deliri. Prese a camminare verso casa, senza fretta, un passo dopo l’altro. Forse doveva imparare a prendere le cose come venivano. Un brivido di paura lo percorse mentre loro tuonavano nel cielo, perché vide i cavalieri irrompere ed udì il loro lugubre canto yippie i ohhh ohh ohh yippie i aye ye ye. Cavalieri fantasma nel cielo (Ghost Riders In The Sky). Johnny si era spinto fino a Juárez in Messico dove aveva comprato mille pasticche di anfetamina. Le nascose dentro la chitarra, ma a El Paso, in Texas, venne arrestato dagli agenti federali. Era un uomo tormentato dagli incubi, trafitto dai suoi stessi fantasmi. La lunga dipendenza dalle droghe e dall’alcool lo aveva stremato. In Song Of Our Soil del 1959, aveva tentato di liberarsi dal demonio con canzoni che parlavano di sofferenza e solitudine. Guardando, ma non vedendo il buio che lo assediava.Dietro la valle dove il vento sussurra piano. 

Qualche volta la notte, dove il vento freddo sembra un lamento, vestita di un lungo velo nero, Lei piange sulle mie ossa, Lei cammina per queste colline, vestita di un lungo velo nero, Lei fa visita alla mia tomba quando geme il vento della notte. Nessuno sa, no, e nessuno vede. Nessuno, tranne me. Nessuno, tranne me. (Long Black Veil - tradidional)

Gli sembrò che stesse camminando sulle sabbie mobili, vigili e pronte a risucchiarlo al primo passo falso. Certo, aveva anche lui giocato e vinto, altre volte perso. Ora, però, procedeva a tentoni zigzagando, frenando e accelerando, sempre meno sicuro che tutto questo servisse a qualcosa. Tentava di fare il duro con se stesso, ma sapeva bene di mentire. Era come un fiore nel buio. Sentiva il bisogno di aiuto, di essere protetto. Sotto quel cielo tentava di trovare un percorso sicuro, lontano dall’oscurità del passato e del futuro. 

Ascolta quel triste caprimulgo, sembra troppo triste per volare. Si sente il tenue lamento del treno di mezzanotte E io sono così triste che potrei piangere. Non ho mai visto una notte così lunga dove il tempo passa così lentamente La luna si è appena nascosta dietro una nuvola per nascondere il suo volto e piangere. ( I’m So Lonesome I Could Cry - Hank Williams)


Quando Rick Rubin, quel genio dall’anima rock che di lavoro faceva il produttore indipendente, dopo un esibizione che Johnny Cash tenne in un piccolo ristorante a Santa Ana in California, si avvicinò per chiedergli se volesse lavorare con lui ad un progetto che gli frullava da tempo in testa, l’uomo in nero lo guardò circospetto, pensando che quel tizio gli ricordava fin troppo se stesso. Ma, oltre a essere un uomo buono e generoso, incuriosito e in cerca di rilancio Johnny si fece ben presto convincere. Nel 1993 registra oltre trenta canzoni, ossute e febbrili, accompagnandosi solo con la sua Martin nera. A quel tempo nessuno dei due immaginava che quello che stavano realizzando potesse dare un nuovo corso alla vita di entrambi e cambiare, per sempre e nel profondo del cuore, la musica. Tutte le cover contenute in quelle registrazioni americane che avrebbero visto, negli anni, altri episodi non potranno più essere cantate da alcuno. Sono destinate a rimanere versioni inarrivabili e chiunque si vorrà cimentare con quel repertorio dovrà fare i conti con questi dischi che adesso sono dei monumenti. Il magnetismo dell’anima di Cash le imprigiona per sempre dentro quell’anello di fuoco che solo lui sapeva e poteva sprigionare.

L’amore è qualcosa di incandescente e da vita ad un cerchio ardente. Guidato da un desiderio indomabile sono precipitato in un cerchio di fuoco. Sono precipitato in un incandescente cerchio di fuoco. Cadevo sempre più giù, sempre più giù Mentre le fiamme salivano. E brucia, brucia, brucia Il cerchio di fuoco, Il cerchio di fuoco (Ring Of Fire - J.C.)

Glauco rientrò in casa e si lasciò cadere sulla poltrona, sistemò la macchina da scrivere. Ho Un Debole Per I Treni, punto e a capo. Il tasto della macchina si abbatté sulla carta come una goccia di sangue nel lavandino. Scrisse di getto e continuò a scrivere fin quando il treno delle due e trenta non passò, con il suo carico di anime tremolanti, facendo oscillare le pareti della casa. 

Delia, oh Delia, come può essere successo? Volevi tutti quegli ubriaconi, non hai mai avuto tempo per me. Tutti gli amici che avevo sono morti (Delia).

Bartolo Federico 


 












sabato 23 marzo 2013

Mai Bere Da Soli


Cielo poco nuvoloso. I venti saranno prevalentemente moderati e soffieranno da sud-sudovest. Le temperature minime saranno comprese tra 16 e 20 gradi. La voce squillante dell’uomo delle previsioni del tempo, che giungeva dalla televisione rimasta accesa, mi scrollò dal torpore in cui ero piombato. Dormivo ancora vestito e con le scarpe ai piedi da chi sa quanto tempo. Schiusi gli occhi lentamente per non farmi ferire dalla luce del sole che filtrava abbondante dalla tapparella rotta e provai a ricordare cosa fosse successo. Avevo bevuto parecchio al locale che ormai frequentavo da un pezzo. Un posto senza pretese, bazzicato da operai che sbarcavano il lunario alla giornata, saltimbanchi, giocatori d’azzardo, magnaccia, mortidifame e falliti come me. Dalla sua ci aveva che era un luogo tranquillo, nessuno che facesse domande a cui non avresti voluto o saputo rispondere, né alcuno che ti guardasse con sospetto qualunque fosse il motivo che ti avesse spinto fin li, eri uno di loro.


Era perfetto per chi non aveva più voglia di stare a sentire tutti quegli idioti che avevano in mano il mondo e, in qualche modo, anche la tua vita. Era perfetto per chi aveva rotto gli argini ed era straripato dentro se stesso, a un punto tale da non sapere più cosa fare per raccogliersi. Era così perfetto da non volere più tornarne indietro; mai più. Mentre cercavo un appiglio per tirarmi su dal letto, ricordai l’angoscia che quella sera mi spinse a continuare a bere nella penombra della stanza dove alloggiavo già qualche tempo. Mi ero scolato le ultime due bottiglie di vodka comprate al supermercato, ascoltando Chet Baker,che cantava la sua canzone preferita“MyFunnyValentine”e lentamente dentro quelle quattro mura che mi opprimevano m’inabissai. “Mai bere da soli” mi raccomandava Clelia quando bazzicavamo gli stessi locali. La solitudine, era solita ripetermi, avrebbe preso il sopravvento e, alla fine, mi avrebbe ucciso con molta facilità. 

Ma ero morto dentro da chissà quanto tempo. Solo che ancora non lo sapevo. La testa mi doleva come se avessi sbattuto violentemente da qualche parte e, mentre il mondo roteava furioso, stramazzavo in terra senza far niente di niente, senza neppure provare a mettermi una cintura di salvataggio. Ero stufo di guerreggiare con tutto e tutti, andavo alla deriva consapevole di ciò. Scrutai la stanza in disordine e il malo odore di vecchio e urina che proveniva dal pianerottolo mi perforò le narici. Per non cadere camminai fino al bagno, tenendomi alla parete. Dopo presi a svestirmi ma prima d’infilarmi sotto la doccia vomitai nel cesso. Nel piccolo specchio ovale non ebbi il coraggio di guardarmi in faccia. 




Avevo sempre odiato le previsioni del tempo. A che mi serviva sapere se all’indomani ci sarebbe stato il sole o la pioggia, se sarebbe stato nuvolo o ventoso? A che cazzo serviva saperlo? Cosa avrebbe aggiunto in più alla mia vita quel delirio scientifico? Dovevo sopravvivere qualunque fosse stato il tempo e tanto valeva alzare la tapparella e regolarsi di conseguenza. Ma la gente vuole sapere oggi cosa accadrà domani, nessuno che si lasci sorprendere dal caso, tutti pronti a fare chiaroveggenze. Ero davvero un rimbambito rimasto a bussare dietro quell’ultima porta. Oggi chi vuol più perdersi per strada o in fondo alla notte? Tutti vanno veloce anche se non hanno nulla da fare. Li vedi che sfrecciano nelle loro auto muniti di quelle scatolette attaccate ai cruscotti da cui fuoriesce la voce di una donna robotizzata che li guida fino a destinazione. Tutto programmato, tutti a fare le stesse cose, tutti raggianti con un gin tonic in mano e quel sorriso ebete di circostanza.


A me piacciano cose delle quali alla maggior parte della gente non frega nulla, come abbassare il finestrino per chiedere un informazione. Che poi è anche un modo per conoscersi, per scambiare quattro chiacchiere. Prima di spegnere il televisore guardai la data alla pagina 103 del televideo; era da due giorni che dormivo e non mi sentivo per niente sveglio. Forse avevo ancora voglia di sognare. Nel contempo, gettai un occhiata veloce alle notizie ed appresi della morte di Clarence Clemons, per 40 anni il sassofonista e braccio destro di Springsteen. Mi adagiai sul bordo del letto e mi venne in mente quel solo di sax in Jungleland. Quel solo che mi porto cucito indosso da una vita, come una seconda pelle. E di colpo, non so perché, avrei pagato per sentirmi ancora giovane, incredulo e anche ridicolo. Di colpo mi rammentai della mia vanità, della mia spocchia e di come mi sentivo fiero di appartenere a quel mondo di cani sciolti che era la E Street Band. Nei parcheggi i visionari si vestono nella nuova rabbia, nella strada secondaria le ragazze ballano ai dischi proposti dal DJ. Amanti con la tristezza nel cuore, si dimenano negli angoli bui disperati, mentre la notte avanza, solo uno sguardo e un sospiro, e sono spariti (Jungleland). 


A quei tempi scivolavo verso l’ignoto e quella luce a intermittenza mi teneva vivo, vigile. Il silenzio non era ancora calato e avevo un bel da fare a correre dietro a tutte quelle cose che uscivano dall’ombra, puro e sincero come non lo sono più. Col vento imbronciato mi avevano lasciato anche Willy De Ville, Warren Zevon, Nico, John Campbell, Jim Carroll, Johnny Thunders, Lowell George, Bob Marley, Joe Strummer, Captain Beefhearth, Kurt Cobain, Ian Curtis, Gil Scott Heron, Richard Manuel, Michael Bloomfield, Bon Scott, Fred “Sonic “Smith, Mark Sandman, e tanti altri che a metterli in fila mi sembra un massacro. Mi ero sfamato di sogni, mi ero nutrito l’anima, e loro erano tra quelli che mi parlavano della mia solitudine e non ero più solo per niente. Tutta gente che aveva preso la strada più stretta, camminando sul lato più difficile del rock’n’roll. Io di loro mi fidavo. Io che non mi sono mai fidato di nessuno! Avevo lottato per un mondo migliore più giusto, più equo, un mondo che si prendesse cura dei poveri, degli ultimi, di chi non c’è la fa. Avevo lottato contro i ricchi prepotenti, i politicanti bugiardi, perché alla fine siamo noi che paghiamo il prezzo più alto del loro malo odore. Ma tutto è rimasto tale e quale, anzi si è fatto ancora più melmoso, più buio, più cupo. Avevo sognato insieme a loro ed avevo perso. Punto.


Mi alzai dal letto e in quella confusione che regnava non temetti più nulla, tanto le cose accadevano ugualmente, silenziose e pigre, portandosi dentro una malinconia che alla fine mi schiariva i sentimenti. Cercando tra le scartoffie sul tavolo il cd di Lady Day che avevo comprato in edicola allegato ad un quotidiano, selezionai “Strange Fruit” e mi vestii. Non ricordo più che tempo facesse.

Bartolo Federico



mercoledì 20 marzo 2013

BRIVIDI BLUES FARFALLE & FANTASMI


Quella notte sonnecchiavo il sonno che non avevo ed ero inquieto come lo sono sempre stato per cui mi alzai per non svegliare Patty che dormiva profondamente. Scesi al piano di sotto e accesi la tv. Girai svogliatamente i canali e ascoltai a volume bassissimo la replica di un tiggì che parlava della crisi economica, del governo, di pagliacci e di puttane, tutte vecchie storie sempre uguali. Ma ecco la novità: i ragazzi finalmente in strada a ribellarsi. Era ora. 

Inghiottiti dal nulla del grande fratello si erano svegliati da quel torpore che li aveva avvolti per troppo tempo. Speriamo che duri pensai, il futuro è nelle loro mani. Mario se n’è andato sbattendo la porta, con la schiena dritta e il pugno alzato. Cazzo quel pugno alzato mi mette sempre i brividi come quando in un filmato d’epoca vidi i partigiani minuti magri come chiodi alzare il pugno davanti alla cinepresa. Mi inorgoglì e mi vennero i brividi. Gli stessi brividi.

Ero inquieto. Non che avessi un motivo. Niente, ero cosi e basta. Mi alzai dal divano ed andai al computer. Mentre aspettavo che s’accendesse presi la chitarra acustica e feci un paio di accordi. Adoravo quella chitarra, era quella che Woody Gutrie si portava a spasso per aprire le coscienze di chi era sordo e cieco. La macchina ammazza fascisti. “Torna Woody Gutrie torna da noi, ora “ (Steve Earle, Christmas in Washington). L’apparecchio si accese, rimisi la chitarra sul treppiedi e cliccai nei preferiti sullo Zambo Place, come facevo sempre ogni qualvolta che accendevo il computer. C’era un post nuovo, Mauro era stato negli States nelle terre del blues. Che bello pensai

Quando il blues mi raggiunge /salterò sul treno e andrò via./Quando una donna è triste/china la testolina e piange./Quando un uomo è triste/ salta sul treno è parte.” L’ amato blues, la musica per eccellenza, il viaggio sognato che forse mai farò per la mia paura fottuta degli aerei . Leggo di quei posti che prima di essere un viaggio fisico sono luoghi dell’anima, di chi si è tinto di nero il cuore, di chi ama la penombra e il vento caldo che ti accarezza il viso. Nella mia visione quelli sono i luoghi di chi l’anima l’ha persa ed allora va giù dritto senza paracadute senza più nulla che lo trattenga. E non so perché mi viene in mente un ragazzo che col diavolo ha fatto a botte per tutta la sua breve vita e che nel blues ha trovato ristoro e comprensione per il suo mal d’animo .

Appena il tempo di un disco ubriaco di passione e d’amore come solo il blues può fare. Un disco ispirato dai fantasmi che ancora oggi aleggiano lì nel torrido Delta: Son House, Charlie Patton, Willie Brown, Frankie Lee Sims ,vi prego consolate ancora Jeffrey Lee Pierce.( Ramblin' Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love -1992-) 
E’ il nostro stesso dolore, in fondo, che ci protegge dalle trappole e dalle tentazioni della vita, dalle nostre vigliacche aspirazioni alla felicità, dalla nostra triste e irragionevole voglia di sopravvivenza. E il sopravvivere peraltro è solo una questione fisica; l’anima si è già ritirata da un bel pezzo, è scesa in punta di piedi giù per lo stretto cammino dell’esistenza, si è persa per la troppa sofferenza, la troppa amarezza, soprattutto per la troppa lucidità. E per la tristezza. “Niente è più triste di un’anima smarrita”(Hugues Pagan-La notte che ho lasciato Alex-). 
Il primo incontro con il blues fu una raccolta intitolata “THE GREAT BLUES MEN” un disco doppio edito dalla Vanguard. Presentava brani di Sleepy John Estes, Muddy Waters Jesse Fuller, Son House, Skip James, J.B.Hutto, Rev Gary Davis, John Lee Hooker, Big Bil Broozy ed altri ancora , di cui con il tempo ho approfondito la conoscenza. Il blues è un modo di essere come disse Leadbelly “Quando la notte sei sdraiato a letto e comunque ti rigiri stai scomodo, allora vuol dire che t’ha preso il blues”, e come ebbe a dire Dylan “Più ti allontani dal blues più la musica diventa altro”. Per questo motivo non ho mai amato i Beatles ma gli Stones. “Prego lasciate che mi presenti sono un uomo ricco e di gusto sono stato in giro per molto tempo Ho rubato molte anime e ho sottratto molta fede agli uomini” (Sympathy for the Devil - Rolling Stones – 1968).

Esiste un Unplugged contenente outtakes in studio dei Rolling, dal 1968 al 1973, in tutto 14 brani che vanno da HorCocksucker Blues a Sister Morphine, da Dear Doctor a You Gotta Move, da You got The Silver a Dead Flowers, Wild Horses ed altri ancora. Gli Stones suonano sinceri e fluidi c’è la polvere e il cuore l’armonica sbuffa come un vecchio treno, e le chitarre ti fermano i battiti. Mick canta come un vero cantante di blues e il blues magicamente prende forma. Non mi posso sbagliare è a Tupelo che sono diretto stanotte. “Mi devo muovere mi devo muovere c’è un demonio sulle mie tracce”(Robert Johnson)

Ero inquieto quella notte, spensi il computer e presi nuovamente la mia chitarra, suonai nella mia mente per non svegliare nessuno una canzone che avevo scritto anni fa “ Lunghe notti li da solo/sulla strada 51/il cuore esplodeva e finalmente/ con la polvere negli occhi/i buchi nelle scarpe/in un freddo maledetto/io mi trovo qui/ Memphis Tennessee/Menphis Tennesse.(Memphis Tennessee ).
Siccome ero entrato in uno stato tra il sognare ad occhi aperti e il dormire in piedi mi sentìì come l’Elvis delle Sun Sessions. Davanti a me si materializzarono Scotty Moore, Billy Black e Jimmie Fontana. Che disco le Sun Sessions! Se oggi il blues ha una visibilità mondiale lo deve anche a questo ragazzo di Memphis. Scotty ricorda: ”I microfoni erano spenti. Elvis era in relax. Cosi prese in mano la chitarra e incominciò il brano quasi per caso. Io gli stetti dietro e cosi fece anche Billy Black con il basso. Sam, dalla stanza attigua, si precipitò chiedendo cosa diavolo stessimo suonando. “Non lo sappiamo” risposi “Cercate di non perdere il motivo” disse “Dobbiamo assolutamente inciderlo”. La canzone era “It’s Alright Mama” di Arthur Big Boy Crudup (Elvis Presley -The Complete Sun Sessions 1976). Quel giorno del 1953 “Il blues ha avuto un figlio e lo hanno chiamato rock’n’roll” (Muddy Waters).

MEMPHIS TENNESSEE
Nella penombra i miei fantasmi sono venuti a bussare, si sono fatti largo e hanno preso a danzare come fossero ballerini. Lì davanti a me, mi hanno chiesto perché mai li avessi disturbati, mentre lo scirocco ha preso a soffiare. Ho spento la luce, mi sono addossato al muro ed ho sentito dodici battute, ho sentito dodici battute lì nel vento. Ho preso a respirare piano non volevo disturbare. Toc Toc .”Ecco che viene Blind Lemon Jefferson/toc toc fa col suo bastone/la sua ultima fossa sta sulla strada dei patimenti/per metà piena di pioggia” (Nick Cave). “The first born is Dead” di Nick Cave del 1985 è un disco che profuma di sud, di Elvis di John Lee Hooker, di Johnny Cash e di un bluesman chiamato Bob Dylan. “Ricercato in ogni bordello/ricercato in un milione di saloon/ricercato è uno spettro in centinaia di case un’ombra in migliaia di stanze”(Wanted man-Bob Dylan). 

Sposto la tenda rossa dalla finestra per guardare fuori. Il vento è salito d’intensità e i rami delle palme si piegano in maniera innaturale, la mimosa non ha retto alla furia e si è spezzata. Il mio furgone ondeggia ma tiene duro. Ci aspetta ancora molta strada da fare. “Devo restare in movimento/ devo restare in movimento/i blues calano come grandine/i blues calano come grandine.”(Hellhound on my trail -Robert Johnson). Mike se ne andava in giro solo soletto. Nella Città del vento, faceva un freddo cane, si alzò il bavero del cappotto ed anche se la Gibson Les Paul pesava un accidente, aumentò l’andatura. Doveva far presto se non voleva arrivare in ritardo. Era diretto nelle zona South, un quartiere malfamato e molto pericoloso specie per un ragazzino bianco. Ma nulla lo spaventava, e per niente al mondo si sarebbe perso il cantante di quella sera. Il suo amico Howlin’ Wolf.

Quando entrò nel club il concerto era appena iniziato. Quell’omone sul palco già ululava i suoi blues e la gente sembrava in trance. Con gli occhi cercò Charlie e lo vide appoggiato al pilastro proprio sotto il palco. Lo raggiunse a fatica e lo salutò nel trambusto. Charlie non gli rispose neppure, era sconvolto da quella musica palpitante e aggressiva .Howlin’ prese a suonare l’’armonica ed un suono brutale ne usci, il collo si gonfiò tanto che sembrava che gli stesse per esplodere. Il pubblico era totalmente impazzito. Wolf ad un certo punto vide Mike e gli sorrise, Charlie restò esterrefatto quando con quello stesso sorriso lo invitò a salire sul palco.( Mike Bloomfield, Analine, 1977. Live at Bill Graham’s Fillmore West, 1969. Charlie Musselwhite, Stand Back, 1967).

 Tempi duri.
Seppellisci pure il mio corpo/uh là sull’orlo dell’autostrada/cosi che il mio spiritaccio maligno/si pigli un bus Greyhound e se ne vada” (Robert Johnson, Me and the Devil). 
Nel ventre della notte mi preparo una tazza di caffè e mentre lo sorseggio penso che se mai un giorno andrò negli States é con il Levriero che vorrò vedere l’America. Il mezzo di trasporto dei poveri. Può darsi che sia solo un inguaribile romantico ma è sempre chi non ha nulla che ti tende la mano e che è pronto a soccorrerti. Sono sempre gli emarginati, i dimenticati che divideranno con te un pezzo della loro esistenza. Perché la loro storia c’è l’hanno scritta tutta negli occhi, se solo li si guardasse, almeno una volta. ”I tempi duri sono qui e dappertutto/i tempi sono più duri di quanto non siano stati mai/la gente si trascina di porta in porta./No,un paradiso non si trova”(Skip James, Hard Time illin’FloorBLUES)

I poeti del Delta si laceravano l’anima per il fatto di suonare questa musica, perché loro al diavolo ci credevano davvero. Con voci espressive e chitarre sull’orlo di una crisi di nervi aprirono le porte della percezione.”Il suonatore di armonica ululava e guaiva attraverso il suo strumento come un cane che segue la traccia. Il suonatore di mandolino non pizzicava delicatamente il suo strumento, ma tirava giù cascate di accordi argentei che rischiaravano la caccia dell’armonica come il plenilunio delle torride notti estive del Sud. Un secondo chitarrista eseguiva la linea di basso sul ritmo che batteva col piedone da contadino, trasformando l’intero edificio in un enorme tamburo africano. Al centro di tutto questo stava Son House, trasfigurato, un uomo posseduto dal canto, accecato dalla musica e dalla poesia. In lui il dolore del blues non era superficiale, timido o ironico. Tutto il corpo di Son piangeva mentre, a occhi chiusi, i tendini tesi sul collo per la violenza dell’emozione e la faccia bruna congestionata, cantava con voce straordinariamente drammatica “Death Letter Blues”, La Terra Del Blues, Alan Lomax).
Che il blues fosse speciale se ne accorse da subito anche un giovane cantautore che ha cambiato le vite di tanti con le sue canzoni che dai blues si sono abbeverate e sono figlie. Un uomo di blues a tutti gli effetti Bob Dylan che sin dal suo disco d’esordio non lascia dubbi sulle sue radici (Bob Dylan, 1962): Bukka White, Blind Lemon Jefferson, Blind Willie Johnson, Furry Lewis, Fred Mc Dowell. E’ con le loro canzoni che si presenta al mondo fiero e orgoglioso di cantarle.
Anche lui, come loro, ha una voce sgraziata è una chitarra spigolosa, ma è bianco e scriverà canzoni da favola che a raccontarle tutte ci vorrebbero mesi. Poi, come loro, elettrificherà gli strumenti e inciderà prima due dischi di blues, apocalittici e maestosi che dovrebbero essere ascoltati come se fossero un doppio album perché l’uno e complementare all’altro: “Bringing it all back home”, 1965 e “Highway 61 Revisited”, 1965. Poi chiuderà il ciclo, con il culmine della sua inventiva “Blonde on Blonde, 1966. Che doppio, invece, lo è di suo: “Shakespeare, è nel vicolo con le sue scarpe a punta e le sue campane. Sta parlando ad una prostituta che dice di conoscermi bene. Ed io vorrei spedire un messaggio per scoprire se ha parlato Ma l'ufficio postale è stato rubato e la cassetta postale è chiusa. Oh, Mama, può essere veramente la fine, essere di nuovo bloccato a Mobile col blues di Memphis “STUCK INSIDE OF MOBILE WITH THE MEMPHIS BLUES AGAIN, Bob Dylan. 

LA MANO DEL DIAVOLO
Risento le dodici battute mentre lo scirocco continua a soffiare imperterrito. Spengo la luce e una sagoma nell’oscurità prende forma. Con i suoi lunghi boccoli e lo sguardo torvo il re della tenebre è arrivato. Imbraccia la sua luccicante chitarra National ed ha un piglio luciferino, mentre attacca a suonare “Saddle Up My Money”. La voce rauca e greve sembra che provenga dagli Inferi. Il suono è dirompente e minaccioso e la tensione sale al culmine quando usa la lama di un coltello come slide. Ho la pelle d’oca.John chiude gli occhi mentre il vento ha smesso di soffiare anche lui ipnotizzato da quelle note (John Campbell, One Believer, 1991; Howlin Mercy, 1993”. Ci vuole un uomo con il blues per cantare il blues”(Leadbelly).
Quella notte d’estate giacevo sul letto con la finestra spalancata che dava sulla strada. Da quella posizione riuscivo anche a vedere il cielo che era pieno di stelle, ed era un bel cielo. Quella notte illuminata dalle stelle, con le cicale che frignavano sugli alberi, sembrava tranquilla e senza pericoli. Ascoltavo la radiolina messa vicino all’orecchio, e sognavo. Ad un tratto la notte fu squarciata da un urlo sovrumano, un urlo che proveniva dalla strada. In linea d’aria era proprio sotto la mia finestra. Mi paralizzai nel letto, le gambe s’irrigidirono e la radiolina mi cadde dalle mani frantumandosi sul pavimento. Ero terrorizzato, mentre l’urlo continuava sempre più forte fino a quando si trasformò in un gemito che a me sembrò un ululato. Fu allora che mi venne in mente Don Nanni. 


Don Nanni viveva in una baracca di lamiera e cartone sul greto del torrente era alcolizzato e fumava l’impossibile. Alfa senza filtro e Sax. Quando tossiva potevi sentire i polmoni che si squarciavano e tanto era lo sforzo a cui era sottoposto che cadeva in terra contorcendosi e dimenandosi come fosse posseduto da forze demoniache. Da tempo aveva perso tutto quello che di umano c’era in lui. Che fosse estate o inverno portava quel che restava dei brandelli di un cappotto sudicio. Quando l’alcool lo possedeva era rissoso e violento e puzzava come un cane bagnato. Ma si sa nei ragazzini la cattiveria abbonda. Quando ci capitava di incontrarlo volavano sfottò e insulti. Lui tentava di rincorrerci bestemmiando, ma era impossibile prenderci. Camminava strascicandosi e si reggeva a malapena in piedi. La sua unica arma di difesa era il suo bastone e le pietre che ci tirava. Quando morì la notizia rimbalzò subito nel Villaggio. Lo ricordo bene quel giorno. Corsi a perdifiato sul greto del torrente fino alla baracca, c’era già la polizia e il personale sanitario, ma feci in tempo a vederlo lì in terra, immobile, avvolto in quel cappotto che lì per lì mi sembrò un sudario e gli chiesi perdono per tutte le angherie che gli avevamo fatto. Si diceva che fosse un lupo mannaro e che per questo era stato cacciato di casa. 
LUPI MANNARI
LOUP GAROU BAL GOULA, LOUP GAROU BAL GOULA, LOUP GAROU BAL GOULA.” Il vento ha ripreso a soffiare penso a quali formidabili jam suoneranno, John e Willy, li dove si trovano. ”Il blues è un dannato brivido, un freddo che ti fa tremare/io non l’ho avuto mai, spero di non doverlo mai provare…”. Greg tornò a casa con una chitarra acustica comprata dal rigattiere aveva sentito il vicino di casa, suonare un pezzo country e gli era venuta voglia d’ imparare. D’altronde il padre, assassinato da un autostoppista, cantava e suonava la chitarra. Con le dita che gli facevano un male cane, provava e riprovava i primi accordi. Un giorno suo fratello maggiore, Duane, gli chiese se poteva insegnargli qualche accordo. Ma Duane, con meraviglia di tutti, si scopri un vero talento. In poco tempo la sei corde non ebbe segreti nelle sue mani. Lasciò la scuola e si dedicò anima e corpo allo strumento. Ma non prese mai lezioni formali. Una volta padrone della situazione volle suonare una chitarra elettrica, cosi barattò i rottami di una Harley Davidson 165 per una Gibson Les Paul jr, e si immerse nei dischi di Robert Johnson, Blind Willie Johnson, T-Bone Walker, Albert King. Ma solo dopo aver sentito Ry Cooder suonare "Stateboro Blues" di Blind Willie McTell, assieme a Taj Mahal in un locale di Los Angeles decise di suonare la slide. Prima di questo evento usava suonare in slide per imitare i licks d’armonica di Slim Harpo e Sonny Boy Williamson. Fu soprannominato Skydog per quel modo acuto di suonare il blues e per ottenerlo usava una bottiglietta di vetro di Coricidin (un farmaco). Queste bottigliette hanno un’estremità chiusa e Duane suonava spesso con la giuntura della bottiglia, in contatto con le corde, che metteva sull’anulare della mano sinistra. La mano del diavolo. Duane e stato il più grande chitarrista bianco di blues. E’ in assoluto il più grande slide-man di tutti i tempi. (Duane Allman, An Anthology, vol.1&2, 1972-1974).

Qualche anno fa incontrai un mio vecchio amico, di quelli con cui ho condiviso l’infanzia, e tra un ricordo e l’ altro gli raccontai di quella notte , in cui pensai di sentire Don Nanni trasformato in lupo mannaro. Mi ascoltò silenziosamente, poi con un espressione malinconica mi spiegò che anche lui, quella notte, senti quell’urlo, ma al contrario di me, scese in strada. E le cose che vide non stavano per come le avevo immaginate. Percorse la scorciatoia che usavamo quando dovevamo scappare e nascondendosi dietro il muretto, che conoscevo bene, si affacciò sulla strada. Lì vide la madre di Francesco in ginocchio in mezzo alla strada nel punto esatto dove Francesco cadde con la moto e morì. Era sconvolta dal dolore e urlava tutto il suo strazio. Restò lì a lungo, poi qualcuno venne a prenderla. Ascoltai attonito quella rivelazione, poi sommessamente aggiunse: “ Da quella notte non fui più lo stesso.” Il vuoto è senza fine, freddo come l’argilla. Puoi sempre tornare indietro, ma non puoi mai tornare indietro completamente.”(Mississippi, Bob Dylan).

Bartolo Federico




lunedì 18 marzo 2013

L'Anima Di Un Uomo


Stavo in sella alle mie illusioni in un alba rosso prugna. Mi fermai in un area di servizio e feci colazione con un doppio caffè e brioche. Comprai una cartolina e in un angolo scrissi “Ti Amo”. Gliel’avrei spedita da qualche punto lungo il tragitto. Poco prima che andassi, lei mi disse, abbracciandomi: - Non mi spezzare il cuore, se puoi non farlo mai -. Guidavo e non riuscivo a dimenticare la sua ultima frase, era quella che mi rimbombava nella testa come una palla da biliardo: - Lo sai che il tempo prima o poi porta tutto alla luce, lo sai che è cosi. Non fingere su questo neanche con te stesso -. Mi domandavo perché mai mi avesse detto quelle cose. Forse le mie ombre, i miei buchi erano visibili. La muffa sul mio cuore mi aveva sovrastato.

Cosa mi era successo? Perché non avvertivo più quel segnale che mi aveva sempre messo in allerta? Avrei disinfettato e guarito definitivamente le mie ferite. Avrei tenuto fede ai miei propositi prima che, ancora una volta, fosse troppo tardi. Ma tutto ero stagnante. Mi guardavo come fossi un passante davanti ad una vetrina di un negozio che, gettata un occhiata veloce, proseguiva dritto per la propria strada. Un visitatore frettoloso di me stesso. Ecco cos’ero diventato. St. James Infirmary suonata da Allen Toussaint in “The Bright Mississippi” un disco che è un tributo ai grandi del jazz come Louis Armstrong, Sidney Bechet, Jelly Roll Morton, e Joe “King” Oliver, reggeva quei pensieri cullando i mie deliri.

La strada era rivestita dei sogni frantumati di tutti quei randagi che l’avevano attraversata. Mentre lo scenario che mi circondava toglieva il fiato, ebbi quasi paura che disturbassi quell’immensa bellezza con il mio passaggio. La strada era da sempre l’unico luogo dove riuscivo a fare chiarezza, sin da ragazzo era stato così. Sanguinavo sotto il cielo che era un tappeto di sogni usati, ma era anche il luogo da dove lei era sbucata tutto ad un tratto riempiendo la mia vita. Dopo, lentamente si era iniettata nelle vene e il muro era crollato. Adesso era l’essenza di tutti i miei sogni. Adesso avevo ricominciato a vivere dopo essere scivolato nel regno dei morti.


Sistemo nel lettore il cd “One foot in the Ether” dei The Band Of Heathens che è un disco dove il gospel, il blues e certo funky&roll si attorcigliano come serpenti, alle tre voci dei leader che accompagnate da chitarre slide che sanno di polvere e fango si intersecano in canzoni avvolgenti che ti ronzano nelle orecchie fino a diventare appiccicose come le zanzare. L.A. Country Blues ha lo spirito fiero del rock di strada e germoglia di libertà  narrando la storia dello scrittore Hunter S. Thompson morto suicida mentre era al telefono con la moglie. Ma in realtà assassinato per le sue inchieste dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle. Let Your Heart Not Be Troubled è una ballata alla Stones, Shine a Light un gospel con slide e organo e le voci che si inseguono, What’s this world è la canzone che Steve Earle non scrive più da quando ha lasciato il Sud e la Gibson. Ancora oggi pur in pellegrinaggio dal vecchio Hank Williams non gli gira più come un tempo. Torna indietro Steve! Say è un R&B che mi riporta alla mente i Semi-Twang di Salty Tears, ma anche gli  Statesboro Revue. Ad eccezione di Look at Miss Ohio di Gillan Welch è tutta farina del sacco dei leader: Ed Jurdi, Gordy Quisty e Colin Brook. La luna sottile è un cerino pronto a dar fuoco al cuore di tutti i soul lovers che bazzicano ancora le terre cattive del rock e Golden Calf con il suo incedere voodoo è perfetta per andare incontro alla notte.

Cosa avrà provato il piccolo Willie Johnson quando quel liquido tossico lo accecò, cosa fece dopo che quel secchio da bucato gettato con rabbia durante una lite tra suo padre e la matrigna gli bruciò le pupille. Forse avrà corso con le mani sugli occhi piangendo per il dolore e la disperazione attraversando i campi di Marlin in Texas senza riuscire a fermarsi mentre il mondo si oscurava per sempre. Avrei voluto essere li e tenerlo forte, abbracciarlo sorreggerlo ed avrei pregato Dio in qualche modo affinché gli restituisse la vista. Avrei voluto esserci quando scisse “Dark was the night And Cold The Ground “ un blues strumentale che esprimeva il dolore la sofferenza, il bene e il male, con note raschiate sulle corde della chitarra da un coltellino usato come slide, mentre spargeva tutto il suo tormento . Avrei voluto vederlo suonare per strada mentre predicava, perché era nella fede che si era rifugiato per trovare ristoro ad una vita fatta di stenti e miseria. Avrei voluto conoscerlo ed essergli amico. Gesù Cristo era un uomo e aveva viaggiato in lungo e in largo. Era un lavoratore coraggioso e instancabile. Diceva ai ricchi: “Date la vostra roba ai poveri”. Così hanno fatto il funerale a Gesù Cristo” (Jesus Christ - Woody Guthrie)

Blind Willie Johnson si fece predicatore battista e iniziò a divulgare il credo per le strade del Sud. Era un abilissimo chitarrista, dal suo strumento traeva suoni limpidi e puliti che lo differenziavano da tutti gli altri bluesman che bazzicavano l’area del Delta. La sua musica era un misto di gospel blues e folk dai toni caldi e seducenti ed aveva un canto che scuoteva l’animo come un fuscello. La sua voce, potente e roca ma velata di tristezza, era il suo grido profondo, per una vita durissima, che sapeva donare comunque consolazione a chi gli prestava ascolto. Willie, come tanti altri bluesman ciechi, si guadagnava da vivere suonando per le strade in cambio dell’elemosina. Well, who's that a-writing?/ John The Revelator/ Who's that a-writing?/ John The Revelator/ Who's that a-writing?/ John The Revelator/ A book of the seven seals ” (John the Revelator)

Quando conobbe Angelina, un’ex cantante gospel, si sposa e va a vivere a Dallas. Ed è in Texas che inizia ad incidere le sue canzoni, una trentina in tutto, che nel tempo diventeranno pietre miliari del blues. If I Had My Way, Let YourLlight Shine On Me, You’re Gonna Need Somebody On Your Bond, Motherless Children Have A Hard Time, Make Up Dying Bed. Canzoni spesso accompagnate dal controcanto di Angelina che diedero alla sua musica un fascino tutto particolare. Un uomo sensibile e toccato nel profondo dagli eventi ingrati che lo perseguitarono. Una vita passata nell’indigenza, dove solo la musica riuscì a lenire il suo profondo dolore, un musicista sincero e speciale, ma sfortunato, anche nell’orribile morte che fece. Qualcuno qui mi può dire che cosa è l'anima di un uomo?/ Ho viaggiato in diversi paesi/ Ho viaggiato per terre straniere/Non ho trovato nessuno che mi dica che cosa è l'anima di un uomo.” (Soul of a Man). La sua casa andò in fumo e Willie Johnson, che non sapeva dove andare, restò a dormire tra quelle macerie. Quella sera il cielo lampeggiò e faceva un freddo cane. Si rannicchiò su se stesso e si addormentò. A testa in giù, nella fredda terra sprofondò. Quando Ry Cooder suonò Dark Was The Night nella colonna sonora di Paris Texas di Wim Wenders sono certo che ogni nota che ha centellinato, scolpito con la sua chitarra, è stata guidata dalla mano e dal cuore di Blind Willie Johnson.

Eccomi in cammino, con il tempo che mi spia, cercando di mettere in chiaro quello che non so. Ho le mani sudate e il cuore che mi martella mentre salgo le scale del Motel. Ho con me la mia piccola chitarra da viaggio, getto la sacca da marinaio sul letto e cerco la melodia per quei versi che da tutto il giorno mi frullano nel cervello: ”A meta strada sto tra le tue braccia/ correndo nella notte/ guidando contromano/ ho trovato la chiave/ Se piovono stelle vienimi vicino/ non guardarti indietro/ in fondo siamo vivi ed è quel che conta/ Trattieni il respiro/ manda giù la promessa/ non lasciamoci più/ non lasciamoci più/ non lasciamoci più/ Ci si abitua a tutto anche a morire/ Oggi come allora/ prendi la mia mano tienimi cosi/ Oggi come allora/ prendi la mia mano tienimi cosi.” (Come Allora)

Il giorno dopo scrissi quelle strofe sulla cartolina e prima di ripartire la imbucai.

Bartolo Federico