Mi sono svegliato nella mia stanza d’albergo vicino la ferrovia con la moquette sfilacciata e le tende bruciacchiate dalle sigarette; mi sono lavato, ho afferrato la mia sacca da marinaio
piena delle mie speranze e me ne sono andato. Fuori non c’era anima
viva, ma ho guardato bene lo stesso alla ricerca di qualche sagoma da poliziotto.
Mentre camminavo già sentivo le ondate di calore dell’afoso mattino
farmi colare gocce di sudore dalla fronte. Sarei saltato sul primo treno che andava verso Jackson, Mississippi, e dal finestrino avrei guardato le paludi, le colline tondeggianti ed i grandi spazi che circondano l’America. Avrei cercato di stare in guardia, perché i vagabondi non piacciono alla gente, né alla polizia. Ma con la mia chitarra non passavo inosservato. Da ragazzo, quando andavo in giro con mio padre che suonava per hobby agli angoli delle strade, avevo preso l’abitudine di portarla con me, alla maniera di Arthur “Big Boy“ Crudup, a tracolla come un fucile con il manico rivolto verso il basso. Quella chitarra fu regalata a mio padre da Slim Harpo di cui era amico e, a sua volta, papà la regalo a me che da allora la tenni come una reliquia. In fondo, era l’unica cosa di valore che possedevo. Una sola volta la prestai, lui è un mio amico e si chiama Sonny Landreth, perché gli serviva per incidere “Way Down in Louisiana”, ma è successo tanto tempo fa. Quando il lungo treno arrivò in stazione sbuffando, salii su una carrozza in coda e presi posto vicino al finestrino. Da lì vidi il capotreno che con un movimento della mano dava il segnale di partenza, dopo di che sentii due volte il fischio e il convoglio si avviò. L’alba è ancora tinta di rosa le canne ondeggiano nei campi ed io sono come il vento, vado dove mi pare. In Texas avevo ascoltato gli Statesboro Revue e mi era presa la smania di rimettermi in viaggio verso Sud. Volevo rivedere le fattorie sgangherate, i campi di cotone e le acque fangose del Mississippi, le liane e le querce, gli aceri della palude ed i cachi. Quei ragazzi avevano fatto “Different Kind of Light“, un disco splendido, shakerando gli umori ed i sapori del Sud, i canti della libertà e il rock selvatico dei Black Crowes di “Shake Your Money Maker”. Ad ogni generazione i suoi Rolling Stones, a loro erano toccati i Crowes. La musica degli Statesboro Revue viaggia per immagini e sensazioni, con la slide e il dobro in evidenza, le chitarre energiche ma mai invadenti, un piano ritmico che sembra sbucato fuori da qualche ”barrellhouse” ed un cantante intenso e ruvido, ma modulato e pieno di soul, che a tratti ricorda Van Morrison da giovane, ma anche il debordante Mike Farris di “Salvation In Lights”.Non prendono nessuna scorciatoia, nessuna deviazione, né sentieri paralleli. Gli Statesboro, vanno dritto al nocciolo, non facendosi mancare nulla del bagaglio del Blues, incluso le armoniche, i cori gospel a sostenere le atmosfere paludose da Bayou, piene di passione e magia che hanno fatto di “Different Kind of Light“ un disco che suona duro e dolce come il pioppo e scuro come l’acqua del lungo fiume. Il cielo del Mississippi è chiuso da nuvole, ma non sono nuvole di pioggia, l’aria profuma di zucchero di canna e miele. Jim Dickinson ha
avuto il permesso di sbarco e cammina fin dietro l’angolo con il suo
cappello e la pistola dentro i jeans. Adesso, per purificarsi l’anima, è
arruolato per sempre nell’esercito della salvezza.
“Mona ha tentato di avvertirmi di stare alla larga dai binari ha detto che tutti i ferrovieri bevono il sangue come vino ed io ho risposto “oh non lo sapevo”, ma poi ne ho incontrato solo uno e mi ha solo affumicato le palpebre e forato la sigaretta.” (Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again”. (Bob Dylan).
“Keys to the Kingdom” i fratelli Dickinson lo hanno registrato rendendo omaggio al padre, scomparso nel 2009. Dentro ci sono tutti gli ingredienti emotivi e psicologici che il Blues sa spargere. Mentre suonavano queste canzoni magre e spigolose, sono stati raggiunti da vecchi amici come Ry Cooder, Mavis Staples e Alvin Youngblood Hart. Ne è venuto fuori un disco incazzato e amaro, impregnato di “canned heat”, itinerante e sgretolato come solo il Blues ancorato alla tradizione può essere. Luther Dickinson dimostra, ancora una volta, la sua bravura alla chitarra riuscendo a sostenere, insieme al fratello Cody alla batteria, un Blues scavato e sofferto che sa emanare calore umano e, nello stesso tempo, essere carismatico e semplice, che dosa tecnica e feeling rendendo cosi alcuni momenti davvero straordinari. Tutte cose che riescono solo ai fuoriclasse. Ecco che me ne andavo tranquillo per la mia strada, con la barba ispida e incolta e i capelli arruffati, quando in un sonnolento pomeriggio bussai alla sua porta, mentre i pescatori all’ombra delle querce bevevano birra e mangiavano salsiccia. “Va tutto bene”, mi disse guardandomi, “non saresti dovuto venire” proseguì, ma i suoi occhi rotondi e neri mentivano. La guardai intanto che il sole stava tramontando proprio dietro casa sua e l’unica cosa che riuscii a dire fu: “Che bello essere a casa”.
“Mona ha tentato di avvertirmi di stare alla larga dai binari ha detto che tutti i ferrovieri bevono il sangue come vino ed io ho risposto “oh non lo sapevo”, ma poi ne ho incontrato solo uno e mi ha solo affumicato le palpebre e forato la sigaretta.” (Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again”. (Bob Dylan).
“Keys to the Kingdom” i fratelli Dickinson lo hanno registrato rendendo omaggio al padre, scomparso nel 2009. Dentro ci sono tutti gli ingredienti emotivi e psicologici che il Blues sa spargere. Mentre suonavano queste canzoni magre e spigolose, sono stati raggiunti da vecchi amici come Ry Cooder, Mavis Staples e Alvin Youngblood Hart. Ne è venuto fuori un disco incazzato e amaro, impregnato di “canned heat”, itinerante e sgretolato come solo il Blues ancorato alla tradizione può essere. Luther Dickinson dimostra, ancora una volta, la sua bravura alla chitarra riuscendo a sostenere, insieme al fratello Cody alla batteria, un Blues scavato e sofferto che sa emanare calore umano e, nello stesso tempo, essere carismatico e semplice, che dosa tecnica e feeling rendendo cosi alcuni momenti davvero straordinari. Tutte cose che riescono solo ai fuoriclasse. Ecco che me ne andavo tranquillo per la mia strada, con la barba ispida e incolta e i capelli arruffati, quando in un sonnolento pomeriggio bussai alla sua porta, mentre i pescatori all’ombra delle querce bevevano birra e mangiavano salsiccia. “Va tutto bene”, mi disse guardandomi, “non saresti dovuto venire” proseguì, ma i suoi occhi rotondi e neri mentivano. La guardai intanto che il sole stava tramontando proprio dietro casa sua e l’unica cosa che riuscii a dire fu: “Che bello essere a casa”.
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