martedì 18 settembre 2018

I cuori sono come i fiori

Dormire negli ultimi tempi è diventato un vero tormento, al punto che il sonno mi sembra una discesa negli inferi. Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi. Al risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili, claudicanti e senza sole, di Nikki Sudden e Dave Kusworth, o del Johnny Thunders fragile e drogato, di “Hurt Me”. Il medico mi ha guardato con una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. Non se ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa. Il suo comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto stretta osservazione”. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli antidepressivi da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il sole che stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in cucina pensavo a queste cose, quando il telefono prese a squillare facendomi trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad una signorina dai toni suadenti, che mi ha illustrato l’ennesima vantaggiosa offerta per luce e gas. Malgrado la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle attenzione. Siamo stati lì a conversare come due vecchi amici che non si sentivano da un pezzo. Dopo un po’ mi sono alzato barcollando e, con la cornetta attaccata all’orecchio, ho azionato lo stereo. Autumn Stone degli Small Faces, l’ho ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. “Ero nel nulla, finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia attraverso l’essere buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un luogo difficile da trovare, quel che tu sei sempre stata, è la verità. Cerco una porta aperta, dove mi posso mettere seduto e giocare in pace con te. Il domani cambia l’odierno verde dei prati, ieri è deceduto, ma non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei arrivata tu. La più dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato un suono che vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me”. Verso mezzogiorno mi sono deciso a uscire. Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con gli occhiali neri e un bastone bianco, e subito dopo anche Gianni, uno che assomiglia in maniera impressionante a Lemmy dei Motörhead. Un tempo anche lui era un musicista ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e adesso vive come un vagabondo tra i binari della ferrovia. Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno sapeva, ma che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non mi sentivo ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia restava alto. L’arteria principale della città come sempre era intasata di macchine, e l’aria era talmente maleodorante di gas di scarico che mi è venuto il mal di testa. Nessuno di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario. Nessuno di noi possiede l’alba, il cielo, la pioggia. Mentre cammino per le strade senza meta, una piccola ombra mi protegge dal sole, e penso che, nonostante tutti i miei casini, sono ancora in piedi. In questo periodo rispolvero sempre più spesso i miei vecchi dischi, dal computer non scarico più files musicali, perché ad un certo punto mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla la musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. James Moore in arte Slim Harpo, è stato l’esponente di punta dello swamp blues. A soli quindici anni resta orfano, ed è costretto ad abbandonare la scuola per mantenere il resto della famiglia. Si impiega come scaricatore di porto, e dopo come manovale… ma appena finito il lavoro suona per strada le canzoni che scrive, accompagnandosi con l’armonica e la chitarra che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce Lightinin’ Slim che lo porta dal noto produttore Jay D. Miller. Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo e lo lascia in disparte… fin quando Slim Harpo non gli fa ascoltare quel suo nuovo brano dalla ritmica martellante e devastante… I’m A King Bee. La canzone diventa un grande successo che viene bissato da Rainin’ In My Heart, un blues lento e ipnotico, che ti fa sentire il fruscio delle paludi della Louisiana. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i suoi due volti musicali. Il primo lato del disco è terminato. Mi alzo dal divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla seconda canzone, per evitare il graffio che ferisce profondamente la prima traccia. Muddy Waters, Kinks, Yardbirds, e Rolling Stones, anche quelli fantasmagorici di “Exile On Main Street”, attinsero dal repertorio di canzoni straordinarie di Slim Harpo. Alle volte c’è come una fossa dentro di noi che ci fa vacillare. Così guardo la mia ombra riflessa sul muro della stanza e non so perché, mi viene di sorriderle. Fuori nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il palmo della mia mano. Lo so che il dolore man mano sbiadisce e poi, all’improvviso, finisce. Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola tra le dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il pensiero che mi attraversa viene scosso da quel rantolo rauco che arriva dallo stereo acceso. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di J&B, la prendo e mi verso quel che rimane in un bicchiere. Da quando sono rimasto solo sono diventato un casalingo esperto, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco le coperte sopra le lenzuola, lavo i pavimenti con l’aceto, stendo il bucato, pulisco i vetri asciugandoli con la carta di giornale, e ascolto la radio mentre sbatto i tappeti. Sul tavolo del salone c’è una mia vecchia foto, di quando avevo diciotto anni. Ho i capelli lunghi, porto i Ray-Ban e come sempre ho un aria smarrita. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi così di primo acchito. E’ un blues sporco e aggressivo, aspro e irruento, un blues che partendo dal Mississippi si è formato per la strada, nei bordelli di Chicago, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile. E’ un blues oscuro e genuino quello che suona Hound Dog Taylor con i suoi degni compari, gli Houserockers, diretto discendente del suo maestro Elmore James. Con il suo stile bottleneck esuberante e distorto, Hound Dog Taylor manda in visibilio il pubblico nei suoi concerti non stop, che gli fanno conquistare fama e credibilità nella difficile “Città del vento”. E’ un selvaggio seduto in quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. Il volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un drive che è una meraviglia del demonio. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un amante delle donne, tanto che un suo amico gli affibbiò quel soprannome da cane segugio. Lui sì che prendeva la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva spiaccicandola sul manico della sua chitarra, con la mano sinistra e con quel collo di bottiglia che ci strofinava sopra per evocare gli spiriti del Delta e di quel degenerato di Robert Johnson. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso è calato il silenzio. E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori, perché è in questo ambiente che ci si illude di muoversi per non arrivare mai. La mattina, dopo aver rassettato la casa, me ne sono andato all’ufficio postale per pagare le bollette. Durante il tragitto mi ha fermato una chiromante, che ha voluto per forza leggermi la mano. Con un certo imbarazzo gli ho teso il palmo. “Mi sembri ubriaco” dice guardandomi dritto negli occhi. “No, non lo sono”, gli urlo quasi. “Il tuo amore ritornerà”. Adesso sì che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a ballare. Infilo una mano in tasca, e le lascio tutti gli spicci che possiedo. Quando arrivo alla posta la gente è in fila fino a fuori dalla porta… ma dal momento che le bollette sono già scadute, mi armo di santa pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco della mia incapacità di adattarmi. Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare. La gente che mi sta intorno è scoglionata e anche nevrastenica. “Dal governo si lamentano alcuni uomini, ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio per tanti”. Un vecchietto, quando arriva il suo turno, chiede all’impiegato se gli può scrivere un indirizzo sulla busta, ma il tizio lo respinge in malo modo… ed è così che mi stacco dalla fila e prendo a sbattere le mani sullo specchio che ci divide e lo protegge. Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda cuccia, che ho delle cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo, di persone come lui. Il tizio mi guarda terrorizzato, restando fermo e silente sulla sua comoda poltroncina. “Lo so che non ci puoi sopportare gli continuo a gridare, ma neanche noi sopportiamo individui come te“. Poi mi rimetto in fila, mentre un silenzio raggelante scende giù. Illegale non vuol dire che non sia giusto. Weldon “Juke Boy” Bonner, amava la strada. Con la sua chitarra dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con l’armonica per sottolineare il suo tormento, il suo blues mise in scena la lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti, ma anche della sua stessa sopravvivenza. “Ricordo che vivevo sulla costa occidentale francese. Avevo solo diciassette anni quando una ragazza mi toccò per la prima volta il cuore. Nonostante io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai belli come lo sei tu. Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il mondo è in bianco e nero” (Where The Rivers End – Jacobites). Hai sempre paura di ciò che non conoscie il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa dell’eternità, rincorrendo la giovinezza… ma in fin dei conti, cos’è ‘sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci. Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci. Mi sedetti sul divano e alzai gli occhi verso lo specchio. Una volta scendevo al fiume con Maria, ed è lì che ci siamo amati. Ma adesso quel fiume si è inaridito, perché i cuori sono come i fiori.