Cosa avrà provato il piccolo Willie Johnson
quando quel liquido tossico lo accecò, cosa fece dopo che quel secchio
da bucato gettato con rabbia durante una lite tra suo padre e la
matrigna gli bruciò le pupille. Forse avrà corso con le mani sugli occhi
piangendo per il dolore e la disperazione attraversando i campi di Marlin in Texas
senza riuscire a fermarsi mentre il mondo si oscurava per sempre. Avrei
voluto essere li e tenerlo forte, abbracciarlo sorreggerlo ed avrei
pregato Dio in qualche modo affinché gli restituisse la vista. Avrei
voluto esserci quando scisse “Dark was the night And Cold The Ground
“ un blues strumentale che esprimeva il dolore la sofferenza, il bene e
il male, con note raschiate sulle corde della chitarra da un coltellino
usato come slide, mentre spargeva tutto il suo tormento. Avrei voluto
vederlo suonare per strada mentre predicava, perché era nella fede che
si era rifugiato per trovare ristoro ad una vita fatta di stenti e
miseria. Avrei voluto conoscerlo ed essergli amico.(L'anima Di Un Uomo- tratto da Viaggiatori Nella Notte)
sabato 22 febbraio 2014
giovedì 20 febbraio 2014
I Nati Perdenti(Fratelli Bastardi)
I “nati perdenti”, con la strada sempre in salita. E
quando arrivava la notte ci si scaldava con quell’urlo disperato che era
Born To Lose di Johnny Thunders, un altro che macinava rock’n roll a
mille. Un “Keith Richard dei poveri” che non si è fatto mancare nulla
nella sua esistenza fino ad auto distruggersi; troppo innamorato del
rock per capire che la sua non era finzione. E dopo tutta quell’energia
si restava da soli, perché alla fine si resta sempre soli, e ci si
accarezzava il cuore con “Devon Song” degli Only Ones di Peter Perrett,
un cantante che sembrava un incrocio tra Dylan e Lou Reed. Saliti e
subito scesi dal podio grazie ad una canzone "Another Place, Another
Planet" che ancora oggi resta bella e malata, figlia di quei fiori
selvaggi, di quel bianco calore che erano i sogni di velluto. Musica
schietta, sincera, cosi sincera da farti male, molto male se avevi il
cuore a pezzi e gli occhi gonfi.(Fratelli Bastardi tratto da: Viaggiatori Nella Notte )
The Clash -I'm Not Down -
Non Sono a Terra
Se è vero che un uomo ricco conduce una vita triste
E questo è quello che dicono giorno dopo giorno
Allora cosa dovrebbero fare tutti i poveri delle loro vite?
Nel giorno del giudizio con niente da dire?
Sono stato picchiato, sono stato cacciato
Ma non sono a terra , non sono a terra
Sono stato svergognato, ma sono cresciuto
E non sono a terra, non sono a terra
Da solo ho affrontato una gang che derideva in strade sconosciute
Con i nervi che pulsavano io
Ho combattuto la mia paura, non sono scappato
Non ero finito
E ho vissuto certe giornate
Quando i dolori non vanno via
Vai giù e giù e cadi sul pavimento
Giù e giù e giù ancora un po’
Depresso
Ma so che ci sarà qualche modo
Quando posso oscillare tutto torna a modo mio
Come i grattacieli in salita
Piano dopo piano, io non mi arrendo
Così vai in giro pensando che
Tu sei il più duro
Nel mondo, di tutto il mondo intero
Ma sei su strade lontane da dove
Si diventa più duri
Tu non sei stato lì
Non sono a terra
martedì 18 febbraio 2014
Giorgio Gaber - Qualcuno era comunista-
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà. .. la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una
promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre.
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica.
Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva,
il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche. . . lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era comunista perché prima... prima...prima... era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona. Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l'operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l'aumento di stipendio.
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe...
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava solo RAI TRE.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.
Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
Qualcuno era comunista perché c'era il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c'era niente di meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d'Europa.
Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant'anni di governi democristiani incapaci e mafiosi.
Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l'Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera...
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come... più di sé stesso.
Era come... due persone in una.
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No. Niente rimpianti.
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare...come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due.
Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente
lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.
Woody Guthrie~ All You Fascists Bound To Lose -
Sto per dirvi una cosa, fascisti
che potrebbe sorprendervi
la gente di questo mondo
si sta organizzando
e voi perderete,
sì, fascisti, voi perderete
L'odio razziale non può fermarci
sappiamo solo questa cosa
la vostra tassa nominale , il vostro "Jim Crow"
la vostra ingordigia devono sparire
e voi perderete,
sì, fascisti, voi perderete
Tutti voi, fascisti, perderete:
L'ho detto: tutti voi, fascisti, perderete
Sissignore: tutti voi, fascisti, perderete,
perderete! Voi fascisti
perderete!
Gente d'ogni colore
che marcia fianco a fianco
che marcia per questi campi
dove un milione di fascisti muore
e voi perderete
sì, fascisti, voi perderete!
Sto andando a questa battaglia
e prendo la mitraglia
la faremo finita con questo mondo di schiavitù
e prima che questa battaglia sia vinta
voi perderete,
sì, fascisti, voi perderete!
lunedì 17 febbraio 2014
The Byrds- Here Without You - a Gene Clark tribute-
Daytime just makes me feel lonely
At night I can only dream about you
Girl you're on my mind nearly all of the time
It's so hard being here without you
Words in my head keep repeating things that you said
Wen I was with you
And I wonder is it true do you feel the same way too
It's so hard being here without you, being here without you
Though I know it won't last I'll see you some day
It seems as though that the day will come never
But there's one thing I'll swear though you're far away
I'll be thinking about you forever
The streets that I walk on depress me
The ones that were happy when I was with you
Still with all the friends I know and with all the things I do
It's so hard being here without you being here without you
The Byrds "Mr. Tambourine Man" Columbia Records 1965
The Byrds "...In The Beginning" Columbia Records 1988
Gene Clark & Carla Olson "Silhouetted In Light"
Demon Records 1992
mercoledì 12 febbraio 2014
Ragazzina Malinconica
Pur
di non sviare, si prende la solita strada conosciuta e si ripassa davanti alle medesime
cose. La prima a sinistra in direzione nord, diritto per un chilometro, e poi svolta
a destra. Il semaforo. E’ rosso, porca puttana. Mentre aspetti, tamburelli con
le dita sul volante, e getti un occhiata veloce al conducente che ti sta a
lato. Ripartenza. La curva a gomito, la salita, ancora qualche chilometro, svolti
a sinistra e subito a destra. Il vialone, il primo incrocio, il secondo,
inserisci la freccia e ti arresti. Alla fine si perde l’entusiasmo a fare
sempre le stesse cose, lo slancio, il fervore, e ci si ritrova infelici, ammuffiti
come il gorgonzola. Certo, non è che vivere rinfocolando sporchi dubbi, che non
fanno altro che farci sbandare in inclinazioni disastrose, ci migliora. E non è
che questo difetto regredisca con l’età, anzi. Sono davvero un insolente, un
esaltato (questo me l’hanno appena detto), lo riconosco, che non vuole capire ciò
che, invece, per tutti è già chiaro. Una notizia data nei tiggì, un articolo
sui quotidiani nazionali, un post indignato sul blog del giornalista fighetto, i
commenti di approvazione dei followers devoti, e inizia un inferno senza fine.
La notizia ha fatto il suo corso e non ci sono alternative a quell’insindacabile
giudizio. Ma sono un depravato senza cuore, che deve sempre esprimere un dubbio
alle verità consacrate, e voglio comprendere quello che non mi dicono. E allora
continuo a battere i piedi. In questo modo sarà più complicato tenersi in
equilibrio, la spinta e la grinta di questi grandi inquisitori, è energica, ma
vale la pena opporsi. Dopotutto ragiono; questi tizi che scribacchiano (ci sono
anch’io) mica sono come i miei amici Bukowski,
Cèline, Kerouac, e a questa lista ci
aggiungo pochi altri. Loro sì che hanno dato in pasto al mondo l’anima sinceri
e puri, che puoi vederne gli anfratti e prenderla a morsi, mentre scorri quelle
frasi spudorate e ribelli, che hanno impresso sulla carta, e con cui hanno
colto il senso delle cose. Da veri scrittori hanno dato voce a chi voce non ne
aveva. Ma vanno letti senza fretta, assaporarli come un buon bicchiere di vino,
per non perdere nulla. Anfetaminici, febbrili, sognatori, romantici, visionari,
si sono fatti scoppiare la milza per raccontarci la conoscenza a cui sono
approdati. Fino al delirio. Nei loro versi puoi sentire i tasti della macchina
da scrivere ticchettare nella semioscurità, il respiro affannato delle parole
che si inseguono, la puzza d’alcool, il fumo, la miseria, le bestemmie, la
iella, le stagioni che passano, gl’incubi, i rovesci di pioggia, e il silenzio.
E non c’è mai nessuna condanna nei loro capitoli per la miseria umana. Mai. Perché
la verità non esiste, esistono solo le storie, che ci portiamo appreso per
vivere. Così anche tu, a poco a poco, ti senti come loro. C’è un tempaccio
infame fuori e anche nella mia testa. E’ il troppo amore che alle volte ti fa
commettere delle sciocchezze. Tempo fa bruciai un disco, semplicemente perché quelle
canzoni mi facevano stare male. Ci buttai dentro quel fuoco anche un libro che lei
mi aveva regalato. Jimi Hendrix incendiò
la chitarra sul palco di Monterey, dopo averci scopato per tutto il set. Sotto
gli occhi attoniti del pubblico. Si commettono gesti insoliti per amore. Capita
per mille ragioni di volere far svanire qualcosa che abbiamo adorato. Con
questo non voglio dire che tutto sia concesso, lungi da me. Ma ognuno ha il
diritto di sbagliare, correggersi, squarciare e rammendare, senza che per delle
stupidate si venga additati a criminali da punire. Si possono prendere altre
strade, forse il tragitto sarà più tortuoso, pieno di buche, polvere e inquietudini,
ma è l’unico che conosca per arrivare in fondo al viale.
Siediti, hmm, e conta le tue dita.
Cosa, che altro puoi fare? So quanto tu possa sentirti solo, so che ti senti
finire. Ma vai avanti e siedi con la testa reclinata all’indietro. Vai avanti e
contati le piccole dita, mio infelice, mio sfortunato. Oh my little girl blue. Oh,
siedi, conta queste lacrime, sentile cadere giù. E’ miele tutto intorno a te. (Little Girl Blue - Janis Joplin).
Bisogna sempre restare ai margini per
proteggersi dall’avidità umana. L’isolamento, però, non sempre è positivo, alle
volte bisogna anche ricaricarsi. Janis
Joplin è stata una donna intrisa di una immensa sepolcrale solitudine. Una
delle migliori cantanti di blues che io abbia mai ascoltato. Forse la migliore.
Una lacrima continua, che si accendeva di passione quando era sul palco. Una vita
sottosopra, in un sogno che in qualche modo la sosteneva mentre se ne andava da
sola verso la casa del diavolo, cantando e lanciando grida atroci al mondo.
Bene, le febbri della notte bruciano
una donna che non è amata. Si, queste rosse e calde fiamme tentano di cacciar
via il vecchio amore. Una donna lasciata sola è la vittima del suo uomo, sì che
lo è, quando lui non può continuare sulla sua strada. Buon Dio, lei ha dovuto
fare del suo meglio, oh si! Una donna lasciata sola, Signore, una ragazza sola,
Dio, Dio.. (A
Woman Left Lonely).
Gli anni sessanta per molti
giovani americani sono stati la scoperta del sesso, della droga, della protesta
contro la guerra, del mito del viaggio, con e senza pastiglie, e dell’attraversamento
della frontiera. L’avevano eletta “l’uomo più brutto del campus” i suoi
compagni d’università (probabilmente tanti futuri radical chic) e fu a quel punto che quella ragazzina malinconica
fece le valigie e se ne andò in California, la terra promessa, la terra
dell’uva. Lei, una texana di Porth Arthur, approda a San Francisco nel
quartiere Haight Ashbury frequentato
dagli hippie e prova da subito a farsi sentire cantando il blues, in quei locali
che entrarci è già di per sé un grosso rischio. Su segnalazione dei genitori la
polizia la rintraccia, e viene fatta tornare in Texas già intossicata di
metedrina. Ma ormai il seme della ribellione è germogliato in quel corpo goffo
e paffutello. Così, dopo qualche tempo, ricompare a San Francisco, dove viene
ingaggiata come cantante da Chet Melms,
manager dei Big Brother And The Holding
Company, un gruppo di rock-blues che senza di lei sarebbe stato destinato
all’oblio. Aveva nuotato nella pioggia e si era ubriacata nei blues di Bessie Smith e Billie Holiday, due grandi cantanti. Da loro aveva scrutato,
riprodotto, imitato, simulato, saccheggiato, acquisito la drammaticità di
cantare il blues, che se non sgorga dall’anima, hai voglia a spingere l’ugola,
non viene fuori nulla. Al massimo Yellow Submarine.
L’appartamento che da poco tempo ho
preso in affitto si trova nella zona nord della città ed è in un vecchio
palazzo di colore giallino di cinque piani, costruito nei primi anni sessanta.
Nella mia scala ci abita un marinaio ricoperto di tatuaggi, un operaio disoccupato,
un postino, un salumiere, un venditore ambulante e, proprio sopra al mio
alloggio, una maestrina di scuola elementare, la signorina Lina. Il quartiere
pullula di persone che vivono di espedienti e che sanno tirare avanti, nonostante
i banchieri, la grande finanza, e quei fottuti governanti. Gente fallita, folle,
che dalla vita non pretende molto. Gli basta comprarsi le sigarette, un gratta
e vinci, mettere la benzina nel furgone, farsi qualche birra e un po’ di spesa
al discount. Cose così. Persone disprezzate da molti, ma in fondo anche ammirate,
per la libertà assoluta di muoversi dentro una crisi che, invece, sta uccidendo
troppa gente che guarda, inerme, consumare il proprio disastro. È molto meglio essere
consapevoli del proprio stato e responsabili della propria sorte, piuttosto che
farsi infiorettare da quelli che usano frasi roboanti richiamando falsamente i
valori di Libertà, Democrazia, Uguaglianza. Gente ipocrita, che ha in mano la
nostra vita. Tutta merda, quella. Janis
Joplin se ne stava avvinghiata all’asta del microfono con la bocca
impastata e il pubblico che la guardava inebetito da sotto al palco. Tutti
sognavano dietro quella voce incatramata di raucedine e di Southern Confort (mai nome più bello è stato dato ad un whiskey), un
torcibudella micidiale. Lo mandava giù a litri, e più incamerava alcool più
diventava magnetica, quella stella luminosa e bellissima. Entrava in trance
mentre si esibiva e il suo dolore sgorgava fuori da tutti i pori insieme alle sue
visioni e a quelle sensazioni speciali che bruciava con tutto il pubblico. Non
si risparmiava in alcun modo, quella bambina. Per Dio! non lo faceva. L’ansia e
l’angoscia la divoravano, e quello era l’unico modo che aveva di scacciare i demoni
che l’avevano presa in custodia, da quando un giorno si accorse che le promesse
ricevute erano solo falsità.
Tempo d’estate, tempo, tempo. Bimbo,
la vita è facile. I pesci saltano fuori. E il cotone è alto, Signore, così
alto. Tuo padre è ricco e tua madre è di così bell’aspetto. Lei si presenta
bene, adesso. Silenzio, bambino, bambino, bambino, No, no, no, non piangere! Non
piangere! (Summertime-Janis Joplin)
L’avevo incontrata al market il sabato mattina, la maestrina Lina, sempre solitaria. L’avevo scrutata un poco, prima che lei mi scorgesse, e sbirciata di soppiatto aggirarsi nel reparto dei liquori mentre agguantava una bottiglia di bourbon, celandola abilmente nel carrello della spesa, in mezzo alle verdure. Forse non voleva farsi scoprire da nessuno, non voleva far sapere che anche lei sentiva quell’angoscia torturarle il cuore e il freddo frantumarle le ossa. E in quei casi che riempi il bicchiere di qualunque cosa purché sia liquido, e cominci a pensare. Dopo ne riempi un altro pensando invece che sia quello suo, e via via, altri ancora, in rapida successione, per ritrovarsi in fondo alla stanza a parlare da soli nell’oscurità, credendo sia la notte. Rientrai in casa pensando e ripensando. Sapevo che da quel posto me ne sarei andato presto, ma non potevo stabilire quando questo sarebbe successo. Mi erano capitate troppe cose in quell’ultimo periodo perché avessi ancora voglia di fare programmi. Continuai a scrivere per tutto il giorno il pezzo che mi era stato sollecitato dall’agenzia, lo rilessi una volta sola svogliatamente e spensi il computer. E’ di sera che ho il bisogno di sentire qualcuno vicino. Lei sarebbe rimasta con me, noi due da soli, e sarebbe andato tutto bene. Feci un po’ di pulizie nel soggiorno e nel bagno, erano le nove e mezza o poco più. Le percepii per caso, le note spezzate di “Nobody Knows You When You’re Down And Out” provenire dall’appartamento della signorina Lina, un brano del 1929 di Bessie Smith. La cantante che ha tracciato la strada a tutte le cantanti blues che sono giunte dopo di lei. Aveva uno stile ruvido, Bessie, e il suo blues era malsano e soffocante, e lambiva i confini del jazz, con quegli arrangiamenti tipici delle orchestrine degli anni venti. La sua musica calda e intensa era l’immagine del suo tormento e della sua grande anima che faceva scuotere, non appena apriva bocca. Una donna libera che conduceva una vita eccessiva, anche se l’alcool che ingeriva se lo prendeva tutto il suo dolore. Quel giorno, il 26 settembre 1937, stava guidando, probabilmente ubriaca sulla Highway 61 dalle parti di Clarksdale nel Mississippi, quando ad un tratto la sua auto si scontrò con un camion, e l’imperatrice del blues, così era chiamata Bessie, morì dissanguata. Giunta in ospedale, le fu negata una trasfusione di sangue era pur sempre una negra, quella. Nessuno ti conosce quando sei povera e disperata e in tasca nemmeno una moneta. (Nobody Knows You When You’re Down And Out). Janis Joplin pagò di tasca sua la lapide per la tomba disadorna di Bessie Smith.
Sentii bussare alla porta e trasalii un
attimo, poi andai ad aprire. “Salve”, mi disse la signorina Lina. Non le risposi
subito, non me l’aspettavo di trovarmela di fronte, ma lei passandomi davanti
entrò in casa. La feci accomodare nel soggiorno e si sedette accavallando le
gambe, con un gesto che trovai seducente. “Non sembra contento di vedermi se
vuole vado via”, mi disse. “No” - le risposi- “è che non me l’aspettavo”. “Cosa
mi offre da bere, eh mister x”, m’incalzò. “Gradirei un whiskey, se è possibile”.
Con la schiena voltata verso il muro, mentre riempivo i bicchieri, le chiesi: “Che
cosa le fa male, Lina. Cosa c’è che non va?” La voce era esitante. “Niente, non
c’è niente che non vada, ma non ho nessuno con cui parlare, nessuno a cui
spiegare le cose che mi accadono”. Mi sedetti sulla sedia di fronte a lei e
accesi una sigaretta. Mi guardava con espressione ansiosa, eravamo due perfetti
estranei fino a un momento fa. Ma, adesso, stando lì, una di fronte all’altro, riuscivo a spiegarmi
molte cose. Non avevo mai provato niente di simile in vita mia. Bevve un sorso
lungo, che quasi si soffocava. Le stavo parlando con grande calma, la guardai,
era graziosa anche con la faccia stravolta. Una donna, un whiskey e una bella canzone.
Adesso, nessuno dei due aveva più fretta. Intanto la radiolina in cucina suonava
Piece Of My Heart.
Nel 1968 Janis Joplin lasciò i Big
Brother And The Holding Company per cercare di imporsi come cantante solista. Una
strada dura per una donna, ma lei non amava le cose facili. L’alcool e la droga
scorrevano a fiumi nel suo corpo, e l’effetto di questa devastazione si
cominciava a sentire anche sulla sua voce, diventata tremante e incerta. Era
entrata completamente nel personaggio maledetto e non poteva più tornare
indietro, neanche se lo avesse voluto. Anche il blues del suo adorato Leadbelly non le faceva attraversare più il sole. Giaceva immobile in
quell’angolo della stanza, mentre ombre d’argento solcavano il soffitto e un odore
strano gl’imbottiva il naso. Il suo arrivo al festival di Woodstock la mostrò come un relitto fluttuante nell’oceano. Zuccherosa
di morte. Continuava a piovere, ma lei restava con la testa e il corpo esposti dalla
parte dei venti, viaggiando in direzione del cuore, che lei e solo lei poteva
toccare con le dita. Era così bella in quegli abiti sgargianti e anche la sua
goffaggine per un attimo sparì. Ma, adesso, mentre sprofondava nel sonno, andava
alla cieca, come un cavallo drogato, quella ragazzina con i jeans e gli
occhialini rotondi. Ha solo ventisette anni e un ago ancora in vena quando la
trovano riversa nella sua stanza del Landmark
Hotel di Hollywood il 4 ottobre del 1970. C’era un caos in
quella camera come nella sua testa. Bottiglie di Southern Confort, pillole e un
letto disfatto e imbrattato di tutto. Ma, soprattutto, c’è lei la ragazzina
malinconica. Il corpo seminudo, coperto a malapena da una vestaglia, ormai
ridotta a brandelli, e un braccio fuori dal letto, macchiettato da piccoli forellini
rossi. I fori dell’ago. L’ho bruciata, a furia di sentirla in una notte di
tormento continuo,“Little Girl Blue”. Nessun bollore dura a lungo, fa presto a
passare. Il freddo, quello sì, che è interminabile.
Bartolo
Federico
domenica 9 febbraio 2014
Viaggiatori Nella Notte – (Brividi blues fantasmi e una calibro 38)
Quando ci si trova ad
esprimere un parere a riguardo della produzione artistica di un autore
debuttante (il bravo Bartolo mi perdonerà se a mezzo secolo compiuto lo
definisco così) si corrono sempre dei seri rischi. Quali? Il primo è
prevalentemente a carico dell’autore stesso. Troppi, infatti, si improvvisano
scrittori, poeti, cantanti, attori, ballerini e via dicendo, e tra mille e
mille di questi solo uno, forse, ha virtù e contenuti per definirsi tale e
magari nemmeno lo sa. Può accadere, per ovvia conseguenza di questo non
propriamente favorevole rapporto numerico, che chi è chiamato (a qualunque
titolo) a pronunciare una valutazione su una tale opera di un tale sedicente
artista finisca con l’apparire spietato nel momento di lasciarsi andare ad un
commento franco perchè il più delle volte è una bocciatura in tronco. La mia
esperienza, e da qui in poi mi riferirò solo alle produzioni letterarie perché
presumibilmente di tale fatta possono essere denominate quelle del buon
Bartolo, è che qualunque espressione di bocciatura, ancorché intrisa di ironia,
disinvolta caricatura o persino di aperto disgusto, incide solo un poco
sull’emozione dello sfortunato e criticato artista che, superato l’eventuale
iniziale smarrimento, riparte alla carica nell’imbarazzo di tutti coloro che,
vicini di casa, parenti, colleghi e malcapitati del giorno, riprendono a subire
la rimonta dell’incontrollabile impulso all’esposizione del proprio prodotto. A
quanti piace guardare l’album delle foto del matrimonio che i novelli coniugi
si affannano a sottoporre, prima di cena e dopo cena, a tutti quelli che non se
ne possono infischiare di meno? E’ così che funziona.
Il secondo rischio, invece, è a esclusivo
carico di chi giudica. Avviene, in quel famoso uno su mille, che l’opera piaccia.
In questo caso il giudicante deve, e ripeto deve, dar conto e ragione di questo
innamoramento artistico ed individuarlo (con l’obbligo di apparire competente)
nell’uso appropriato di una forma linguistica, nella dotta elaborazione del
contenuto letterario, nella forza adulatoria e seducente della storia narrata e
dei sentimenti che la condiscono, e così continuando. Ma cos’è un’appropriata
forma linguistica? Di sicura sappiamo che Omero, nelle traduzioni di Vincenzo
Monti, e Leopardi non tornano più, ahinoi!, e la letteratura contemporanea ha
in buona misura messo da parte, a torto, ogni lirismo linguistico, ma non è
forse vero che Charles Bukowski o Ferdinand L. Celine, i primi che mi vengono
in testa, che di virgole, punti e virgola, minuscole, maiuscole e coniugazioni
han fatto scempio, sono stati e rimangono autori amati e largamente venduti sul
mercato? E ancora, cos’è il contenuto letterario se, messi da parte il
firmamento, il dì di festa e un bacio profumato, le canzoni (poesie, poesie) di
Tom Waits ci seducono con un lampione e con lo squallore di una fumigante
strada a fondo cieco?
No, qualcosa non torna, amici. La poesia e
la prosa non possono essere materia esclusiva di circoli letterari pieni di
vecchi conservatori dalle chiome ingrigite, chiusi al nuovo come Satana alla
Croce, né possono essere il frutto di oltraggiose speculazioni editoriali che
promuovono al rango di grandi lavori letterari delle opere dismorfe e
sostanzialmente insignificanti. C’è il nuovo che emerge e proviene dai
bassifondi, per l’accademia c’è sempre tempo. Leggetelo, il mio amico Bart. Voi
senza la erre francese, voi che fate a botte con la realtà di ogni giorno, voi
senza nessuno che pensa per voi, voi che per lavorare fate fatica e non
ammaestramento, voi che per fare figura non pescate a caso nel caleidoscopio
delle stronzate, voi che la vita non è un barattolo di miele, voi vi
accorgerete che c’è qualcuno che spende qualche minuto al giorno a sublimare la
dignità degli ubriachi, la delusione dei disoccupati, la bellezza degli
idealisti, la verginità dei paesaggi che l’avidità umana non ha ancora
corrotto, il decoro delle tute degli operai che rare mogli devote stendono al
sole, al quel sole che se ne sbatte dei ricchi e degli endecasillabi perché non
può essere comprato e spartito nei club. Bart scrive di tutto questo, percorre
questi sentieri di solitudine e speranza, e lo fa in sordina perché sa di non
essere nato letterato, sa di avere le stampelle e non le gambe, ma disvela
l’esistenza, presente o passata, di un’infinita lista di soggetti umani, di
neri, sbudellati, intossicati, visionari, avventurieri che hanno speso e
pensato ogni istante della propria vita con il blues, il soul, il rock e le
cento sfaccettature della “musica minore” nella testa e nel cuore. Bart ci
insegna qualcosa, ed io non posso mettere in rassegna cosa, perché aggiunge del
nuovo in ogni riga, perché non finisce di stupire, perché sa tanto di un mondo
parallelo che la discografia modaiola e commerciale relega ogni giorno dietro
le quinte. Bart non è uno scrittore, si avvicina ma non lo sarà mai. E’ un uomo
solitario che non è ancora divenuto un asociale. Un introverso che comunica non
stringendo amicizie al cine o al ristorante, ma condividendo la sua conoscenza
musicale attraverso i suoi appassionati post, come alla domenica si condivide
il Padrenostro stringendoci le mani. Solo che fuori dai post Bart non invidia e
prevarica alcuno. Perdonatelo, invece, per qualche “topica” formale, leggete le
sue righe con calma olimpica, proprio perché lui le scrive in piena eruzione
mentale. C’è un mondo di arte, di musica, di gente vecchia e nuova a cui non
vorremmo mai somigliare, ma che ogni tanto sogniamo di essere. Per il resto
Bart, credetemi, è una testa di cazzo come tutti noi. Pure peggio.
Antonio
Lo Presti (Tony il poeta)
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