mercoledì 26 novembre 2014

Ancora Sei Miglia Per Il Cimitero(gente senza lavoro)

La speranza è una trappola” recitava quella frase. Scricchiolai un attimo. L’avrei letta su un muro, sul vagone di un metrò, in un cesso, ci sarei passato sopra. Ma impressa sul corpo di una chitarra elettrica mi ferì. La musica è l’unica speranza che ho di uscire dal guado, e la chitarra il mio sogno di cambiamento. Ma se questo è solo un inganno della mia mente, allora la smetto subito di ascoltare, fantasticare, inveire, odiare, desiderare, imbrattare, offendere, scopare, urlare, strimpellare, scrivere, bere. Bruciando all’istante tutti i miei 33 giri. E’ un mondo povero e incolore quello che ci circonda, disperato e sterile. Tuttavia, finché ci cammino, devo in tutti i modi sperare di venir fuori dal mio splendido isolamento, fosse anche ascoltando per sempre un blues suonato da Captain Beefheart & His Magic Band.

Ero rientrato in casa dopo avere acquistato una bottiglia di Johnny che Cammina, etichetta rossa, e mi ero messo a sorseggiare un dito di whisky guardando fuori dalla finestra, che poi è anche il posto dove ho lo scrittoio. Tornando, avevo incrociato i miei vicini di casa, padre, madre e un ragazzino di dieci anni su una station wagon che aveva avuto giorni migliori, mentre andavano via. Avevano caricato le loro cose: scatole di cartone, valigie, e degli abiti, ammucchiando tutto alla rinfusa nel vano posteriore dell’auto. Tenevano tutti e tre l’aria distrutta e gli occhi vuoti, come se qualcuno gli avesse scavato una fossa dentro le pupille. La banca gli aveva preso la casa, dopo che erano stati licenziati dal loro lavoro a tempo indeterminato non riuscivano più a pagare le rate del mutuo. L’ufficiale giudiziario che si era presentato quella mattina quasi estiva di fine ottobre era stato freddo e cinico, come una vecchia puttana di fronte all’ennesimo cliente. Aveva eseguito il sequestro scrivendo fogli su fogli, senza mai scomporsi. Neppure di fronte alle proteste garbate dell’uomo che appariva prostrato e logoro, aveva battuto ciglio. Un uomo mediocre è arrogante quell’ufficiale, ma aveva dalla sua i poteri conferitigli dalla legge degli uomini. Quella stessa che protegge con costituzionalità le corporazioni del gioco d’azzardo, o le cooperative onlus, care alla sinistra. Mezzi ideali per il riciclo di soldi provenienti dalla vendita della droga, di armi, e dalla corruzione politica. L’onestà è una cosa richiesta solo ai poveri; gli altri, i ricchi, possono fare sempre quel che gli pare. Faccio il mio lavoro, disse quando se ne andò via inseguito dai singulti della signora Giuseppina, la vedova con tre figlie femmine che sta a pianterreno. Mettitelo su per il buco del culo quel lavoro, pensai, lottando con ferocia con me stesso per non saltargli addosso. Il monitor segnava le sedici e quarantanove. La radio aveva annunciato “la tempesta di natale” una perturbazione che avrebbe portato pioggia, freddo, e neve. Che arrivi al più presto e faccia cadere giù il cielo, e si porti via tutto una volta per sempre, imprecai, mentre Move It On Over, un rock’n’roll inventato da Hank Williams, cercava di far cambiare almeno un po’ le cose intorno a me.

La musica del rock’n’roll si sente in giro. Quando ce l’hai dentro non ce la fai a stare seduto. Ti scuoti, rompi tutto, per tutta la città. (Hillbilly Music - Jerry Lee Lewis)

Nei  dischi di Jerry Lee Lewis, in quelli incisi tra gli anni cinquanta e sessanta, ci sono un pugno di canzoni di Hank Williams, come You Win Again, Jambalaya, Your Cheatin’ Hearts, Cold Cold Heart, Gone Lonesome Blues, Settin’ The Woods On Fire, che Jerry Lee ha reinterpretato a suo modo, tanto che paiono un altra cosa. Ma è proprio questa la forza delle canzoni di Hank. Uno di noi. Le puoi prendere e farle suonare: punk, rock, metal, folk, pop, tecno, rap, reggae, qualunque cosa. Sono motivi popolari, di pubblico dominio, come le canzoni di Bob Dylan o quelle contenute nell’ Anthology Of American Folk Music, edita da Harry Smith.

La musica country alla fine degli anni trenta era diffusa solo attraverso le stazioni radio che la trasmettevano dal vivo finanziandosi con la pubblicità. Da questo circuito, rivolto ad un pubblico di campagnoli che non aveva denaro a sufficienza per comprare i dischi, scaturì anche  la Grandiosa Opera Della Musica Antica (Grand Ole Opry) di Nashville, l’istituzione della country music. Hank Williams nacque povero e con una malformazione alla colonna vertebrale (la spina bifida) in una capanna fatta di tronchi nella campagna vicino Georgiana in Alabama. E’ un mondo duro quello in cui cresce, che puzza di sterco di cavallo e conosce cosa significhi lavorare con la schiena calata. Un mondo dove l’inibizione e la povertà fanno maturare la rabbia che, rinunzia su rinunzia, diventa risentimento e odio. Siamo agli inizi degli anni trenta, in piena crisi economica, durante la Grande Depressione Americana, quella raccontata da Steinbeck in Furore, un libro pubblicato nel 1939. Tutto stava cambiando e un’intera nazione viveva amaramente quella trasformazione sulla propria pelle. La manodopera, spremuta e mal pagata, e le migliaia di americani in marcia verso una nuova terra promessa sembrano una triste analogia con l’Italia di adesso. A sette anni come nelle favole Hank ebbe in regalo una chitarra, e dopo qualche tempo incontrò per strada un lustrascarpe nero suonatore ambulante di blues, un certo Tee-Toot che gli insegnò alcuni trucchi per suonarla meglio. Non ci sono barriere nella musica con una chitarra in mano puoi parlare a chiunque. “Ho una casa a Montgomery dove mi piace abitare ma devo lavorare per la W.P.A. e sono scontento, sono scontento”. È la prima canzone che Hank Williams compose e cantò in pubblico, e parla di quel disfacimento.

Sono le dodici e dodici del mattino, tengo le mani sulle ginocchia e guardo dalla finestra la pioggia spinta dal vento venire giù. Dopo che lei se n’è andata dormo male e mi sveglio di continuo. Quando finiscono i soldi si comincia a nutrire rancore nei confronti di chi pensavi che ti dovesse mantenere, e dopo un po’ l’amore finisce. Avrei dovuto comprendere una cosa banale come questa, ma mi era sfuggita, stramazzandomi al suolo. Non esiste la sincerità, il vero potere è la corruzione, anche nei sentimenti. Stasera qui giù nella valle solitaria sono solo e mi sento triste mentre sto qui nella mia capanna da solo posso vedere il tuo palazzo sulla collina (A Mansion On The Hill). Hank si esibisce nei locali di tutto il sud, suona presso le stazioni radio e scrive, scrive, canzoni. Il ragazzo di campagna adesso è arrivato in città nei locali malfamati, negli honky tonks, nelle strade illuminate di notte con le auto che sfrecciano, e tutte le tentazioni a portata di mano. Un luogo che è l’opposto dell’ambiente in cui è cresciuto. E’ uno sincero, però, Hank è un puro, che canta ciò che sente nel cuore, per questo non alza nessun guscio di protezione. Suona per tutti quegli uomini che, nonostante le controversie della vita, non si sono lasciati travolgere dagli eventi. Certo, lo fa per soldi, per il successo, ma con tutto ciò, non rinuncia mai a mostrarsi per quello che è. Ha una voce aspra, strozzata, nasale, come il primo Dylan. Ma è proprio quel tono serrato del sud che lo rende credibile alla sua gente, che vive nella privazione e nel dolore. 

Tu fai l’orgogliosa io faccio l’orgoglioso tu canti forte, io canto forte  stasera mettiamo legna sul fuoco e fiamme. Ci facciamo il giro degli honky-tonky  stasera ci divertiamo  farò vedere alla gente un ballo nuovo di zecca che non l’ha mai fatto nessuno” (Settin’The Woods On Fire).

Mi ero coricato ma non c’era verso che riuscissi ad addormentarmi. Mi sono alzato e fatto un caffè, ho messo un disco di Neil Young e i suoi cercatori d’oro sono venuti a prendermi. Non le volevo male, perché mai avrei dovuto? Non aveva nessuna colpa, ma non ero stato neppure uno di quelli che gli aveva promesso mari e monti. Sfortunatamente, non scorgiamo mai chi è pronto a colpirci alle spalle. Eppure quella luce dovrebbe abbagliarci. Tutti noi mentiamo e abbiamo due facce, ma non si può sempre nascondere tutto. Poi ognuno ha diritto a cercarla, ovunque si trovi, quella felicità che cerca. Tuttavia, la ricchezza non salverà l’anima a nessuno. “La gente ruba, inganna e mente per la ricchezza e quello che può comprare. Ma non sanno che nel giorno del giudizio l’oro e l’argento si dissolveranno” (A House Of Gold). C’è troppa gente che vive ancora per la strada, nelle baracche, che non ha un lavoro, ed è senza una qualunque tutela sociale. Gente abbandonata all’ombra di un altrui agio esagerato da individui insensibili al dolore, perché vicino al cuore portano solo il portafoglio. Non si può passare su ogni cosa una mano di vernice, per non vedere lo sporco e l’orrore. Sotto quella mano resta quell’alone che rende tutto stinto. Le canzoni di Hank Williams ridanno dignità a quelle persone lasciate da sole senza nessuna direzione chiara e le fanno diventare protagoniste. Gli parlano nella notte a tu per tu e fanno in modo che quel senso di solitudine opprimente si affievolisca, restituendogli quell’energia per consumare la vita anche nella miseria più assoluta. 

Prima di Hank Williams la musica country aveva avuto nella Carter Family, e in Jimmie Rodgers, gli artisti che contribuirono alla sua espansione. Rodgers cantava ballate in cui la gente si poteva rispecchiare ed era famoso per la sua ritmica jodel. C’è tutto nelle sue canzoni: piacere, donne, whiskey, assassini, morte, malattie e miseria. A soli tredici anni iniziò a vagabondare ed a esibirsi per la strada. Quando suo padre lo riportò a casa e gli trovò un posto di lavoro presso la ferrovia, fu da quel contatto con i manovali neri che nacque negli anni trenta la forma definitiva del country-blues bianco. Morì a New York il 26 maggio del 1933 per un emorragia polmonare presso l’hotel Taft.  Aveva solo trentacinque anni.



Raggiunse fama e ricchezza, Hank, e andò ad alimentare quel mito tutto americano del povero che c’è l’ha fatta con il solo aiuto del proprio talento. Ma dentro di lui brucia il demone che ci spinge a bere troppo, a drogarci troppo, a vivere senza mai fermarci un attimo per poter scrutare da vicino la vita che passa. E la stessa cosa che succederà anche a Lenny Bruce, Jimi Hendrix, James Dean, Janis Joplin, Jim Morrison, e a una miriade di altre persone senza volto. Più porte spalanchi e più ti senti invincibile, e ti convinci che puoi avere sempre ciò che vuoi. Anche se ad un certo punto ti senti fuori posto, continui ad andare avanti fino a distruggerti. Un peccatore, Hank, per l’establishment di Nashville, che non si poteva permettere di avere un drogato alcolizzato tra le sue fila. Fu per questo motivo che venne anche cacciato dal Grand Ole Opry. Il suo matrimonio si era sgretolato come tante altre cose nella sua vita, per quegli abusi dovuti in gran parte per sopportare meglio il dolore alla schiena. “Perché non posso liberare la tua mente piena di dubbi e sciogliere il tuo freddo, freddo cuore?” (Cold,Cold Heart). Il rock’n’roll è musica ibrida che affonda le sue radici nel blues, come nel country, che di per sé sono già mischiate. E’ musica che ti dà quel senso di divertimento e piacere puro, che diventerà con Elvis qualcosa di travolgente. Ma senza le canzoni di Hank Williams non ci sarebbe stato il rock’n’roll. 

Oh, la pioggia sta lentamente cadendo e il mio cuore è così dolente. Più di sei miglia per lasciare la mia cara e non rivederla mai più su questa terra. P di sei miglia al cimitero, sei miglia lunghe e tristiSei miglia per lasciare la mia cara, e lasciare il miglior amico che abbia mai avuto. Oh, ho udito il treno arrivare e riportare a casa la mia cara. Più di sei miglia al camposanto e sarò lasciato qui da solo. Oh sei miglia...  (Six More Miles To The Graveyard)

Hank non aveva imparato le buone maniere, restava un uomo rude e vagabondo, testardo come un mulo. Anche se era stato licenziato dal Grand Ole Opry, continuava a suonare dove capitava. Quella sera aveva chiuso il concerto cantando “Ancora Sei Miglia Per Il Cimitero” ed era risalito sulla macchina presa a nolo. Accompagnato dall’autista si era mosso per raggiungere l’Ohio, dove un nuovo spettacolo lo attendeva. Nella notte di quel capodanno del 1952 viaggiava seduto sul sedile posteriore. Per il dolore alla schiena passò qualche ora attraversata dall’angoscia, e anche da qualche pausa. Ad un tratto si tolse il cappello, ma quasi subito se lo rimise, stappò una lattina di birra e bevve in un fiato. Accanto a sé aveva la chitarra acustica, si sentiva stanco ma nella penombra intonò la melodia di quella canzone che stava scrivendo: “Non Uscirò Mai Vivo Da Questo Mondo”.  Il sonno lo reclamava, avrebbe potuto essere migliore, se avesse proceduto in un altro modo. Si drizzò sul sedile e guardò la strada. ”Sono  una pietra che rotola, tutto solo e smarrito. Per un vita di peccati ho pagato il prezzo. Quando non ci sarò più, la gente dirà: solo un altro ragazzo nelle perdute autostrade (Lost Highway).  Se ne andò via così. Per sempre. Aveva solo trent’anni, ma il suo cuore stressato e distrutto da tutti quegli abusi aveva ceduto all’improvviso. Era sparito, forse come sperava, viaggiando sull’autostrada del peccato, perduto nella notte.  Il giorno dopo era già leggenda.

”Adesso I ragazzi non iniziano a girare intorno a questa strada del peccato. Sei al limite del dolore. Cogli il mio avvertimento o maledici il giorno che hai corso lungo questa perduta strada. (Lost Highway).

Era una mattina gelida ma luminosa. Una mattina di dicembre, una come tante con il sole chiaro ma freddo. Avevo chiuso la porta di casa alle mie spalle ed ero uscito di buon mattino. L’avevo amata, perché negarlo? Sono entrato in un bar ed ho fatto colazione. Sapevo che la verità è sempre inaccessibile. Ho guardato con disprezzo la sigaretta che mi ero acceso uscendo dal bar. Ciascuno ha il suo prezzo riflettei. Qual’era il mio?

Bartolo Federico

giovedì 20 novembre 2014

Nient’altro che strade diverse.



Sono rimasto in compagnia della musica bevendo e rinvangando, quelle cose che mi avevano reso la vita meno dura. Ci ho messo anche lei. I suoi seni, le sue cosce, la sua bocca, i suoi desideri, e le mie voglie. Nella mattinata ho scaraventato tutto dentro un secchio profondo e buio, e mi sono assopito. Tutto qua. Quando mi sono svegliato, nella piccola cucina ho fumato un paio di sigarette, e ho pensato che avrei fatto bene a dimenticarla, e anche in fretta. Dopo il telefono ha squillato, e sono trasalito. Ho alzato la cornetta, ma non ho detto nulla. Sapevo che c’era lei dall’altre parte del filo. Con un tono falsamente imbronciato, mi ha salutato e poi ha riso, ma era un riso scosso, nervoso, di chi sa che la sua preda sta per sfuggirgli di mano. Ho guardato la bottiglia di scotch, e dalla finestra ho sbirciato il cielo rosso. Ero il suo trofeo da esibire in pubblico. Da presentare alle amiche. Il suo cane da guardia. Ma anche per chi era stato sbattuto troppe volte nella tempesta, quella era una roba troppo faticosa. Allora ho chiuso la comunicazione, e quando ho ripensato al suo corpo, mi è mancato il respiro. 


Bartolo Federico

domenica 16 novembre 2014

Non Sto Aspettando Nessuno



Non riuscivo più a dormire. Da tempo il mio sonno era intermittente e leggero. Avevo acceso la radiolina portatile che era appoggiata sul pavimento al minimo del volume, e fissavo il soffitto nella penombra. Aspettavo con gli occhi sbarrati il sorgere del giorno. Stavo fermo immobile su quella branda ascoltando i rumori che provenivano dalla notte chiusa fuori. Mentre con le mie contese combattevo una dura battaglia, mi sentivo rattrappito e dolente cercando di chiudere quei conti che non si finiscono mai di pagare. In quella città che non mi cercava più, mi toccava uscire. Piovigginava. Ho acceso una sigaretta e ho preso a camminare. Era un modo per farci pace. Non avevo nessun blues in testa ma solo dei giri armonici di chitarra intensi e ficcanti, che si andavano a saldare direttamente con le mie paranoie. Ha smesso di piovere e le strade sono rimaste solitarie e gelide. Ho tirato fuori un sospiro inquieto. Mi sembrò di essere finito dentro Marquee Moon, una canzone dei Television. Ad un tratto un vento spigoloso mi ha costretto ad abbottonarmi il giubbino, ed ad alzare il bavero. Ma non avevo nessuna fretta e neanche una direzione da seguire. Questo è il vantaggio che hai quando non ti aspetta più nessuno. Ti puoi prendere tutto il tempo che vuoi. Nel silenzio non c'era spazio per molte cose. Pero' non mi sentivo di fargliene una colpa. La vita è fragile, vulnerabile. Si può avere bisogno di tante cose che tu non sei in grado di donare. Premure, dolcezze. Psycho Killer cantavano i Talking Heads. Siamo sempre in affanno senza una ragione precisa, corriamo dietro cose inutili e fasulle. Poi  restiamo da soli delusi e colmi di tristezza, per tutte le promesse non mantenute e le false speranze, che abbiamo alimentato. Sono rientrato in casa ero stanco e spaesato. Ma non avevo bisogno di nulla. Sul comodino la sveglia segnava le quattro e quarantacinque del mattino. Ho acceso la luce della lampada e mi sono seduto sulla poltroncina di velluto. In sottofondo ho riascoltato le sue parole pronunciate con voce greve e sorda. Ho riflettuto e ho confessato le mie paure. Ma ormai era troppo tardi. Mi sono coricato ho acceso la radiolina portatile che era appoggiata sul pavimento al minimo del volume, e ho fissato il soffitto. Nella penombra non aspettavo nessuno.


Bartolo Federico

 



sabato 15 novembre 2014

Come Un Blues Sporco E Cencioso



Fuori pioveva a dirotto, mentre un vento fortissimo arcuava gli alberi. Ho lasciato ricadere la tenda e mi sono girato. Lei fumava nel bel mezzo della stanza. Ho accesso una sigaretta e mi sono versato un dito di whisky. Ce ne siamo stati per un bel pezzo in questo modo, ciascuno raggomitolato sul proprio lato della vita. Era ormai notte quando ho alzato le spalle e me ne sono andato. Ho guardato la strada, ho tossito, e la ferita ha ripreso a sanguinare. Andavamo avanti a forza di sfuriate, cose del tutto inutili quando due non si sopportano più. Un sacco di blues parlano di uomini che se ne vanno per sempre. Uomini soli che saltano su un vagone merci, e scompaiono nella notte. Gente ostinata che nonostante il mondo si metta di traverso, vuole continuare a sognare. Ho guardato la pioggia che scivolava sulla città e anche su di me. Non avevamo più niente da dirci, ma sono sempre quelli che non ti amano, che fai fatica a lasciare. La notte era ancora lunga e ci potevo camminare dentro, senza disturbare nessuno. Ho acceso una sigaretta. In fondo ero un tipo triste, e la nostra occasione l’avevamo buttata via. Ho tirato due boccate sovrappensiero. In un'altra vita avremmo potuto anche essere amici. Ma era inutile ricamarci sopra. Adesso avrei lasciato solo le cose che mi servivano per sopravvivere. Quelle utili, fondamentali. E un po’ per volta la penombra si sarebbe fatta chiara. Come un blues sporco e cencioso.


Bartolo Federico

giovedì 13 novembre 2014

Stupido Mondo

Mi sono svegliato e ho guardato fuori dalla finestra. Il mondo che ho visto, mi è sembrato un pò piu' sbiadito del solito. C'è un'aria di pioggia e tristezza, mentre il traffico in strada corre con la solita intensità di sempre. Ho appoggiato il viso sul vetro freddo, ed ho pensato che quando sveli un segreto ti lascia sempre l'amaro in bocca. La stanza è molto piccola, c'è un letto, la tv portatile, alcune sedie, il tavolinetto in formica marrone, e tanta polvere. Quando me ne sono andato ho spento la luce, e aperto la finestra. Nella stanza è arrivato un getto d'aria fredda, ma stranamente pulita. Lei era vestita di nero, portava dei pantaloni a vita bassa con il fondo a zampa d'elefante, e aveva un taglio di capelli, che la faceva sembrare piu' giovane dei suoi anni. Quando mi ha visto ha fatto finta di niente, ha aperto il suo libro e si è messa a leggere. Mi sono guardato intorno, ma non ho visto nulla. E' pazzesco quanto tempo s'impiega a riabituarsi al silenzio. 

Bartolo Federico

mercoledì 5 novembre 2014

Miagolando Il Blues (vagabondo per orgoglio)



Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie, coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina “Blues From Laurel Canyon”, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969 anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen, ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, Jack, e Peter, e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me.



Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. 

I "travellin’ man" così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un'unica direzione Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la città del vento. 

Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. 



Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer, e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico pronto ad esplodere, in questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino.


La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. 

È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di Then Play On. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica come nella migliore tradizione psichedelica si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato, il blues torna a viaggiare libero. E diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. 


C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dei numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare Blues On Highway 49 è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte.


In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte, è tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre è solo, alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay, una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle, scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti. Ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Ma quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del bullo di Arcore, e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori, tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti ? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l'ipocrisia.


La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. 

Non m’importa se piove o gela starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si ci puoi scommettere che lo sono. 


Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma mio agio. E mi fermai in uno spiazzale.  Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare, in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie. E nessuno faceva niente. Chissà perché’? Mi sentivo arrabbiato, ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo. Ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric Clapton, Bobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un'altra piega. Negli studi del Criteria di Miami nel 1970 si registrò Layla And The Other Assorted Love Songs, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa, starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton, ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero.


Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai Blue Matter dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere. Miagolando il blues.


Bartolo Federico