domenica 28 settembre 2014

Quando La Città Cade Nella Notte




Giorno e notte Sento la sua pelle è sottile e bianca come latte condensato. Chiusi gli occhi e lei svanì, come la seta bruciata. E ciò che resta è stato come qualche tuono caduto. E le mie labbra sono incatenate; piene di vuoto stupore. Ma le stelle dicono bugie, e accecano l'unico avvertimento. E quando il buio muore, non c’è più niente.(Day And Night – Jim Carroll)


Alle volte le uniche cose ad avere la luce, sono le stelle. Il resto sembra avvolto dalle tenebre. Dopo una gincana tra le auto dei clienti posteggiate sul marciapiede, entrai nel bar-tabacchi. L’unico a quell’ora della notte, ad essere ancora aperto. Dei ragazzi seduti sugli sgabelli vicino alla vetrina vestiti come Eminem, bevevano birra e ridevano. Comprai un pacchetto di Winston, un accendino zippo, ed uscì. Nella penombra una donna e un uomo camminavano abbracciati, poi s’infilarono nell’hotel con l’insegna bianca, in fondo alla strada. Le cose che fai passano e se ne vanno senza che tu te ne accorga. Ma nessuno di noi è in grado di sapere quello che uno farà, e neanche dove andrà a finire. Il più delle volte ci passiamo sopra a questo mondo, quasi inosservati. Capita pure che un giorno ci si svegli e ci si senta traditi, e non si riesca più a trovare le parole. Senza rendersene conto senza lotta, ci consegniamo agli eventi. Rabbrividendo. Tornai a casa e restai per un pezzo alzato, guardando fuori dalla finestra. Dopo mi distesi sul letto con la radio accesa, ascoltando il notiziario della notte. In strada non c’era quasi più nessuno, passava solo qualche macchina. L’ho amata. Poi all’improvviso tutto è peggiorato ed è andata via. La vita può cambiare così velocemente e in un modo repentino, che in un primo tempo non ci fai neanche caso, tanto si è distratti dalla casualità dell’accaduto. In seguito ci sente storditi, e si finisce a testa in giù. Dentro una ballata rock scura e dolente, come quelle di  Lee Fardon.


Era sbucato all’improvviso dalle nebbie londinesi quel ragazzo con il cuore pieno zeppo di sogni e canzoni, che trovavano ispirazione in Dylan ,Van Morrison, e Lou Reed. Il suo disco Stories Of Adventure uscito nel 1981, aveva suscitato l’attenzione di tutti quelli che si erano ritrovati per strada traballanti, è fuori moda. Gente che non aveva ancora acquisito la forza della saggezza per fermarsi di botto. In quei solchi c’era quella smania di andare a vedere i colori della notte, insieme a tutti quelli che si sentivano con le spalle al muro. Canzoni che sono come una cicatrice ruvida. Che hanno il colore bluastro del livido di una brutta botta. Pochi accordi per ricamare un sound roco e struggente. La voce profonda di un uomo che guarda la vita andare a rotoli, ma che cerca anche un modo per salvarsi. E ti batte direttamente sul cuore. Questo disco fragile e forte nello stesso tempo, racconta la sua rabbia, e la nostra malinconia. Lei mi aveva detto: Non era così che mi aspettavo che andasse. Mi spiace ma non posso più stare con te. Udii la porta sbattere nient’altro. Alle volte le cose finiscono tutte in una volta.


I miei genitori non divorziarono, ma era come se lo avessero fatto. Mia madre non faceva niente per non far trasparire l’odio che covava per mio padre. Ma il più delle volte s’ignoravano. Era stata una vita di sopportazione da parte di tutti che aveva prodotto un accumulo di rancori, e di disprezzo. Perché lo avevano fatto? Me lo sono chiesto un mucchio di volte. Ma non ho mai trovato una risposta. La mattina presto di buon ora, ero seduto in cucina. Avevo fatto il caffè e con una tazza fumante in mano, me ne stavo a scrutare i pensieri. Al di là dei proclami del governo e di quello sparacazzate, c’era molta gente a spasso e le cose peggioravano di giorno in giorno. Non avendo niente da fare dovevo solo trovare un modo per passare la giornata. Come molti cercavo di tirare avanti, ma alle volte mi frullavano cattivi pensieri. Per distogliermi accesi il computer e ascoltai una playlist musicale, che mi ero fatto qualche tempo prima. La prima canzone era The Have Nots degli X. 

Questa è la gara che è in atto mentre tu giochi. Come ci si sente ad avere la propria bottiglia di whisky accanto al bancone. Come ci si sente a giocare a carte con le cameriere, mentre loro lavorano.


Quella mattina, andai a trovare la moglie del mio amico Massi. Lo avevano arrestato dopo che una notte aveva forzato una finestra ed era entrato in un supermercato. Aveva arraffato un po’ di alimenti riponendoli dentro una busta di plastica. Aveva preso solo quello che gli serviva, niente di più. Tremava come una foglia e non si era nemmeno accorto, che l’allarme era scattato. Così ad aspettarlo fuori c’era già la polizia. Il giudice lo aveva condannato ad un anno di carcere senza concedergli alcuna attenuante. La ditta per cui lavoravamo, aveva licenziato ventitré membri del personale tra cui noi. Eravamo disoccupati da sei mesi. Ti mandano via e ti lasciano solo in un mondo impassibile. Ti umiliano e fanno si che perdi anche quel barlume di dignità, che prima t’illuminava la vita. La giustizia deve fare il suo corso mi disse il giorno del processo il Pubblico Ministero. Che se ne vada al diavolo. Non c’è mai stata giustizia per i poveri. Mai. Concussion di Matthew Ryan è un disco che parla di vita reale. E' un vuoto grande quanto un pugno, non più grande del cuore. E’ il resoconto di un uomo in fuga dalla legge, un piccolo sconosciuto Nebraska. Hanno toni scuri e violenti queste canzoni senza squarci di luce, ma cosi' profonde e liriche. che t’inchiodano al muro lasciandoti senza respiro. E’ il pulsare delle cose, il loro senso preciso. È un sogno per quello che non verrà mai. Ma è anche il conto alla rovescia di una vita ordinaria. Chi le canta, possiede una voce che è come carta vetrata, che ti ferisce come una scarica elettrica nelle orecchie. La pioggia cominciò a cadere, riempiendo l’aria di un odore stantio inzuppando d’acqua la città assetata. 


Il bar era abbastanza spazioso appoggiai i gomiti sul bancone, e ordinai del gin con ghiaccio. Il barista finì di lavare frettolosamente i bicchieri, che sistemò in fila su un canovaccio si asciugò le mani, e mi versò da bere. Abbassai gli occhi e sorseggiai il contenuto. Da un po’ di tempo mi tremavano le mani, era il mio stato nervoso che era molto scosso. Me lo aveva detto il medico della mutua che mi ordinò dei psicofarmaci, che però non prendevo. Lo stress mi stava sgretolando. Faccia pure pensai tanto di qualcosa si deve pur morire. Quattro persone si sedettero a un tavolino rotondo in fondo alla sala, e presero a parlare ad alta voce. La mia abitazione era un edificio a tre piani col tetto piatto, in un quartiere popolare. Una casa piccola insignificante. Dietro c’era un campetto di calcio in terra battuta. I ragazzini della zona ci passavano il pomeriggio giocando al pallone. Ripensai a Nella, la moglie di Massi, mentre rientravo. Era stata contenta di vedermi l’aveva apprezzata la mia visita. Non ci andavo spesso da lei mi pareva d’importunarla, e poi non volevo che i suoi vicini pensassero chissà cosa e mettessero in giro voci strane, che avrebbero ferito un mucchio di persone. Lavorava ad ore come donna delle pulizie. Non era molto quello che ricavava, ma quanto meno riusciva a comprarsi da mangiare.


Le case del vicinato erano tutte al buio. Mi sembrò di poter sentire i suoi passi, e anche altri suoni che riempivano la stanza. Ma il suo calore era una cosa che non potevo cogliere più. Accesi una sigaretta, e soffiai il fumo contro il vetro della finestra. Perché era successo? Non lo sapevo, e non lo avrei mai saputo. Avevo pensato tante cose. Ma l’amore finisce. Bisogna solo farsene una ragione. Fuori in strada i rumori della notte stavano tramando qualcosa di sospetto. Ma io voglio solo un indizio. Perche quando la città cade nella notte, prima dell’oscurità c'è un istante di luce. E tutto allora sembra chiaro e l'altro lato, sembra così vicino. (City Drops Into The Night-Jim Carroll) Dei ragazzi in mezzo alla strada stavano spacciando eroina. Si atteggiavano da veri duri con i loro cappelli da baseball con la visiera girata all'indietro, la canottiera bianca, e i jeans, che lasciavano intravedere i boxer. Il grassone ubriaco faceva il gesto della pistola con la mano, puntandola su chiunque passasse. Una macchina nera transitò a velocità ridotta, girò a destra e sparì. A casa di Jim il televisore era appoggiato a terra, e una sigaretta si stava consumando da sola nel posacenere. Regnava il cattivo odore in quell’appartamento in cui mancava l’aria. Il fetore era come quello di un frigorifero sporco. Le tende e le persiane erano abbassate, e  tutto era avvolto nell’oscurità. Lui stava riverso sul letto strafatto, con il laccio emostatico ancora legato al braccio.

Ciò che ti trovi tra le mani è soltanto un altra iniezione, e ce ne sarà sempre un’altra, con soltanto un po’ meno roba della prossima. (City Drops Into The Night- Jim Carroll)


Tutti i suoi amici erano morti, ed era davvero troppo tardi per innamorarsi. Ma anche troppo presto per morire. Avrebbe voluto un mondo senza gravità per volare e vedere finalmente le stelle, e gli angeli dormire. Era nato in una pozzanghera mentre sua madre era in piedi, lasciandogli aperta solo la strada per la tomba. Quando vide il mondo era peggio che incazzato. Poi decise di purificare la sua anima, perché era un ragazzo cattolico. Ma c’era sempre qualcuno che lo aspettava per rubargli la luce dagli occhi. Pur precipitando ha continuato a cantare. Ma  quando gli hanno strappato il vento dall’anima, la città è caduta nella notte. Massi era innamorato di Nella. Ed io lo ero stato di mia moglie. Sentì la nausea salirmi e quella paura del vuoto, si prese tutto di me. Mi diceva che  era una vita da cani quella. Non potevo darle torto. Adesso un po’ d’alcool mi avrebbe migliorato le cose, la loro visuale. Ero stato forse un egoista ma non ero mai stato capace di mentire, rubare, imbrogliare. Le luci del quartiere stranamente risplendevano. Sembravo uno spettro dentro quella casa. Ma era per tutte le cose che amavo che sarei rimasto lì. In attesa della luce del giorno.


Bartolo Federico 


mercoledì 10 settembre 2014

Pazzo Vento



Me ne stavo rintanato sotto una striscia di pioggia, e anche se non c’erano porte che m’impedivano di scappare, mi sentivo come fossi in una prigione. In strada non c’era nessuno tranne me, e qualche cane puzzolente. Se gironzoli troppo ti perdi e non si arriva da nessuna parte. La tristezza e l’indifferenza poi fanno il resto. Stavo cercando di rimettermi a posto lo spirito, ma quel senso di smarrimento con cui mi ero alzato al mattino faticava a sparire. Come invece avevano fatto in fretta e furia, un mucchio di altre cose. Però! le cose, quando le ritroviamo sembrano diverse. Anche se vecchie e raggrinzite, hanno la forza di parlarci e di fondersi nuovamente dentro di noi. L’ascolto di They Are Not Like Us una canzone dei The Walkabouts mi aveva lasciato inebetito. Come quel senso di paura che ti assale quando ti guardi alle spalle, e vedi i tuoi errori muti osservarti di sbieco quasi fossero spine d’odio. E’ dura ammetterlo che qualcosa è finito, ma non s’invecchia mai con entusiasmo. Lo senti che le speranze, gli ardori, ed anche le menzogne, non sono più così eccitanti come un tempo. Allora si finisce per nascondere tutto in qualche luogo imprecisato di noi stessi.


Da piccolo l’unica cosa che si poteva vedere nella tivù in bianco e nero, erano i film western. Terre soleggiate, disabitate, piene di polvere e sogni bruciati su percorsi tracciati tra la roccia e il fossato, dove si inseguivano uomini duri e testardi, giocatori d’azzardo, sceriffi e cowboy, indiani e banditi. Gente malinconica e struggente. Mi sono sempre piaciuti i banditi anche quelli che hanno attraversato il rock’n’roll  contromano. Personaggi schivi, riottosi, che non si sono mai allineati. Romantici nella loro fuga su quelle strade solitarie, assomigliano tanto a quei fuorilegge che imperversavano nel vecchio West che avvolti in quei mantelli di polvere, cavalcavano la pianura sconfinata e silenziosa. Con quei volti tirati che raccontavano il loro desolante sconforto, e che nonostante tutto trasudavano di passione e amore. Li ho ritrovati anni dopo quei banditi nelle canzoni di Joe Ely uno a cui anche i Clash, hanno dato il loro benvenuto facendogli fare da apripista ai loro concerti. Musta Notta Gotta Lotta e uscito nel 1981, ed io l’ho scovato per caso tutto impolverato e unto di caffè, mentre se ne stava appoggiato sul frigorifero di casa di un mio amico, a cui lo avevano regalato e che lui aveva bellamente ignorato. La barattai con un disco dei Police quella mezz’ora circa di rock’n’roll spettacolare e intensa, degna di quel pazzo di Jerry Lee Lewis. Un disco da portarsi in fondo alla notte in mezzo al diluvio, tanto t’infiamma il cuore, ovunque tu sia. “Un altro giro” avverte il croupier ma i giocatori d’azzardo seduti attorno a quel tavolo sembrano annoiati e stanchi. Un altro giro per Dallas urlano invece quei ragazzi che sono arrivati con il treno della sera, con in tasca solo un dollaro e un centesimo. Ai loro occhi quella città sconosciuta, pare come una donna che cammina e brucia di passione. La vita è davvero troppo corta per riuscire a fare tutto quello che vorremmo.



Quando si è giovani si ha sempre fretta. Ha questo di speciale la giovinezza. Ogni luogo è da scoprire, ogni strada e da percorrere, non hai bisogno di recitare è tutto una prima. Mi porterò da bere e qualcosa da mangiare. Bisogna che continui la strada da solo, nella notte. Me ne andrò dove non c’è nulla, solo polvere e buche. Su quelle vecchie strade che corrono in zone proibite, o su tratti infernali. Ho con me un vecchio disco di Jerry Jeff Walker uno che ha ingurgitato birra ghiacciata a secchiate per sciacquarsi la bocca dalla polvere. Ho serrato la mascella e mi sono fiondato nel buio. Con cuore impavido ho attraversato strade piene di sassi,  e come in uno di quei film in bianco e nero, mi sono messo anche il cappello da cowboy. Quello che tenevo appoggiato su quella bottiglia di bourbon, ormai vuota. Ho riconosciuto da subito quella linea blu, era la mia strada da sempre. Ed anche quelle solitudini che ho sbirciato nella penombra, erano ancora piene di dignità. Certo era soltanto una replica ma mi sono reso conto che avevo ancora voglia di andare a sentire, e di stare sulla corda delle cose. Nel bel mezzo della notte ho cantato una vecchia canzone, l’ho cantata come fosse un urlo punk. Mi piacciono ancora questi posti dove tutto sembra sparso lungo il tragitto. Mentre camminavo Lone Wolf l’ho suonata a più riprese, e la mia solitudine non mi è sembrata poi così spietata. Il mio cuore come un vecchio orgoglioso figlio di puttana, non si dava ancora per vinto.


Frosty breath on the hillside See that sun goin' down Tracks in the snow to the city below Lone wolf now he's coming to town, who a Lone wolf, oh, he's lonesome And looking tonight Whoa, lone wolf, better lock up Your women and hide sneakin' down the back streets of town He lives on the lam Takes what he can, not giving a damn You know how he is, he just do what he can.(Lone Wolf-Lee Clayton)


Andare ancora per quelle strade non era stata una stupidaggine come mi era sembrata che fosse di primo acchito. Certo all’inizio ho avuto paura, quella paura che ti assale quando ci sono troppe cose da capire, ma non farlo sarebbe stata un’ingiustizia. Alle volte ci tormentiamo senza motivo. Senza sapere che tutto quello che non riusciamo a confessare, è arte. Provavo però una bella sensazione a rimettermi in gioco, mi sentivo come quei giovani bluesman che risalivano con i treni dal sud verso Chicago. Come loro ero alla ricerca della mia terra promessa. Time sure flies when you're having fun your mind's all made up now and it's all said and done flying down the four lane with the morning sun in your eyes ( Crazy Wind -J Mcmurtry) La stanchezza mi stava sovrastando, ma bastò il fischio di un treno per farmi spingere l'accelleratore a rotta di collo. Non sapevo dove ero diretto ma mi parve di essere tornato nuovamente un vagabondo solitario, un anima perduta nel grande nulla. Un motociclista mi superò proprio vicino ad un motel infarinato di polvere, nell’esatto momento in cui James Mcmurtry stava cantando Angeline. Ripensai a quando risalivo lentamente il suo corpo con la mano, e poi la toccavo dentro le sue cosce piegate. Il calore ci danzava intorno e tremavamo nel buio. Too Long In The Wasteland è uscito nel 1989 ed è l’album di debutto di James Mcmurtry, prodotto da John Cougar Mellencamp. È ancora emozionante sentire quelle canzoni che in tutti questi anni non hanno perso un grammo della loro bellezza. E' sentirsi nuovamente vivi come un brivido che ti danza lungo il corpo, e t’incanta l’esistenza. Un disco può entrarti nel cuore per mille motivi. Too Long In The Wasteland è come una carta stradale, una mappa del cuore, che ti guida e ti spinge ad andare avanti per molte miglia, anche se hai dormito poco e sei a stomaco vuoto da molte ore. I sogni raggomitolatisi da qualche parte adesso sembrano avere gambe e fiato, e anche una certa frenesia. Sono diventati persino rabbiosi in questa fuga solitaria. Bisogna non tradirli però, cogliere l’occasione e godersi la notte fino in fondo.



Alle volte serve solo aprire quella finestra chiusa da tempo. Certo molte cose ci feriranno, e ci schianteranno a terra sanguinanti come  tori al macello. E' per questo che non tutti hanno voglia di andare a vedere. Ma ne vale la pena quando il baule è pieno di ricordi, che stanno per esplodere.  Si diventa noiosi in un colpo solo. Ed è la cosa più triste che può accaderci. È cosi' che tutto finisce. Quando la noia ci mangia il cervello, il nostro destino sembra compiersi. Tornare da quelle parti era come stare su un lettino dello psicanalista. Riuscivo a capire nuovamente le cose, o almeno credevo che fosse così. Ed era bello non essere confessato da nessuno, ma solo da se stessi. Hollywood Town Hall dei The Jayhawks penetra proprio in quei momenti in cui zoppichi, quando sembra che stai per cadere per sempre. Non bisogna mai stare troppo fermi, inevitabilmente le cose cominciano a deteriorarsi fin quando non le sopporti più. Ed allora getti via tutto. Il buono e il cattivo. Ma la strada non finisce mai di stupirti, basta rispolverare quei desideri e la nostalgia ti riprende con se. Asfalto nero e lucido, vecchie insegne, luci al neon, fallimenti, e angeli che corrono nel silenzio desolato. Con uno strano sorriso dipinto sul volto.


I was waiting for the sun. Then I walked on home alone. What I didn't know. Was he was waiting for you to fall. So I never made amends. For the sake of no one else. For the simple reason. That he was waiting for you to fall.(Waiting For The Sun- The Jayhawks) 


Bartolo Federico

sabato 6 settembre 2014

Sulle Strade Secondarie (prigioniero del blues)



Guidare mi era sempre piaciuto, specie quando non avevo mete da raggiungere e potevo tenere gli occhi incollati sull’asfalto e naufragare dentro le mie rovine interiori. Ma era anche un modo per staccarmi da me stesso e da quello che mi circondava innalzando le mie barriere di protezione. In quel pomeriggio dai colori opachi provavo quella sensazione. Guidavo con la radio spenta, accompagnato dal rumore della pioggia che era arrivata fredda e inaspettata picchiando con foga sul parabrezza dell’auto. Facevo strada e mi chiedevo perché mai le cose che mi riguardavano avessero preso da molto tempo ormai quella brutta piega. Certo non ero mai stato un tipo accomodante, di quelli che si mettono seduti in silenzio dopo un buffetto sulla guancia. No, non  ero mai stato quel genere di persona. Anzi, a guardarmi col senno del poi, ero stato anche fin troppo ribelle ma anche un ingenuo. Tanto che, per non impazzire del tutto, avevo dovuto saltare la staccionata infilandomi dritto dritto su quelle strade secondarie, intrise dalla polvere e battute da un venticello muto e solitario. Quelle strade ignorate, dimenticate dai più. Troppo scomode per percorrerle, se sei un turista, con quell’asfalto abraso dal tempo ma proprio per questo suggestive e struggenti. Quelle strade che ti restano incollate al cuore, fatte apposta per tutti quei pazzi allo stato brado che in questo mondo si sentono soffocare. 


La stanza dove alloggiavo aveva i muri screpolati e grandi chiazze di umidità negli angoli. Le tende di poliestere una volta bianche erano ingiallite e quasi trasparenti. Il copriletto di colore beige con grandi fiori rossi era una vera sciccheria che neanche a girare in un mercatino dell’usato  lo avresti trovato più. Un tavolinetto da picnic, una sedia pieghevole e un piccolo televisore in bianco e nero che non funzionava facevano l’arredamento. Una stanza senza troppi fronzoli, a modo suo anche rivoluzionaria,  nella sua semplicità. Una stanza che aveva visto alloggiare un’umanità di diseredati, di persone che dalla vita non pretendevano più nulla se non di starsene in santa pace con se stessi. Uomini soli che cercavano il modo per non finire omologati e di conseguenza anche di esistere.


Tutto il tuo denaro riuscirà a comprare il perdono, a tenerti lontano dalla malattia o dal freddo? Tutto il tuo denaro ti proteggerà dalla follia? Ti terrà lontano dalla tristezza quando sei giù in fondo al buco?(Down In The Hole - Rolling Stones)


  In quella camera con le pareti disegnate, scarabocchiate, imbrattate di frasi celebri, ma anche di espressioni senza senso apparente, respiravo le storie di quegli uomini che si erano dispersi nell’immaginario di un mondo troppo vasto, ma anche troppo crudele. Uomini bruciatisi in fretta, sovrastati dalla malinconia dei loro stessi sogni. Quella solitudine profonda che regnava in quelle quattro mura metteva a nudo quelle anime che ci potevo quasi parlare. Mi addormentai senza mangiare con la faccia rivolta alla finestra mentre gocce di pioggia entravano dall’infisso bagnandomi il viso. L’indomani un sole sparato filtrò dalla persiana svegliandomi. E quando schiusi gli occhi lessi quella frase che la sera nella penombra  mi era sfuggita. Qualcuno l’aveva scritta con una biro nera e con mano tremante ”ogni obbedienza è un’abdicazione”(Bakunin). Mi alzai dal letto di scatto ché ero pronto ad andare. Alle volte bisogna accontentarsi e prendere quel che capita per tirare avanti.


Uscito dal paese, proseguii diritto per un paio di chilometri, poi svoltai a destra e subito dopo a sinistra. Seguendo le indicazioni che un uomo fermo sul ciglio della strada mi aveva dato, mi ritrovai lungo quella via polverosa, stretta e tortuosa. Una stradina piena di buche e avvallamenti, affiancata da un ruscello ormai in secca. Una stradina davvero solitaria. Fu allora che ripensai a quella frase che avevo letto sulla parete della stanza, quella frase di Bakunin l’anarchico, che avevo scritto anch’io da ragazzino cerchiando una A sulla pagina interna della mia copia di On The Road. E non so spiegare perché mi venne in mente il villaggio dov’ero cresciuto io, mio nonno Sebastiano e tutti i miei amici del quartiere. Mi ricordai di quel senso del vicinato che avevano le nostre famiglie, del sentirci una comunità che ci rendeva davvero la vita speciale. La nostalgia arrivò e stringò il cielo limpido proprio dove due uccelli stavano svolazzavano e, intanto che riaprivo la pellicola dei ricordi sui visi di quelle persone, accesi la radio. 


Ebbene, sono così stanco di piangere. Ma sono di nuovo fuori in strada. Sono di nuovo in strada. Ebbene, sono così stanco di piangere. Ma sono di nuovo fuori in strada. Sono di nuovo in strada.(On The Road Again - Canned Heat)


Ascoltai un giornale radio e, mio malgrado, le previsioni del tempo. Dopo presi a seguire un dibattito politico sullo stallo governativo che si era verificato in seguito alle votazioni politiche. Ma tutto quello sbattimento mi suonava alquanto anomalo. Mio nonno e mio padre erano di pasta antica e da loro avevo appreso che una volta che stringi un patto, caschi il mondo, lo devi onorare. Un paese dalla memoria corta, il nostro. Tutto è concesso ai signori del potere e, abituati come siamo al vassallaggio, non ci si scandalizza dei loro misfatti. Il dibattito si fece sempre più rovente e basato sul nulla. Eravamo davvero un paese diviso, lacerato nel profondo, un paese di tifosi che sapevano farsi egregiamente del male, ma la partita che si giocava riguardava un’orda di persone senza lavoro e senza alcuna protezione sociale. Gente lasciata sola al proprio destino che, insieme ad un marea di giovani, era la vittima sacrificale di quelle politiche, orrende e disumane, che i belzebù europei avevano dettato e che i politici senza scrupoli avevano messo in vigore. Ma adesso, come non era mai accaduto prima, una massa di disperati premeva sull’uscio del grande portone e questa volta si percepiva che qualcosa sarebbe accaduto. In un modo o nell’altro.


 E’ indispensabile che la gente sia ispirata ad ideali universali,che essi abbiano una generale idea dei loro diritti e una profonda appassionata fede nella validità di questi diritti. Quando quest’idea e questa fede popolare si uniscono alla miseria che porta alla disperazione,allora la Rivoluzione Sociale è vicina ed inevitabile e nessuna forza al mondo può fermarla.(Michail Bakunin)


Guidai per ore con la mente impegnata a mettere insieme i tasselli degli ultimi avvenimenti, accompagnato da qualche nuvola vagabonda e dalla musica di uno strepitoso John Mayall dell’album The Turning Point. Un disco senza batteria ridotto strumentalmente ai minimi termini e registrato al Fillmore di New York il 12 luglio 1969, insieme a Jon Mark, chitarra acustica, Steve Thompson, basso, e Johnny Almond, sax e flauto. Come un vero beatnik, Mayall da vita ad un set formidabile, suonando un blues fantasioso e pieno d’anima, mescolando jazz, strada e poesia che il tempo non ha corroso. Quel sentiero ad un tratto prese a salire. Il percorso era pieno di gobbe e curve a gomito. Nello specchietto retrovisore cumuli di polvere si alzavano al mio passaggio. 


Cosa hanno fatto loro per la terra? Cosa hanno fatto per la nostra sorella sempre giusta? Devastata, saccheggiata, strappata e colpita. Bloccata con pugnali dalla parte dove nasce il sole e bloccata da recinti e trascinata nella desolazione. (When The Music Is Over - The Doors)


Con Sal ci andavamo spesso sul monte Navajo. Così avevamo battezzato quel luogo da dove potevamo osservare dall’alto la città. Da quel punto sembrava che potessimo afferrarla e stringerla nel palmo della mano per poi farla sparire. Ci inerpicavamo in sella alla moto di suo fratello che utilizzavamo di nascosto quando lui era a lavoro e ci sentivamo liberi, con il vento che ci tagliava in due il viso, accelerando per quei tornanti e urlando con quanto fiato avevamo in gola: We want the world and we want it ..Now Now Now! Era il nostro urlo di liberazione intanto che bruciavamo e la pazzia iniziava a serpeggiare dentro di noi mentre ci “aprivamo come ragni tra le stelle (Jack Kerouac).


In quale inferno puoi andare lontano dalle cose che conosci, lontano dalle distese di cemento che continuano a serpeggiare mille miglia al giorno? Guardati ancora una volta alle spalle, dedica ciò alla memoria e ricorda: che non ti manchi questo deserto, questo luogo tremendo. Quando te ne vai lascia il cuore fuori dalle maniche. (Motherland - Natalie Merchant). 


Io e Lucilla eravamo andati a vivere in un monolocale che avevamo affittato nella zona nord della città dove i prezzi erano più abbordabili per due squattrinati come noi. Entrambi eravamo studenti alla facoltà di scienze politiche e per mantenerci quell’alcova ci arrangiavamo con dei lavoretti nei fine settimana o dando lezioni private ad ore. Ma era pur vero che la madre di Lucilla veniva in nostro aiuto puntualmente ogni fine mese. I primi tempi le cose tra di noi andarono a gonfie vele, addirittura pensavo fosse la donna della mia vita. Poi, con il passare dei giorni, i nostri rapporti si incrinarono e divennero sempre più difficoltosi, a tal punto che quando ci si parlava non ci ascoltavamo. Una sera al mio rientro, trovai la tavola apparecchiata con la cena già pronta e un solo posto. Mi tolsi il giubbino e lo appoggiai sulla sedia, poi andai nella camera da letto. Lei era  sotto le coperte girata di fianco e non si voltò. Le chiesi se stava bene. Di rimando mi bofonchiò qualcosa del tipo che era tutto a posto.  Tornai in cucina e cenai. Mangiai molto lentamente e bevvi la bottiglia di vino per intero. Poi fumai una sigaretta. Mi guardai intorno e mi sentii un estraneo in quella casa. Ero dentro un mondo che non era il mio che non mi apparteneva più. Cercai un appiglio a cui aggrapparmi, non  trovai nulla. Davvero, non c’era niente che mi appartenesse in quel posto. Continuai a sbandare e sentii la testa girarmi, ma fu solo per un attimo. Mi accesi un’altra sigaretta. Ad un tratto lei apparve sull’uscio, mi guardò con gli occhi gonfi di lacrime e la faccia stravolta e disse “ci sono mille ragioni per odiare uno come te, ma anche per amarti. Ancora non ho ben capito quale delle due sovrasta l’altra”. Girò le spalle e ritornò a letto. Fu tutto. Non le risposi, non dissi nulla. Racimolai le mie cose ed uscii da quell’appartamento senza fare rumore. Senza farmi più sentire.


Correvamo verso i sobborghi stringendo tra i denti la fede, dormivamo sulla spiaggia, in quella vecchia casa abbandonata, distrutti dal caldo, e ci nascondevamo nelle strade secondarie. Con un amore così difficile e pieno di sconfitte. Correvamo nella notte per salvare la vita, per quelle strade secondarie (Backstreets - Bruce Springsteen).


Mi sistemai a un tavolino che dava sulla strada ordinai un toast e un birra grande. Tirai fuori un libro dalla sacca e lessi qualche riga. Lo riposi quasi subito perché non riuscivo a concentrarmi. Bevvi altre due birre, pagai il conto ed andai via. Quali tracce di me stavo seguendo, mi chiesi mentre raggiungevo l’automobile.  Perché tutto era sempre così complicato?  Era proprio vero, per alcuni la vita non cambia mai di foglio. Quando ripartii, sgommando, erano le sei del pomeriggio e mi sembrò di essere come un ladro del mio tempo. Accesi la radio e la slide di Johnny Shines, un perdente pieno di dignità, mi colpì come un pugno nello stomaco. La sua voce tonante chiamò il buio e la disperazione, e mi ritrovai all’incrocio tra due strade, solitario e mesto. Come sempre prigioniero del blues.(Tratto da: Viaggiatori Nella Notte)


 

Bartolo Federico