lunedì 14 gennaio 2019

Nel Mio Quartiere

Ero lì che ascoltavo e intanto speravo, aspettavo, che so, un treno, un bacio, una cattiveria. Attendevo che qualcuno mi venisse a prendere. Ma non accadeva mai nulla. Era tutto grigio e monotono sopra la mia vita. Mi alzai dalla poltroncina in similpelle marrone e chiusi la porta della stanza. Volevo stordirmi di parole e musica. Seduto sull’immaginaria riva di un fiume, osservavo quelle piccole onde che il vento formava sul pelo dell’acqua. Erano incessanti come le passioni. Il disco continuava a suonare e l’armonica di Racing in The Street lacerava le mie barriere. Allora non avevo fantasmi intorno a me. C’erano invece promesse, fiori colti in un giardinetto e ideali. Vero, avevano tutti l’aria un po’ triste, ma mi tenevano in piedi. “Oh Thunder road, Oh Thunder road…” Mia madre mi sta chiamando per la cena. Aspetto che il solo di chitarra finisca e apro la porta. Solo tre passi e sono in cucina, che è piccola, anzi piccolissima. C’è puzza di aglio soffritto. Ma ci sto bene li. Lei porta una vestaglietta blu smanicata a stampe di fiori provenzali. Sta ascoltando alla radio Barry White. Mi guarda e mi sorride, con quell’istinto tutto femminile di rincuorare. La persiana è aperta, il trambusto nel cortile è incessante. Una sera, questa, di molto tempo fa. Il buio ha invaso tutto. Mi affaccio alla finestra. L’edera si è arrampicata sul colatoio ormai arrugginito. L’odore del gelsomino è inebriante. Un bambino piange. Qualcuno urla di salire. E’ il mio passato che smonta dai ricordi e se ne va via tutto solo. Il cortile adesso è vuoto… e anche la cuccia del cane. Ascolto, aspetto, spero… Gli uomini sono rientrati, le famiglie si sono rincollate. Mangiamo alla buona e parliamo di tutto. Non so perché, ma nel quartiere c’è aria di libertà.
“Sarò il tuo specchio rifletterò quello che sei nel caso non lo sapessi sarò il vento la pioggia e il tramonto la luce alla tua porta per mostrarti che sei a casa”. (I’ll be your mirror).
E’ meglio non farsi illusioni, ognuno di noi cerca di scaricare le proprie pene su gli altri. Quelle dei Velvet Underground mi arrivarono tramite un pacco postale speditomi dai magazzini Nannucci di Bologna. Era la prima volta che compravo un disco per corrispondenza. “The Velvet Underground & Nico”, si rivelò essere una raccolta dei loro primi fondamentali lavori. Nella mia stanzetta qualche volta faceva freddo e mi sentivo come un passeggero rinchiuso nella stiva di una nave. Ci passavo un sacco di tempo lì dentro, a fare progetti e ad ascoltare le cose che mi arrivavano dal mondo. Con le canzoni dei Velvet facevamo lo stesso viaggio. Le sentii entrare in quella camera come un frammento di luce.
Be’, comincio a vedere la luce voglio dirvelo, oooh ora comincio a vedere la luce. Ecco una cosa più dolce ho usato le mie mani come denti per arruffare i capelli della notte be’, comincio a vedere la luce.
(Beginning To See The Light).
Dalle mie parti, durante gli anni settanta, si stava rilassati. Le famiglie affacciate sui balconcini di casa bevevano birra senza schiuma, e a me mi pareva di essere dentro una grande festa. La gente si divertiva con poco. Bastavano, per dire, dei piccoli fuochi d’artificio o una battuta grassa, per generare buonumore… e c’era musica dappertutto. Le massaie cantavano mentre facevano le pulizie, gli operai dei cantieri edili, intenti a lavorare sui pontili, intonavano veri e propri concerti di musica popolare… e le radio stavano sempre accese a sputare canzoni. Gli adulti, a quel tempo, ti istruivano a resistere ai desideri, ai piaceri della vita. Soprattutto a quelli lussuriosi. Ti impartivano le regole, dicendoti che era per forgiarti il carattere. “Perché tutto si paga, prima o poi” dicevano. Ma mia madre non fece mai quel giochino con me. Mi lasciò libero di fare a modo mio… e il sesso, a differenza di molti del quartiere, non mi sembrò mai una cosa sporca. Nella mia stanza seguitavo a ballare nella semioscurità, imparando anche a camminare, intanto che il velluto sotterraneo cantava lo sfacelo d’esistere e vivere. Argo, il mio trovatello, ha schizzato un po’ d’urina sul muro. I miei sogni si stanno sparpagliando nel cielo a conversare con le stelle. Tanto per non sbagliare, i critici baciapile etichettarono i Velvet Underground come semplice spazzatura. Succede sempre di scagliarsi con cattiveria contro chi destabilizza le nostre presunte certezze. Avvenne anche con il punk. Quei loschi figuri avevano risvegliato come un vento cattivo gli spettri della violenza, dell’eroina e della morte. La loro musica era la conseguenza di quell’orrore a non finire e delle menzogne gelide. Seducenti, nevrastenici, sobillatori, a tratti spigolosissimi, cantavano di fantasmi stralunati, che scivolavano nell’ignoto del mondo, deambulando in situazioni malsane e depravate. Un’umanità senza colore, perdutamente persa nel buio. Canzoni alle volte così pruriginose da sembrare un sex shop ambulante. D’altronde, il loro nome fu preso pari pari da una novella pornografica. Con loro, accadde anche che uno strumento prettamente classico come l’arpa elettrica divenne il marchio di fabbrica di una band di rock’n’roll. Si sentivano a loro agio vestiti di cuoio nero con stivaletto e tacco a spillo.
“Candy è arrivata dall’isola nella stanza sul retro era carina con tutti Ma non ha mai perso la testa neanche quando faceva pompini e ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio e le ragazze di colore fanno Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doodoo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo”. (Walk On The Wild Side – Lou Reed)
Il loro primo album, “The Velvet Underground & Nico”, è un disco epocale che possiede un alchimia sonora unica e mai eguagliata. In queste canzoni non c’è posto per il sole, ma solo per la notte delle strade di New York. Luoghi dove si consumano storie di alienazione e solitudine, di assassini e prostitute. Di gente senza fortuna che non ha nulla a cui aggrapparsi se non la propria disperazione.
“Severin, Severin, parla sottovoce Severin, inginocchiati, assaggia la frusta, in amore non si risparmia, assaggia la frusta, ora
sanguina per me”. (Venus in Furs).
Lou Reed e soci si fanno emissari di chi vive con l’inferno sotto le maniche della camicia. Spiriti lividi con ventisei dollari in mano, che aspettano il loro uomo all’altezza di Lexington. Che corrono, corrono, corrono, sul bordo del mondo anche se di fiato non ne hanno più e, su quei viali intossicati, estirpate dalle loro tombe s’incrociano anche femmine fatali e Veneri in pelliccia, adornate con coroncine di perle a buon mercato e stivaletti coi bottoni. Sunday Morning apre il disco ed è una ballata dolce e malinconica. Da struggimento totale. “Lost Generation”, l’album di Elliott Murphy che uscì nel 1975, doveva essere prodotto da Lou Reed che lo aveva segnalato alla RCA, dopo che Elliott aveva scritto le note di copertina del disco “1969: Velvet Underground Live with Lou Reed”… ma in quei giorni Lou Reed era impegnato in tour in Canada, per cui la casa discografica lo mandò a Los Angeles a lavorare con Paul Rostchild, il produttore dei Doors. Per un ragazzo come Elliott che voleva diventare una rock’n’roll star e che era stato additato come il nuovo Dylan, dopo il folgorante e applaudito debutto dell’album “Aquashow” (1973), c’era di che sperare. In quelle registrazioni era presente come session man anche Jim Gordon, batterista di Derek And The Dominos, coautore di Layla. “Lost Generation” del 1975, pur essendo un buon disco di rock’n’roll con episodi di rilievo come Hollywood, Manhattan Rock e la stesa title track, non riscuote lo sperato successo. Senza pensarci troppo la casa discografica mette Elliot alla porta. Una cosa che gli accadrà spesso nella sua lunga carriera. Però, e questo rimane un dato di fatto, farsi notare discograficamente nel 1975 non era una cosa semplice. In quell’anno di grazia furono pubblicati con copertina di cartone rigido e vinile rigorosamente nero: “Born To Run” di Bruce Springsteen, “Horses” di Patti Smith, “Zuma” e “Tonight’s The Night” di Neil Young, “Fandango” degli ZZ Top, “Blood On The Tracks” di Bob Dylan, “Bob Marley & the Wailers Live”, Who, “The Who By Numbers”, Allman Brothers Band, “Win, Lose Or Draw”, Aerosmith, “Toys In The Attic”, i Blue Oyster Cult del magnifico “On Your Feet Or On Your Knees”, “Leonard Cohen Greatest Hits”, i Rush di “Fly By Night” e “Caress Of Steel”. Il buon Elliott Murphy, che è un vero stacanovista del rock, viene ingaggiato dalla Columbia, la stessa casa discografica di Bob Dylan e, nel 1976, pubblica “NightLights”. Un disco notturno, romantico e scintillante di rock’n’roll da bassifondi. Ci suonano eccellenti musicisti come Billy Joel, Jerry Harrison, Ernie Brooks e anche un ex Velvet Underground, peraltro ottimo chitarrista, quel Doug Yule di “Loaded” 1970. E contiene due o tre canzoni che sono ancora oggi l’ossatura del suo vastissimo repertorio.
“Nella mente ha proprio il tocco di Bonaparte. E’ dello stessa razza di Jack lo Squartatore. Vive ai margini. Mi piace vedere quel tipo di energia. Cominciamo a sentirci soli su questo scoglio”.
(Lady Stiletto – Elliott Murphy).
Ma per diventare una star del rock occorre anche un pizzico di fortuna, cosa che non sembra essere una prerogativa di Elliott Murphy. Nonostante tutto ha continuato a darsi un gran daffare inseguendo i suoi sogni, sfornando ancora altri dischi tra cui “Murph the Surf” del 1982, il suo capolavoro. Non si è mai arreso di fronte ai suoi fallimenti, è andato fino in fondo alle cose, senza alcuna paura. Se volete lo potete incontrare ancora oggi da qualche parte in giro a suonare il suo personale “Never Ending Tour”. Certo, il suo rock vive sui palchi scomodi e logori di provincia, nei pub o in piccoli club…ma quello che importa è ascoltare le sue ballate polverose, che hanno una dignità e un amore per la musica che è lezione per molti spocchiosi musicisti di adesso. Questo suo senso di profonda dignità nel cercare sempre nuove avventure lo rende ai miei occhi senz’altro speciale. Come fosse davvero lui l’ultima delle rock’n’roll stars. Ci sono posti dove è facile farsi del male ma d’altra parte non sarebbe né meglio né peggio rimuoverli dai ricordi. La villetta del quartiere sta sempre lì, e anche quella panchina, che è sempre vuota come lo era allora. Mi ci sedevo quando sentivo di aver perso il controllo di me stesso e i miei punti deboli si erano ingigantiti e diffidavo di tutto. Allora restavo seduto senza far nulla, solo a guardarmi intorno. L’altro ieri ci sono ritornato e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho alzato gli occhi verso la finestra da dove si affacciava mia madre per chiamarmi, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. Le ho fatto un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto. Ho girato gli occhi ancora più in alto ed ho visto il balconcino di Pasqualino. Era l’unico che si sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui tentava di parlare dei fantasmi che lo perseguitavano. C’era nato con la testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso in casa ma, quando mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le scale e si metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a fumare. Sembrava che mi aspettasse. Alle volte, quando le sue visioni erano felici, mi sorrideva come solo i pazzi ti sanno ridere e mi toccava il viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che quasi mi soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato e ho pensato che non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore che aveva dentro, che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui sapeva, sentiva che c’era qualcosa in me che non andava… e allora credo che alla fine sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che fosse troppo tardi. Adesso sarà un angelo, Pasqualino, magari bizzarro, che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi manca la sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. Accidenti a me. Odio i ricordi
“O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito non muore mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a camminare lo spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati intorno, e guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai
. (Spirit – Van Morrison).




giovedì 10 gennaio 2019

Bob&Tim: vite da niente

Ho il cranio che mi frulla di strane cose, e passo la mia giornata ascoltando Elvis che continua a cantare le sue fottute canzoni. Mi è rimasto solo lui mentre me ne vado da questa città, e non so neanch’io con quali intenzioni. Mi chiedo mentre me la filo su questa deserta strada, come farò a sopravvivere in un posto che non conosco… ma andarmene è l’unica cosa che posso fare per cercare di tirarmi avanti, aspettando che il mio destino si compia. Mio padre e mia madre sono stati genitori devoti e amorevoli, onesti e cortesi, e anche molto tolleranti con me che sono sempre stato un ragazzo difficile, strano, chiuso, e forse anche con qualche rotella fuori posto. Forse per questo motivo non ho mai incontrato una ragazza che avesse voglia di mettere in questa forsennata e delirante testa un po’ d’ordine. Darò l’impressione che io abbia voglia di lamentarmi, e penserete che io abbia paura ma non è così. E’ solo colpa di una strana configurazione d’eventi, se mi trovo in questa situazione, ma come il mitico Jack di Denari quel furfante che sgusciava tra pilastri di fiches, sarò uno duro da battere. L’altro giorno al bar del rione, su un quotidiano ho letto che andava tutto bene, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. La disoccupazione, la povertà, l’ingiustizia non esistevano più. E neanche gli invidiosi e i traditori. È stato così che ho pensato che il successo di quelli che ci governano, assomigliava in maniera impressionante al mio fallimento. Si era semplicemente rotto le palle Bob Dylan (nome d’arte preso da Matt Dillon, eroe di una serie western TV degli anni 50, e non dallo scrittore Dylan Thomas) di starsene a suonare seduto su un divano attorniato da quei giovani intellettuali che lo osannavano. Era diventato il simbolo della loro condizione sociale, del loro modo di pensare, e anche della loro appartenenza politica. Tutti studenti universitari che si definivano innovatori, ma in fondo non erano altro che figli di papà, radical chic, con la puzza sotto il naso. Per questi folkniks che frequentavano gli stessi locali ascoltando gli stessi dischi, e che parlavano allo stesso modo, la riscoperta della canzone come strumento di comunicazione era solo una moda. Tutto il contrario di quel giovinetto taciturno e scorbutico che si era abbeverato al sapere popolare di Woody Guthrie, e che aveva imparato a suonare l’armonica a bocca e la chitarra ascoltando alla radio le canzoni di quell’ubriacone di Hank Williams, il rock’n’roll blasfemo di Little Richard, e il blues paludoso di Muddy Waters e Howlin Wolf. Quel loro modo di essere era quanto di più lontano potesse esserci dalla sua anarchia intellettuale, e anche dal suo intendere la musica folk stessa. Ma sin dai tempi in cui dodicenne si esibiva ai festival per dilettanti, pur continuando a leggere Steinbeck e ascoltare i dischi di hillbilly di sua madre, in cuor suo ambiva a diventare una rock’n’roll star. Dylan ha sempre diviso in due il pubblico. C’è chi lo adora incondizionatamente, e chi invece non lo sopporta per quel suo carattere taciturno e scontroso. La storia racconta che tutto ebbe inizio al festival folk di Newport, nel 1965. Quel giorno il rock’n’roll tornò nella vita della gente, ed ebbe nuovamente una voce. Era stufo Dylan di sentirsi dire: bravo questo ragazzo, anche se è stonato e suona maluccio la chitarra”. Così con un ghigno diabolico dipinto sul viso, quel 25 luglio si presentò sul palco con una chitarra elettrica a tracolla, seguito dal chitarrista Mike Bloomfield, e l’armonicista Paul Butterfield. Alzò il volume degli amplificatori, e la sua Fender sibilò nell’aria che i tempi erano cambiati, una volta e per sempre. Lo guardarono terrorizzati quei giovinetti presenti, che cominciarono a rumoreggiare e a respingerlo in malo modo… ma Bob continuò a suonare mentre il pubblico protestò scandalizzato, osteggiandolo di continuo. L’erede di Woody Guthrie chi si credeva di essere? Era solo uno che si stava compromettendo con una musica volgare, blasfema, impura… e per di più lo stava facendo proprio di fronte a chi lo aveva sempre osannato e vezzeggiato. Ma in quel trambusto nessuno si rese conto che per la prima volta due mondi il folk e il rock che si erano da sempre guardati con avversità e sospetto, attraverso l’arte di quel ragazzo, finalmente diventavano complementari. Sfruttando l’energia di quei suoni, Dylan tirò fuori dal suo cilindro qualcosa che non esisteva e questa volta, con buona pace di tutti, senza restarne prigioniero. Bringing All Back Home”, Highway 61 Revisited” e Blonde On Blonde”, sono i dischi che seguiranno quell’evento e che deformeranno, plasmeranno per sempre la musica rock. Il loro avvento produrrà un cambiamento radicale nel mercato discografico. Il rock’n’roll non sarà più solo musica da ballo, ma diverrà la colonna sonora per tutte quelle minoranze silenziose che nessuno rappresentava. Dentro queste canzoni c’è una musica carica d’idee, di fatti, di slogan. Una musica anche politica rinnovatrice, sovversiva, ribelle, anarchica, che nessuno riuscirà mai a eguagliare. Neanche lui. Le sue canzoni lievitano fino a diventare lunghissime, con cascate di versi che si fondono magicamente insieme ai suoni e, dentro quel caos apparente, c’è tutto quello che nessuno aveva mai osato metterci. Letteratura, ideologia, vita vissuta, fantasie, bugie, visioni, poesia, rabbia e violenza; ma anche le tradizioni, la strada, le droghe, Rimbaud, Baudelaire, e Charley Patton. Tutto questo sta in piedi in un clima da incubo urbano, da sogno ad occhi aperti, in una baraonda che è rock, folk, blues. Dylan ancora una volta diventa un simbolo. Questa volta però del disagio e della coscienza di massa; ma anche un punto di riferimento per una miriade di musicisti. Quei versi sputati fuori con giochi di parole, rime martellanti, scioglilingua, per la rapidità dell’informazione contenuta sembrano dei moderni tweet. Sono arrivato in città prima dell’alba e mi sono addormentato sui sedili posteriori della macchina. Quando nella tarda mattina mi sono alzato accecato dai raggi del sole, avevo un terribile mal di testa che mi accudiva. Sono sceso dall’auto e mi sono seduto sul ciglio della strada. Per farmi compagnia mi sono messo ad ascoltare il vento bisbigliare tra l’erba. Avevo perso non so quante volte l’equilibrio, e ogni volta prima che riuscissi nuovamente a rialzarmi, avevo dovuto lottare come un leone in un’arena. Dopo il mio ennesimo fallimento era molto meglio riprendere fiato. Quando vivevo ancora con i miei genitori, una sera ho sistemato l’antenna della radio e ho visto delle nuvole nere nel cielo arrivare sopra casa mia. Prima che piovesse ho ascoltato una canzone… che dico, una voce profonda, chiara, poi scura, forte, tenue, che sfumava le parole e poi le assaliva. Sembrava volesse superare qualsiasi barriera quella voce. Per un attimo mi sono chiesto se fosse un’allucinazione, o un mio tormento. Io sono giovane, io vivrò, io sono forte, io posso darti lo strano seme del giorno: senti il mutamento, conosci la strada” (Goodbye And Hello). Tim Buckley non era nato per fare la rockstar, anche se l’industria discografica sin dall’inizio aveva tentato in tutti i modi di costruirgli quel ruolo. Un uomo schivo, onesto e sensibile, con un carattere emotivo, introverso, tormentato come il suo, non avrebbe mai potuto esserlo. Per via di quell’indole i discografici di quel tempo lo avevano preso per uno squilibrato. Un artista Buckley che non si può categorizzare in nessun genere. La sua musica è inafferrabile, turbolenta, libera da qualsiasi costrizione. Con il suo canto allucinato ma prorompente e straripante di passione, era quasi riuscito a deformare la realtà con la poesia. Com’è stato per Dylan, i dischi di Buckley hanno rotto qualsiasi barriera musicale ed emozionale. Un uomo che ha sofferto la tristezza e la bruttezza del mondo, e che sognava la leggerezza di un viaggio fantastico. Un viaggio che partiva dall’ombra per poi tentare di volare, di respirare, cercando un appiglio, uno spunto, per tornare nella luce del mattino. Un uomo che riusciva a cantare completamente nudo nell’anima. Un innamorato della vita, tanto da non sopportare le sue miserie e trovare riparo nell’eroina. Uno che toccava e accarezzava le parole come i riccioli dei suoi capelli, cercando sempre un nuovo punto di partenza da cui poterle trasfigurare. L’acqua, le nuvole, il mare, i fiumi, le ragazze gitane, i treni, le melodie tristi, i solitari, sono le cose da cantare, quelle che animano il suo sentire; e non ci sono steccati o interdizioni che tengono, di fronte a quel flusso di passione. Tim Buckley con la sola chitarra acustica affronta il suo mondo di suggestive visioni, comunicando con gli angeli, graffiando e avvolgendo le parole, distendendo la melodia. Commuove e spacca l’anima mentre con la sua voce baritonale che non conosce risposte né verità, ma solo la paura di non potere più sognare, apre nuovi orizzonti. Era un uomo solo Buckley che faceva un mucchio di sogni, e che amava anche quello che perdeva. Con il vento che gli annodava i capelli era pronto a mettersi in marcia. Se né andato troppo presto il 29 giugno del 1975 nel cuore della notte, per un’overdose di eroina. Stava solo volando, cercando di afferrare qualcosa che gli era sfuggita nel buio. Ho ripreso a guidare, poi ho rallentato per rendermi conto di dove fossi arrivato, e mi sono fermato davanti a un lampione. Non ero solo. Lo avevo capito sin da subito, da quando la incontrai, che la musica non mi avrebbe mai lasciato. Durante questi anni passati insieme l’ho vista sorridere, piangere, lamentarsi; con l’aria corrucciata, aggrottare la fronte e fumarsi una sigaretta nervosamente. Spostarsi nei miei incubi, per poi tornare insieme a me a sognare. L’ho sentita come Tim, triste e felice. Curiosa e sconvolta, come Bob. Per poi incazzarsi e mentire, come Iggy. Un’irruzione continua, una voglia infernale di vita. Sedersi e svignarsela. Mi sono guardato intorno, la strada era di nuovo ricoperta di poesia. La musica è l’ultima resistenza al potere. Lei non va mai via. Nelle vite da niente, non va mai via.