lunedì 15 ottobre 2012

Sul Letto Del Demonio


Lento ed inesorabile fu il declino. Dapprima lo aveva scrutato con sospetto, poi si era lasciato andare finendo sempre più giù, dove il blu diventa nero, dove il nero è l’unico colore per chi dorme sul letto del demonio. Seduto al crocicchio aspettava paziente bevendo gin e masticando tabacco, mentre corvi neri mulinavano sulla sua testa. Se n’era andato da molto tempo e, a furia di stare da solo, aveva finito col non fidarsi più di nessuno, neppure di se stesso. Tuttavia, quel fuoco profondo dentro di sé gli aveva riportato tutto in superficie, per cui certe cose andavano risolte: non poteva lasciar perdere, non se lo sarebbe mai perdonato. Era stato un bel ragazzo Rosario da giovane, uno di quelli per cui le donne facevano a gara ad uscire con lui. Nel quartiere lo chiamavano “Sarino faccia d’Angelo” , anche se a guardarlo oggi non lo avrebbero riconosciuto neppure i suoi vecchi amici: Rocco, Gaspare, Bruno, Lillo, ragazzi con gli occhi scuri e profondi come il mondo, carichi di speranza con cui aveva condiviso tutto, dalle prime seghe dietro il muro del torrente sbirciando i giornali porno, ai pochi soldi che riuscivano a raccattare per andarsene con l’autobus al mare, sulla spiaggia di Mondello, la località della Palermo “bene”. Si recavano la domenica mattina e ci restavano tutto il giorno, ed era in quelle giornate che si sentivano di appartenere al mondo dei vivi, sdraiati sulla sabbia a guardare le belle donne , divertendosi a chi gli veniva per prima duro. Sarino osservava quel mondo e pensava che ci sarebbe entrato dalla porta principale. Era convinto che un giorno avrebbe avuto il macchinone, la barca a vela e cenato al “Charleston” con ostriche e Champagne, non come a casa sua che se gli andava bene c’era un uovo fritto e l’ insalata di pomodoro. Non lo avrebbero riconosciuto i ragazzi con quella brutta faccia scura, la pelle flaccida, magro da fare paura, con le borse sotto gli occhi, i capelli grigi e lo sguardo febbrile che sembrava un condannato a morte. Gli mancavano i suoi amici e tutto quello che aveva lasciato, anche se quel tutto alla fine coincideva col nulla e gli mancava adesso anche quel senso del pudore che lo aveva abbandonato da troppo tantissimo tempo. Seduto nell’ombra tentava di spiegarsi quei pensieri, quelle strane sensazioni che lo inquietavano che lo avevano reso vulnerabile. Lui che non aveva paura di nulla. Neppure di Dio.

Guardò verso il cielo e sputacchiò il tabacco che fini sulla punta di una scarpa. Quel buco tra le nuvole gli parve la sua tomba che lo scrutava , che lo braccava. Ridacchiò nervoso ed accarezzò la pistola, e si sentì nuovamente sicuro, invincibile, come quando la usò per la prima volta in pieno centro a Palermo. Aveva sedici anni e l’aria da duro ma, nonostante la giovane età, era alto e con le spalle larghe, costruitesi nei cantieri a spalare terra e a trasportare cemento con la carriola. Due braccia forti e un fisico scolpito che avrebbe potuto fare il tuffatore se solo fosse nato dieci chilometri più avanti e non allo Zen. I boss lo avevano notato e tenuto sott’occhio: uno come lui non passava inosservato. Per tastare la sua affidabilità gli avevano prima assegnato lavoretti di poco conto, come la vedetta. Perlustrava tutto il giorno una strada e, se scorgeva qualcosa di anomalo, doveva solo avvertire il capo. In seguito, quando prese la patente, gli fecero fare l’autista delle femmine dei capoccia. Le accompagnava a fare compere o ad incontrarsi in luoghi segreti con il loro uomo, se era latitante. Qualche tempo dopo lo passarono alle estorsioni. Era ormai un uomo di fiducia, rispettava le regole e non discuteva mai un ordine. Se l’era meritato quel posto, anche perché aveva il cuore di pietra contro chi si azzardava a protestare anche minimamente al pagamento del pizzo. Infine lo istruirono a sparare nelle campagne di Bagheria. Ogni giorno si allenava per ore tirando alle lattine di birra ed in seguito alla sagoma. Ed è lì che mostrò il suo talento, non sbagliava mai un colpo .

Quando gli fu assegnato il suo primo lavoro da sicario, il Boss in persona lo andò a prelevare alla sala giochi. Sarino lo vide entrare e gli bastò un cenno degli occhi per capire che voleva parlargli in privato. Senza troppa premura, salutò i ragazzi ed uscì dalla sala. Si accomodò in macchina e restò in silenzio. Il boss guidò in lungo e in largo per la città. Giunti a Piazza Politeama, posteggiò la vettura e scesero. Camminarono per via Ruggero Settimo guardando le vetrine dei negozi, sempre senza parlarsi, ma non era in imbarazzo per quel silenzio, sapeva che qualcosa bolliva in pentola, doveva solo attendere. Cosi fu. Ad un tratto il Boss lo prese sotto braccio e, proferendo a bassa voce, gli spiegò la questione nei minimi dettagli. Due giorni dopo “Faccia d’Angelo” portò a termine il suo compito con precisione chirurgica. Scese dalla moto guidata dal complice, si avvicino all’uomo che gli avevano mostrato nelle foto e gli sparò in mezzo agli occhi. Dopo che cadde in terra lo osservò per un attimo gli puntò nuovamente il revolver alla tempia e fece nuovamente fuoco. Il sangue della vittima gli schizzò sui vestiti insieme a qualche brandello di materia cerebrale. Restò freddo e indifferente, poi, con molta calma, mentre i passanti scappavano terrorizzati, rimontò sulla moto e partì a tutta velocità. 

Divenne un sanguinario, una macchina telecomandata da Cosa Nostra, pronto in qualsiasi momento ad entrare in azione. Si arruolò per un periodo nella legione straniera dove perfezionò le tecniche di guerriglia, mentre il suo mito si espandeva oltre confine, a un punto tale che altre organizzazioni mafiose richiesero i suoi “servizi”. Dopo quell’uccisione si distaccò dai ragazzi, sapeva che la sua vicinanza li avrebbe potuti mettere in pericolo, loro rappresentavano la sua famiglia e lui da quel momento era un possibile obiettivo. 

Aveva piovuto abbondante durante l’inverno in Sicilia e il ciglio della strada era cosparso di fiori. Il rumore di passi lo mise in allerta, si spostò a ridosso del muro e osservò tre uomini aprire il cancello automatico ed entrare nella villa, ma erano troppo brilli e fatti di coca per accorgersi di quell’ombra nel buio. Li sentiva ancora oggi: il rumore di quei passi sulla scala che scricchiolava sotto il peso del corpo del suo patrigno. Un uomo dalla stazza enorme, un bruto che viveva di espedienti e alla sera si beveva al bar tutto il denaro che riusciva a raggranellare durante il giorno Non era stato il suo primo delitto. Quello era avvenuto molto tempo prima, appena dodicenne, nel silenzio di una notte senza memoria. Il patrigno tornava a casa sempre ubriaco fradicio. Lui e sua madre erano terrorizzati da quell’uomo al punto che iniziavano a tremare non appena lo sentivano salire per la scala di legno che portava a quel minuscolo pertugio chiamato casa. Sotto il suo peso la scalinata ondeggiava paurosamente e data la sua mole faceva una fatica boia a salire. Ad ogni gradino superato bestemmiava da fare schifo. Raggiunto il piccolo ballatoio, ansimando come un animale, apriva la porta con un calcio e, una volta dentro, sera per sera, senza motivo, li massacrava di botte. Una volta, furono talmente violente le bastonate che la madre rischiò di morire tant’é che finì in ospedale, quasi in coma, ma, nonostante ciò, la donna non ebbe il coraggio di denunciarlo.

Mentre era in convalescenza in ospedale, ci pensò lui a sistemare le cose. Non era più in grado di sopportare la disperazione che gli leggeva negli occhi. La quinta notte che trascorse da solo pioveva e faceva freddo. Aspettò accovacciato nel buio del piccolo ballatoio, attese paziente che il patrigno raggiungesse quasi la cima e a quel punto gli si piazzò davanti. Tenendosi con le braccia da parete a parete gli sferrò un calcio a piedi uniti in pieno petto. L’energumeno dapprima vacillò, cercando un appiglio, poi cadde pesantemente all’indietro rotolando per tutta la scala, finendo a sbattere la testa sul muro del portone d’ingresso. Morì sul colpo con l’osso del collo spezzato. Attese una manciata di minuti per vedere se arrivava qualcuno, dato il frastuono che la caduta aveva provocato, ma, come immaginava, nessuno si fece vivo. Scese le scale, si avvicinò per la prima volta a quell’uomo e, guardandolo con spregio, lo prese per i capelli e gli sputò in faccia. Poi risalì nuovamente le scale rientrò in quel buco e si mise a dormire. Lo trovarono all’alba accartocciato su se stesso, nell’androne di quella fatiscente abitazione . La sua morte divise il quartiere: per alcuni fu una disgrazia, per altri un segno di Dio. Non è facile allontanarsi da Dio, anche quando vai in rovina, anche quando ti ritrovi oltre la linea in cui batte il sole. Dentro di te sai che non puoi sfuggirgli, lo sai bene. Anche se il mondo dimenticasse i tuoi orrori, Lui non poteva farlo. Era davanti a Lui che ti saresti presentato un giorno. Come per chiunque era solo una questione di tempo. 

Ebbe tutto Sarino: soldi, donne e potere, la bella vita che aveva sognato. Poi, quando dopo un omicidio eccellente l’aria si fece troppo calda, l’organizzazione lo spedì in America al servizio delle famiglie che comandavano a New York. Lì le cose cambiarono di molto. Era un ricercato e doveva vivere nell’anonimato più totale. Troppi segreti celava per potersene andare per i fatti suoi. Si stabilì nel quartiere italiano, in un appartamento senza pretese perché, anche se possedeva una montagna di denaro, non poteva usarlo senza dare nell’occhio. Il suo nome era ormai tra quelli dei mafiosi più pericolosi . A New York viveva come un eremita. Quando c’era da fare un “lavoro” veniva contattato tramite una cassetta di sicurezza dove trovava le indicazioni e il denaro contante. Portata a termine l’operazione  restava da solo al chiuso di quell' appartamento che stava diventato un supplizio.


Era un uomo schivo Sarino, ma leale, non metteva nessuno a rischio che non facesse parte del giro. Per questo motivo non s’innamorò mai, aveva appreso bene che non era possibile tenere una relazione. Questo lo avrebbe reso debole e un facile bersaglio. Ma la solitudine lo stava consumando a piccoli bocconi, tanto che cominciò a bere e fumare hascisc. Quando si annega ci si appiglia a qualunque cosa. Quella sera si era scolato due bottiglie di vino rosso ed era uscito, aveva voglia di camminare. Aveva saputo che sua madre era morta tramite un messaggio che aveva trovato nella cassetta di sicurezza. Avrebbe voluto correre da lei, metterle un fiore sulla tomba, ma era rinchiuso in quel carcere all’aperto che per lui era diventata da anni New York. Camminava col suo tormento e si chiedeva il perché di tutto questo. Era a secco di energia, si stavano spalancando le feritoie della sua corazza, si erano rimossi quei brandelli di vita che possono essere la nostalgia o il rimorso. Così quando passò dal quel locale e decise di entrarci per continuare a bere non pensava che l’imponderabile era lì che lo attendeva. Si accomodò nel salottino buio ordinando dello scotch liscio. Il locale era pieno di gente, sul piccolo palco un quartetto di jazz stava suonando. Non aveva mai provato interesse per la musica, se si sforzava non riusciva neanche a ricordare una canzone, ma il suono di quel sassofono, quei colori, l’intensità di quella musica, man mano che prestava la sua attenzione, si insinuavano dentro di lui profondamente, provava emozioni che non sapeva di possedere.

Tutto in una volta sentiva la tristezza, la disperazione, ma anche la gioia. Cos’erano quelle sensazioni, da dove arrivavano, chi era stato per tutto questo tempo, dove aveva vissuto, perché non voleva che smettessero di suonare? Era come se si fosse iniettato una droga che faceva male, che lo feriva nel profondo, ma nello stesso tempo era anche una coltre calda, come le carezze di sua madre quando era tornata dall’ospedale. Lei glielo aveva letto negli occhi, sapeva quello che era accaduto ed appena entrata in casa lo aveva abbracciato a lungo, tenendolo stretto a se, e lui si era rannicchiato impaurito tra le sue braccia. Cosa avrebbe fatto Dio di lui, un uomo che lo aveva sfidato, vilipeso, una pietra senza muschio, un tronco senza radici, un pazzo scellerato che aveva fatto un patto con il Diavolo e che adesso chiedeva clemenza. Che avrebbe fatto Dio di lui che aveva sempre vissuto nel male, nell’’oscurità delle tenebre, che aveva provocato dolore e morte? Se lo domandava giacché sapeva che il sangue era difficile da pulire.

Dopo quella sera, Rosario tornò spesso al club, tanto da farsi anche amico di molti musicisti che lo rispettavano perché era pieno di passione, che traspariva da tutto il suo corpo quando ascoltava il jazz. La sua vita era mutata. New York non era più una prigione. Il giorno lo trascorreva quasi sempre al negozio di musica. Aveva acquistato lo stereo, insonorizzato la stanza ed era riuscito a comprare tutti i dischi che man mano desiderava in vinile. Si era innamorato perdutamente del suono del sassofono. John Coltrane e Charlie Parker erano i suoi preferiti, conosceva tutto di loro, si era documentato attraverso i libri che aveva imparato a leggere e i giorni colavano via. Non aveva il minimo sentore di quello che gli sarebbe caduto addosso. Si sentì male durante la notte, prese a vomitare sangue, era a pezzi. L’indomani, quando andò dal dottore in una clinica privata,lo sottoposero a tutti gli accertamenti e il responso fu: cancro. Gli restavano ,ad esagerare, sei mesi di vita . Rifiutò tutte le cure, prendeva solo la morfina quando il dolore si faceva insopportabile . Ogni giorno andava un infermiera che lo controllava e che pagava profumatamente per il suo silenzio. Era invecchiato tutto in una volta, stava diventando uno scheletro, non usciva quasi più ma continuava ad ascoltare il jazz, l’unica cosa che lo rasserenava. Si era comprato anche un sassofono che teneva sempre con sé e che  soffiava leggermente quando sentiva di avere un po’ di forza in più. Di colpo non voleva morire, lui che con la morte ci andava a letto.


Pioveva sulla città gocce grandi come palle da biliardo. Era uscito per fare delle piccole compere, entrò nell’edificio e salì le scale. Arrivato alla porta del suo appartamento vide il segnale. Uscì nuovamente e andò alla cassetta di sicurezza. Prese il plico, lo nascose dentro la giacca, richiuse la cassetta e tornò a casa. Lesse gli ordini: lo volevano in Sicilia per un lavoro che solo lui poteva portare a termine. Ma Sarino non era più in grado di farlo, non perché avesse il cancro, ma perché adesso era un altro uomo, era un’altra persona che nessuno conosceva, che nessuno aveva mai visto, non era più in grado di sparare solo perché gli era stato ordinato. Adesso desiderava solo di starsene sospeso, con la musica, tra le nuvole per afferrare tutto quello che si era perso, anche le cose più insignificanti, che poi sono quelle che ti aiutano a resistere.


Ripiegò il plico e lo bruciò nella scodella. Raccattò tutte le cose che poteva portarsi e quella sera stessa andò via da New York. Prese un aereo diretto a Parigi e si sistemò in una pensione. Non gli restava molto da vivere e nella sua faccia cinerea si poteva leggere il rimpianto e l’amarezza per non avere mai saputo chi fosse. Ma un soldato non può disobbedire agli ordini, la reazione di Cosa Nostra a quello sgarro fu spropositata. Neanche lui si aspettava una cosa del genere. Tutti in un giorno furono ammazzati i ragazzi come scarafaggi: Rocco ,Gaspare, Bruno, Lillo, persone innocenti che avevano avuto la sfortuna di essergli stati amici. Anche se non lo vedevano da anni era sempre nei loro pensieri, nei loro cuori. Gli mancava Sarino enormemente come loro mancavano a lui . Ma la mafia è una bestia crudele che ti spreme dalla coda, per succhiarti il cervello che colpisce chiunque con inaudita ferocia.. Che non ha rispetto per nessuno, se non per i suoi sporchi traffici. Questo aveva imparato.

Un paio di giorni dopo aver appreso la notizia, affittò una macchina e viaggiò fino a Milano. Lì cambiò auto fino a Firenze dove sostituì ancora la vettura. Quando stava per arrivare a Villa San Giovanni, dal ponte dell’autostrada vide la costa della sua terra ma non provò nessuna emozione. S’imbarcò sul traghetto e raggiunse la Sicilia. Arrivò a Palermo nella notte. Prima di lasciare Parigi aveva aperto dei conti correnti a nome delle famiglie dei ragazzi dove aveva depositato tutti i suoi soldi. Stava a loro accettarli o meno . Nessuno sapeva che un giorno a Pippo “u Surici “ aveva salvato la vita e da allora gli era debitore. Sarebbe passato ad incassare la ricompensa. Gli bussò alla porta in piena notte che quasi schiattava dalla paura. Quando aprì non lo riconobbe subito. Sarino restò fermo sull’uscio, poi prese a parlargli e fu allora che “u Surici” capì chi era e l’abbracciò. Sarino gli spiegò cosa avrebbe dovuto fare, poi si allontanò nel buio. Il giorno dopo verso le nove di sera al posto convenuto Pippo si presentò puntuale e gli fornì le informazioni richieste. Tutto era rimasto tale e quale a quando aveva lasciato Palermo. Rosario gli disse che aveva apprezzato quanto  fatto e gli allungò del denaro che lui rifiutò dicendo che i ragazzi non si meritavano quella fine. Si salutarono e andò via. Raggiunse Carini dall’autostrada. Una volta uscito dallo svincolo attraversò il paese ed arrivò nella zona dove c’erano le ville dei capi cosca,lo conosceva bene quel posto per averlo in passato frequentato. Era estate, il caldo era soffocante. Prima d’imboccare la stradina che portava alla villa posteggiò la macchina e s’incamminò a piedi. Si nascose nell’agrumeto, dietro il muro a secco, ed aspettò.


Il Boss era abitudinario, non aveva nessun timore ad uscire da solo, le famiglie erano in pace non correva pericoli. Alle cinque del mattino il cancello automatico della villa si spalancò ed il Capo uscì in pantaloncini e maglietta per la sua consueta camminata mattutina. Rosario aspettò che il cancello si richiudesse. Mentre il capo prese a camminare verso l’agrumeto, gli sbucò dal buio e l’affiancò. I due si guardarono negli occhi per un lungo istante e mentre il "morto che camminava"  capì cosa stava per succedere, un rumore sordo squarciò il silenzio, la pallottola gli spappolò il cervello e cadde riverso in terra. Rosario trascinò con fatica il corpo dietro il muro a secco, lo ricopri con rami e foglie di limone, prese il telecomando dal piccolo borsello che portava al collo e si diresse alla villa. Da fuori con un colpo preciso uccise il pitbull, ed entrò. Passò veloce il terrazzino, arrivò alla porta di casa . Salì le scale con movimenti rapidi e silenziosi, raggiunse il piano notte, sgusciò nella stanza da letto,dove la moglie del boss dormiva con il televisore acceso, si avvicinò , prese il cuscino, lo appoggio delicatamente sul volto della donna e gli sparò. Uscì dalla stanza e si diresse dove dormivano i tre figli, li sentì russare. Non si accorsero nemmeno di morire.Rifece il percorso inverso , raggiunse la macchina, imboccò l’autostrada ed uscì ad Alcamo est. Salì fino al paese e proseguì per la strada provinciale che portava a Sciacca. Arrivò in quel luogo che conosceva  perché aveva accompagnato le donne dei boss quando faceva l’autista. Era un radura circondata dai vigneti, ma non era visibile quello spiazzo dalla strada, ci potevi arrivare solo se conoscevi il luogo.

Scese dalla macchina lasciando lo sportello aperto,dal sedile prese il sassofono si sentiva terribbilmente stanco, il dolore si faceva fortissimo. Si portò fino al centro della spiazzo, tirò fuori la pistola dalla cinta e la lanciò il più lontano possibile. S’inginocchiò in terra, ne raccolse un pugno s’imbrattò il viso e ne assaporò un po’: in quel momento per la prima volta sentì l’odore delle zagara, del gelsomino, dell’uva, dell’erba fresca, si rannicchiò in posizione fetale sotto il sole che sorgeva e si strinse forte al cuore il sassofono. Restò in quella posizione due giorni e due notti come un animale braccato che si leccava le ferite, ebbe gl’incubi e tutti quelli che aveva ammazzato lo andarono a trovare. Li chiamò per nome uno ad uno, mentre finalmente il suo essere prendeva forma .Poi sognò i ragazzi in un punto irraggiungibile che gli sorridevano e fu allora, che Faccia d'Angelo chiuse gli occhi per la prima volta nella sua vita. Dolcemente.

Bartolo Federico




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