mercoledì 26 dicembre 2018

Dal Blu al Nero

Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé. Riaprire il fiotto dei sogni e partire dal primo che si è fatto quando si era ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, nuovi punti di arrivo e, quindi, nuovi punti di partenza. Squadrai il cielo sopra la mia testa che restava fuligginoso, mentre sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che mi incrostavano l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e saziarmi di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio della mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza… ma non riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi attraversava mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato parecchio complicato stare sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più. Il pericolo era di fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a tradirmi. Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio stambugio. Ero pallido e stanco. Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con rabbia e avidità ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la vita. Ero un precario dei sentimenti come del lavoro. Cosa avevo da offrirgli se non la mia stessa confusione? Probabilmente era il momento di fare quella puntata balorda e giocarmi i numeri alla ruota del lotto rimanendo in attesa del miracolo di diventare ricco ma non avevo mai creduto abbastanza che questo potesse accadermi da dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di male a immaginarmi nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei occhi che scoppiai a ridere sconciamente. Lì da solo in mezzo alla strada. Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai della musica Willy And The Poor Boys” dei Creedence Clearwater Revival, anno 1969. Tirai un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai voluti salire per restare fedeli a se stessi. Persone che hanno pianto come bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte e che, sbandati e confusi, non hanno trovato più la strada di casa.
My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare fino in fondo che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero”. My my, ehi, ehi (Out of the blue)
Sono poche le cose che ci legano al passato ma alla fine sono proprio quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979. Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San Francisco, dove Young, con la sua chitarra acustica, prima si scioglie dentro le sue ballate dolenti e poi, insieme ai Crazy Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è sopraggiunta la rassegnazione. “Live Rust” è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle e i Clash erano il mio unico credo. La musica di Neil, in quei giorni, era il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già vecchia… ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di fantasmi.
Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo. Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli strada: è il solitario”. (The Loner).
S
draiato sul letto pensai a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come se avessi lasciato le mie tracce sulla battigia e al mio ritorno non c’era più nulla. La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina sulla statale 113. Quando avevo  bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo preferito. La 113 è una strada lunga e silenziosa, che cammina a ridosso del mare. E’ un percorso dai lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come una canzone dei Velvet Underground. Il vento che era venuto giù faceva increspare le onde, intanto che un flebile sole si faceva largo tra le nuvole nere che schiamazzavano nel cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata, al pari di quei grigi villini per le vacanze di cui era attorniata. Ad un tratto mi si parò davanti, con la sua bicicletta e lo zaino legato al portapacchi, uno che veniva da un’altra era. Arrancava lentamente, senza una meta da raggiungere, quel figlio dei fiori. Come il vento, andava dove credeva. Lo superai, osservandolo dallo specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi sembrò che avesse la faccia serena. 1967 a San Francisco. Andava in scena la rivoluzione. Ventimila anime che inseguivano un sogno comune si erano riunite al Golden Gate Park, in quella che fu definita l’estate dell’amore, per ascoltare gratuitamente i Grateful Dead e i Jefferson Airplane. In città erano giunti da New York, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso appena uscito dal carcere, per unirsi al poeta e letterato Kenneth Rexroth. Gli hippy prendevano allucinogeni e si decoravano i capelli con i fiori, mentre a Berkeley i movimenti studenteschi si scontravano con la polizia reclamando diritti civili. Nella vicina Oakland dei duri, quali erano Eldridge Cleaver, Huey Newton e Bobby Seale, fondarono l’organizzazione radicale delle Pantere Nere.
Guardate cosa sta accadendo fuori nella strada: è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Hey, sto danzando giù nella strada, è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Non è sorprendente tutta la gente che incontro? E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Una generazione è invecchiata, una generazione ha trovato la sua anima” (Volunteers – Jefferson Airplane). 
La prima volta che i Jefferson Airplane cantarono questa canzone fu nella radura di Woodstock il 21 agosto 1969, davanti a 500.000 persone, con rabbia e passione. Nel novembre dello stesso anno venne pubblicato “Volunteers”, un disco che è anche un manifesto politico, apertamente sovversivo. We Can’t Be Together apre l’album e spara subito a zero contro le repressioni anti-libertarie dell’America di Nixon e di Kissinger. I Jefferson Airplane, per non disgregare il messaggio politico, cercarono di unire coerentemente parole e musica, in questo aiutati dalla  presenza di ospiti illustri. In The Farm Jerry Garcia suona la pedal steel, creando un’atmosfera prettamente rurale. Wooden Ships, regalata dal duo Crosby e Stills, presenti entrambi, è sinistra nel suo incedere e parecchio inquietante. Jorma Kaukonen incrocia la chitarra con quella di Jerry  Garcia in Hey Fredrick, mentre Grace Slick canta con profonda emozione. L’incedere country di A Song for All Season sembra anticipare di qualche anno Sweet Virginia dei Rolling Stones, forse per la presenza nel disco del pianista Nicky Hopkins, poi alla corte delle pietre rotolanti, che ricama e caratterizza le canzoni con il suo distintivo suono. Questo disco, comunque sia, suggella la comunanza d’intenti e quel senso di fratellanza che avevano in quegli anni tutti i musicisti della Baia. “Volunteers” è la fine di un’epoca ed è come una capsula del tempo. La si può schiudere e tornare ai giorni in cui era bello sperare che la musica potesse cambiare il mondo. Viaggiando, fatti di benzedrina, su camion che ti avevano raccattato nella notte da qualche parte in mezzo al deserto.
Questa generazione non ha mete da raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Su, venite, stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” (Volunteers – Jefferson Airplane).
Andai all’edicola e comprai un quotidiano. Poi mi diressi all’ufficio di collocamento e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano, aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le pagine politiche del giornale. Sempre la stessa tiritera, bugie su bugie. Tirai dritto e andai alla pagina della musica. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di Leonard Cohen e mi chiesi perché certi giornalisti dovevano campare alla grande, pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie… mentre altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano vivere nel limbo. La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro figli del vento, nati senza la lingua a pennello. Sentii puzza di merda nell’aria. Allora pensai a Luisa e solo a lei.

 Bartolo Federico

martedì 18 dicembre 2018

Dannato Stasera Non Piangere.

 Il bar Cosimo all’ora di pranzo era pieno di impiegati, indaffarati a mangiare insalate, e qualche arancino al ragù. Vite ordinarie quelle, con le loro preoccupazioni e le proprie ansie. Persone normali, con progetti, speranze e, probabilmente, qualche sogno cucito chissà dove. Avevo cercato riparo dai miei silenzi, e dai miei blues, standomene assorto davanti a un bicchiere di vino rosso. Troppi punti deboli, troppe lacune si erano aperte dentro di me. Girai gli occhi e incrociai lo sguardo di una ragazza col seno grosso che si toccava i capelli. Lei mi guardò ammiccando con un piccolo sorriso. Non era brutta, ma di sicuro non era il mio tipo. Troppo muscolosa e con le spalle larghe per i miei gusti. Guardai attraverso il vetro del bar e, chissà perché, cercai quelle risposte che non arrivano mai. Un ragazzino con un cappello alla Mingus entrò ridendo. Capivo di non avere più risentimenti verso nessuno, ma di essere ancora in qualche modo vulnerabile, come quando ero giovane. La vita è fatta di incontri alle volte insignificanti, altre volte così devastanti che ti cambiano per sempre… e mi rividi spostarmi per quelle strade buie e silenziose, con i cartelli arrugginiti e sbattuti dal vento. Quelle strade abbandonate, circondate da immondizia e puzza di piscio, che ci si smarriva non appena svoltavi l’angolo. Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza, altri alla dannazione. Dal pacchetto di sigarette tirai fuori una Benson &Hudges che strinsi tra le dita, ma non accesi. Avevo sempre cercato di fare del mio meglio. Tuttavia i giudizi che mi davo un tempo, mi sembravano meno spietati di quelli di adesso. In compenso non mi preoccupavo più di come andavano le cose. Mi incuriosivo solo dei miei continui cambiamenti. “Nessuno è innocente, nessuno. Ficcatelo bene in testa”. Senza motivo, mi erano tornate in mente le parole urlatemi da Gilda in quel pomeriggio da cani. Lo avevo imparato a mie spese che, quando le situazioni prendono una brutta piega, è inutile che uno cerchi di spiegare. Noi uomini, prendiamo ciò che ci fa più comodo. Siamo abituati ad usarci perché dopo un po’ l’amore finisce e, in seguito, anche l’odio che nutriamo. Un altro esule entrò nel bar. Camminando di sbieco e ordinando una birra, si accomodò. Era una giornata di quelle che non si sa perché, ti senti scoglionato, annoiato, irritato, ma sapevo che avrei fatto bene a restarmene sobrio. “C’è un casino dappertutto” mormorò ad un tratto, l’uomo che si era seduto proprio dietro di me. “ci si sente come in prigione”, continuò… ed era come se mi stesse leggendo nei pensieri. Mi girai lentamente e lo guardai per un lungo istante dritto negli occhi, come a volergli scrutare fin dentro l’anima. “Non lo so, e non è che m’importi molto” risposi, mentre un cellulare iniziò a suonare una musichetta del cazzo. Non avevo fame, né freddo, né sonno, niente. Non sentivo niente. Vidi il cielo annuvolarsi e mi chiesi fino a che punto dovevo precipitare, prima di fermarmi. Mi aggiravo per le strade portandomi appresso un oscurità così densa, che potevo tinteggiare le pareti di un palazzo. In quel silenzio, l’autoradio della macchina sparava raffiche di sax, tanto forti da impedirmi di sentire le mie stesse urla. Amavo il suono del sassofono, era come se ascoltassi il respiro profondo di certe anime dilaniate che facevano musica nella tempesta. John Coltrane è una luce negli occhi, una sensazione fantastica, tremendamente rara. In The Dark You Can Love This Place mi ha sussurrato una notte Barzindistogliendo accuratamente lo sguardo. Ho trattenuto le lacrime, per non farmi inondare fin dentro le orecchie, e capire quanto ero ridotto male. Gilda quando c’eravamo incontrati, mi aveva guardato da dietro il fumo di una sigaretta, e questo bastò per farmi perdere l’orientamento. Era come se una voce mi dicesse che era lei che stavo cercando… ma ora che c’è l’avevo di fronte, non sapevo che fare, e le dissi soltanto: ciao bambina”, con una voce greve e lenta… e subito dopo iniziò a diluviare. E piovve per un bel pezzo. Poi rimasi in silenzio, inquieto come un sospiro. Ma queste cose mi erano successe in un’altra vita. Come spesso accade i nostri destini si erano separati, e niente e nessuno avrebbe potuto farmi tornare sui miei passi. Ho canticchiato un blues mentre salivo le scale di casa, dove non mi aspettava più nessuno. Con gli occhi spalancati nella penombra, ho acceso lo stereo, fumando, e cercando di non farmi prendere dallo sconforto. Erano passati anni, secoli, mesi, giorni, ore, minuti, da quando ci eravamo lasciati, ma certe cose, non si erano ancora sbiadite. Il telefono gettato sul pavimento prese a suonare, lo guardai ma non risposi. Lei di sicuro non mi stava cercando. Ho acceso la lampada che faceva una luce fioca, per cercare nello scaffale un disco che non trovai di Blind Blake, uno dei padri fondatori del blues. Un viaggiatore misterioso di cui non si sa praticamente nulla. Di quest’uomo solitario è rimasta un’unica foto. Eppure negli anni venti era una star della musica. Suonava un blues tecnico e riusciva a tracciare con la sua chitarra un crossover ante litteram, che amalgamava lo stile ragtime, con il blues e il jazz. Anche il burbero reverendo Gary Davis lo omaggiò. Lui così avaro di complimenti verso gli altri musicisti. I morti hanno sempre gli occhi tristi. Anche Nick li aveva quando è spirato per un tumore all’esofago. Per come era fatto, avrebbe preferito di gran lunga una pallottola dritta in testa che quell’animale dentro a divorarlo. Aveva appreso sin da subito di essere spacciato e di non avere via d’uscita… e non deve essere stato facile. Il diavolo poi ci mette sempre lo zampino e sembra che goda. Anche quando chiedi: quanto tempo mi resta dottore?” Lui sogghigna. Alla fine, all’ultimo istante, avrebbe voluto alzarsi da quel cazzo di letto che lo inchiodava e camminare, camminare. Prima di tirare le cuoia avrebbe voluto bestemmiare, imprecare. Andarsene in giro senza meta, come faceva quando cercava di raccattare i cocci della sua pazza vita… ma si sentiva debole e stordito, ed aveva una paura fottuta. Siamo tutti strambi noi uomini. Mi alzai e mi versai un bicchiere di Chivas. Il whisky andò giù morbido. Mi ricordai di quando lei era seduta sul divano e sfogliava distrattamente una rivista. Aveva recuperato il pacchetto delle sigarette e si era accesa una merda di MS. A guardarla nel suo jeans attillato aveva un bel culo, ma anche delle belle tette. Per tutto il giorno aveva sapientemente evitato il mio sguardo. Forse era un modo per non farsi venire qualche rimorso. Suonai qualcosa con la chitarra per ritrovare il coraggio. Aveva due splendidi occhi ed eravamo diventati tutt’uno. Non c’era spazio per nient’altro. Lo dico adesso che non posso più ingannare nessuno, tantomeno me stesso. È stato questo che alla fine ci ha fregato. Avevo smesso di dare importanza ai suoi misteri, come lei ai miei. Non potevamo continuare ancora ad ingannarci. Me ne sono tornato nell’oscurità, come un blues greve di Mark Lanegan. Le armi e i duri non mi sono mai piaciuti. Neanche i mercenari e certi sbirri. C’è gente che legge troppi libri, altri nemmeno uno. La vita alle volte è crudele, e si comporta come un romanzo da due soldi. Sarò un romantico, ma esiste un altro modo per stare su questa terra. Ne sono certo. In quello mio, non ci sono né vincitori, né vinti. Perché capita ad ognuno di noi che qualche porta si chiuda, e anche se questo ci lascia quel retrogusto amaro di nullità, si può sempre ricominciare, da qualche altra parte. Sempre. La cattiva stella prima o poi tramonta. Bisogna solo sapere aspettare. Certo, ci vuole una infinita pazienza, ma ne vale la pena. L’ho appreso dal blues questo, che non vive nel mondo della luna. Pur con una gamba di legno Furry Lewis se ne andava in giro per il sud del Mississippi, aggregandosi al fianco di imbroglioni e truffatori, che seguivano le carovane dei minstrels e dei medicine show. Aveva perso la gamba in un incidente ferroviario, ma tutto questo non era riuscito a fermare la sua vivacità, la sua voglia di vivere. Suonò insieme a Gus Cannon e Will Shade, per le strade di Memphis, entrando anche a  far parte della Memphis Jug Band… ma di musica non sempre si campa, e allora inizia a lavorare come spazzino, e lo farà per oltre quarant’anni. Per non gettare del tutto il suo talento, alla sera suona nei battelli a vapore che attraversano il grande Fiume, e al mattino va a ripulire le strade della sua città. Suonare a questo songsterr, gli ha reso più sopportabile la sua dura esistenza. L’ha fatto anche Night Moves con me. Una canzone che conserva il sapore di tante cose che ho perso lungo il tragitto. Ho pensato a Lei ascoltandola. Ai suoi seni, al suo desiderio, alle sue speranze, alla sua avidità. Me ne sono rimasto seduto sul divano, mentre fuori aveva preso a piovere. Ha piovuto per un bel pezzo. Mi sono fatto del caffè e fumato qualche sigaretta nella piccola cucina. Al lavoro l’indomani, ci sarei andato anche a costo di strascicarmi per strada a tentoni. È solo quando non hai più una cosa, che te ne accorgi di quanto era importante. Misi un disco di rock duro, grintoso, di quelli che sparano raffiche di chitarra a mitraglia. Tanto per stordirmi un po’. La mattina uscì presto di casa. Era un’alba fresca e senza particolari pretese. Prima di andare via, ho lasciato tutte le luci dell’appartamento accese. Così da darmi la sensazione al mio rientro, di non essere solo. A quell’ora del mattino le strade erano deserte. Un barbone dormiva dentro l’atrio del portone. Cercai di non disturbarlo. In strada camminavo veloce e con le mani infilate nella tasca della giacca. La Folie cantavano gli Strarnglers nel 1981. Combien de crimes ont ete commis. Contre les mensonges et soi disant les lois du coeur. Combien sont la a cause de la folie. Parce qu’il ont la folie”Mia zia Marianne sentiva le voci, e vedeva cose inesistenti. Alle volte diceva che erano sui muri, altre sul pavimento, qualche volta non ti riconosceva nemmeno, perché eri tu la cosa strana. Se ne stava per ore seduta immobile sulla sedia. Ogni tanto rideva e si toccava i capelli, e si stringeva i seni, fino a farsi male. Beveva vino rosso a litri, e fumava all’inverosimile. Troppe notti difficili. Alle volte avevo paura, una paura tremenda, che potessi uccidermi… ma forse c’era molto suggestione in me. Ogni tanto tornava normale e passavamo dei bei momenti. Poi anche quegli attimi svanirono, e la dovettero rinchiudere in un manicomio. John Trudell è un indiano Sioux. Quando venne nominato portavoce dell’American Indian Movement, si rese protagonista di un gesto di protesta contro le autorità americane, per le atrocità commesse nei confronti dei nativi americani. Sui gradini del J. Edgar Hoover Building di Washington bruciò la bandiera a stelle e strisce. Dodici ore più tardi, sua moglie, i suoi tre figli, e sua suocera, morirono in un incendio nella riserva di Paiute Shoshone in Nevada. La cosa resterà senza colpevoli, anche per il rifiuto dell’FBI di indagare sul caso. John Trudell inizia a comporre poesie e, nel 1985, quando incontra Jesse Ed Davis, un indiano Kiowa che suona con Clapton, Dylan, Lennon e Jackson Browne, le sue poesie diventano musica. “A.K.A. Graffiti Man” è un grido di dolore, un blues profondo, un vento di guerra. Ci sono cose che nessuno può uccidere… ma il cuore degli uomini è la cosa più difficile da vedere. Dannato stasera non piangere.