sabato 28 gennaio 2017
venerdì 27 gennaio 2017
Oh, Lady Day
Sono
come una pietra che cadendo lungo il pendio di una cima rotola, rotola e non sa
più come fare per fermarsi, a cosa appigliarsi, per non finire a sbattere.
Accade quando la vita ti costringe in un modo o nell’altro a guardare dalla
parte opposta a quella in cui stai camminando. O quando qualcuno o qualcosa
butta giù quel muro che ti oscurava la visuale. Allora sei costretto ad uscire
dagli sgabuzzini segreti dove ti sei bellamente rifugiato e a guardare in
faccia dritto negli occhi i tuoi fallimenti. A me è bastato un bacio nel buio
della notte sul labbro sinistro, per andare in malora e sentire il mio corpo
tremare molle ogni volta che il cuore batteva. In un piccolo bagaglio ho chiuso
tutto quello che è rimasto della mia vita. Ci ho messo dentro le mie angosce, i
miei odi, le mie speranze e, forse, anche qualcos’altro. Poi mi sono infilato
nella notte che è da sempre la mia amante preferita e me ne sono andato via
attraverso quei cortiletti bui senza luna. Lì, in fondo ai miei blues. Bimba,
son solo uno di quei vagabondi Sto vagabondando da nemmeno io so quando Quando
sarà notte me ne sarò di nuovo andato” (Bound To Loose Bound To Win-Bob Dylan)
E’ di notte che la vita vibra a rallentatore e l’esistenza ci divora. E’ di
notte che si sussurrano le confidenze e si diventa teneri e romantici. Ma tutto
questo non mi accade più da molto tempo ormai. Può darsi che abbia perso quella
parte di me e che tutte le voglie, a furia di ristrettezze, mi sono passate in
un botto. Ed è inutile che io mi affanni a cercare i dettagli non li troverei
neanche a stanarli con il lanternino. Lì come sono sparpagliati in fondo ai
miei blues. Nell’umidità della notte una puzza di piscio acidulo mi attraversa
il naso. Mi passo una mano sul viso come per cancellare ogni traccia di me,
come per mettere una pausa ai miei pensieri. Non piove più e un venticello si è
alzato sulla città. Le profezie che cerco, me lo ripeto, sono lì, in fondo ai
miei blues. E’ solo dentro le canzoni che soffiano le risposte. Bisogna
semplicemente aspettarle e loro, come per incanto, arrivano imprevedibili,
violente, ciniche e, alle volte, anche sensuali. Succede pure quando si è
prigionieri dell’angoscia che agguanta e svilisce scaraventandoci nella
mediocrità. Quelle parole, però, sono fragili come vetro, e una volta
catturate, bisogna tenersele strette al cuore, cullarle come si fa con un
amante nella notte. Sul far del mattino, il freddo che si è piazzato dentro di
noi, per un po’ andrà via. Da quanto, da quanto tempo è partito il treno
della sera? da quanto, da quanto bambina mia, da quanto? (How Long Blues-Leroy
Carr) Alla stazione della vita, ho comprato un biglietto di sola
andata e nel posto dove vado non c’è nessuno che mi aspetta. Il vento ha preso
ad abbaiare come fosse un cane rabbioso. La strada brilla, sotto le luce bianca
del neon. Mi appoggio ad un lampione e con lo sguardo prendo a vagare intorno.
Dalla sigaretta aspiro una boccata di fumo strizzando gli occhi. C’è stato un
tempo in cui mi infilavo nella bruma, sotto la pioggia, e spingevo a fondo il
pedale della vita. C’è stato un tempo in cui nulla riusciva a farmi paura,
neppure ricominciare da capo. Sapevo sempre cosa fare o cosa non fare e, se
sbagliavo, andava bene lo stesso. Non come adesso che ho solo voglia di
andarmene a nascondermi il più in fretta possibile. Non come adesso che nessuno
capisce, che davvero mi dispiace per qualcosa. Ma a nessuno sembra
importargliene. Non come adesso che non ho più nessuno che mi può aiutare. Non
riesco ad esser più buono come prima. Non ci riesco, bimba, perché il mondo è
diventato ingiusto, dolcezza. Preparami la valigia, dammi il cappello non
chiedere di me, bimba, perché non tornerò.” (World Gone Wrong -
tradizionale- arrangiato da Bob Dylan) Mia madre me lo diceva di
essere gentile con gli altri che loro lo sarebbero stati con me. Alla luce dei
fatti forse si era sbagliata. Adesso non ho più voglia di sorridere, ma ho
anche una paura fottuta di smettere di essere come sono stato. Bevo un altro
sorso di vino e un altro ancora. Non so proprio che fare. Dio! So che voglio e
che devo fare. Ma farlo realmente è davvero un'altra cosa. Do un occhiata alla
bottiglia la porto alla bocca e ricomincio a bere. Tossisco, barcollo e cado
nel vuoto, spalanco gli occhi e rabbrividisco. La bottiglia mi cade in terra,
gli tiro un calcio e sferro un pugno nel vuoto. Visioni di Billie Holiday
in bianco e nero. Lady Day entra
in un bar, cammina lentamente con lo sguardo rivolto a terra e si dirige verso
lo sgabello che è lì, fermo come se la stesse aspettando. Quando ci si siede,
lo fa con una grazia che lascia tutto il pubblico di stucco. A quel punto
Lester Young si avvicina e si mette al suo fianco. Lady Day ha i capelli
attorcigliati in un garbato chignon. Alza lievemente il capo e la band inizia a
suonare. Alle prime note degli ottoni una piccolissima smorfia gli contrae il
labbro sinistro. Adesso, sempre lentamente, gira gli occhi che sembrano immensi
specchi neri e osserva un punto indefinito della sala. Poi cade in trance e
inizia a cantare Fine and Mellow.
La notte e i graffi che la pioggia lascia sui vetri si specchiano sul suo viso.
Lì, in fondo ai suoi blues. Dopo che gli applausi erano finiti e la gente
se n’era andata. Scendeva le scale del bar e usciva verso l’albergo che lei
chiamava casa. Aveva muri verdastri e il bagno nel corridoio. E dissi no, no,
no oh, Lady Day. (Lady Day-Lou Reed) C’è sempre un prima in
ognuno di noi. Ed è sempre un dolore quello che ci cambia. Mi tornano i
pensieri, quelli tristi, ma adesso non ho più fretta. Perché con l’età so
bene che qualcosa perdo ad ogni ora che passa. La strada del tempo è spietata,
cambia tutte le prospettive. Così quella follia, quella vanità che avevo da
ragazzo, nell’andare avanti si è fiaccata e vorrei fermarmi di botto per
rivederla passare, quella giovinezza, adesso che il tempo mi ha detto come sono
la gente e le cose. Adesso che me ne sto qui e non riesco a muovermi, quasi a
respirare. Tremo soltanto. Fermo qui ad aspettare. Quando l'ultima
rosa dell'estate mi pungerà il dito ed il caldo sole mi farà gelare fino alle
ossa. Quando non riuscirò più a sentire la canzone E non riuscirò a distinguere
il mio cuscino da una pietra. Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso e
canterò una canzone da solo. Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso e
sognerò un sogno tutto da solo”. (Black Muddy River-Robert Hunter) Mi
ha tolto tutto quel bacio sul labbro sinistro, tutto quel che avevo. Ma è stato
un raggio di sole in un mare di merda. Lì, in fondo ai miei blues.
Bartolo
Federico
mercoledì 25 gennaio 2017
I Cuori Sono Come I Fiori
Dormire negli
ultimi tempi è diventato un vero tormento, al punto che il sonno mi sembra una
discesa negli inferi. Colpa di quegli spettri che vengono a trovarmi. Al
risveglio mi sento stanco, sfiancato, come una di quelle ballate febbrili,
claudicanti e senza sole, di Nikki Sudden e Dave Kusworth, o del Johnny
Thunders fragile e drogato, di Hurt Me. Il medico mi ha guardato con
una faccia stralunata, e paternamente mi ha dato una pacca sulla spalla. Non se
ne faccia un cruccio, è tutto legato alla sua depressione ansiosa. Il suo
comportamento compulsivo, ossessivo, però è da tenere sotto stretta
osservazione. E lo diceva senza guardarmi, mentre scriveva la ricetta degli
antidepressivi da assumere. Me ne sono tornato a casa quieto quieto, con il
sole che stava tramontando dietro i palazzi. La mattina seguente seduto in
cucina pensavo a queste cose, quando il telefono ha preso a squillare
facendomi trasalire. Con una voce rauca ho risposto ad una signorina dai toni
suadenti, che mi ha illustrato l’ennesima vantaggiosa offerta, per luce e gas. Malgrado
la mia confusione mentale, mi sono sforzato di prestarle attenzione. Siamo
stati lì a conversare come due vecchi amici che non si sentivano da un pezzo. Dopo
un po’ mi sono alzato barcollando, e con la cornetta attaccata all’orecchio ho
azionato lo stereo. Autumn Stone degli Small Faces, l’ho
ascoltata come sottofondo a questa insolita chiacchierata. Ero nel nulla,
finché tu non hai cambiato la mia mente, l’amore viaggia attraverso l’essere
buono con te. Dopo sei stata da qualche parte, un luogo difficile da trovare,
quel che tu sei sempre stata, è la verità. Cerco una porta aperta, dove mi
posso mettere seduto e giocare in pace con te. Il domani cambia l’odierno verde
dei prati, ieri è deceduto, ma non i miei ricordi, eravamo stranieri, e poi sei
arrivata tu. La più dolce alba primaverile a cantare per me. E così ho trovato
un suono che vive, che si muove, che respira e fa all’amore con me. Verso mezzogiorno
mi sono deciso a uscire. Camminando nel mio quartiere ho incrociato un uomo con
gli occhiali neri e un bastone bianco, e subito dopo anche Gianni, uno che assomiglia
in maniera impressionante a Lemmy dei Motörhead. Un tempo anche lui era un musicista
ma qualcosa non è andata per il verso giusto, e adesso vive come un vagabondo tra
i binari della ferrovia. Gli era davvero capitato qualcosa di tremendo che nessuno
sapeva, ma che lo aveva spinto a lasciare il mondo. Comunque era andata stava
pagando il suo prezzo. Io invece nonostante le profezie del dottore, non mi sentivo
ancora alla resa dei conti, e il mio livello di guardia restava alto. L’arteria
principale della città come sempre era intasata di macchine, e l’aria era
talmente maleodorante di gas di scarico, che mi è venuto il mal di testa. Nessuno
di noi è padrone di nulla, anche se molti credono il contrario. Nessuno di noi
possiede l’alba, il cielo, la pioggia. Mentre cammino per le strade senza meta,
una piccola ombra mi protegge dal sole, e penso che nonostante tutti i miei
casini sono ancora in piedi. In questo periodo rispolvero sempre più spesso i
miei vecchi dischi, dal computer non scarico più alcun file musicale, perché ad
un certo punto mi sono sentito come se fossi un ladro. Mi limito ad ascoltarla
la musica nuova, quando però mi incuriosisce sufficientemente. James Moore
in arte Slim Harpo, è stato l’esponente di punta dello swamp blues. A soli quindici anni resta
orfano, ed è costretto ad abbandonare la scuola per mantenere il resto della
famiglia. Si impiega come scaricatore di porto, e dopo come manovale, ma appena
finito il lavoro suona per strada le canzoni che scrive, accompagnandosi con
l’armonica e la chitarra che ha imparato da autodidatta. In questo modo conosce
Lightinin’Slim, che lo porta dal noto produttore Jay D Miller.
Quest’ultimo però non si accorge subito del talento di questo ragazzo, e lo
lascia in disparte, fin quando Slim Harpo non gli fa ascoltare quel suo nuovo
brano dalla ritmica martellante e devastante, dal titolo I’m A King Bee. La
canzone diventa un grande successo che viene bissato da Rainin’ In
My Heart, un blues lento e ipnotico, che ti fa sentire il fruscio delle
paludi della Louisiana. Queste sue prime canzoni rappresentano esattamente i
suoi due volti musicali. Il primo lato del disco è terminato. Mi alzo dal
divano e girando il vinile poso con cura la puntina sulla seconda canzone, per
evitare il graffio che ferisce profondamente la prima traccia. Muddy Waters,
Kinks, Yardbirds, e Rolling Stones, anche quelli fantasmagorici di Exile
On Main Street, attinsero dal suo repertorio di canzoni straordinarie. Alle
volte c'è come una fossa dentro di noi, che ci fa vacillare. Così guardo la mia
ombra riflessa sul muro della stanza, e non so perché, mi viene di sorriderle. Fuori
nel cielo nero la luna è talmente piccola, che la potrei accogliere dentro il
palmo della mia mano. Lo so che il dolore man mano sbiadisce, e poi all'improvviso finisce. Accendo una sigaretta e ne aspiro un paio di boccate tenendola
tra le dita, come fosse un amante. Mentre il fumo scende nei polmoni, il
pensiero che mi attraversa viene scosso da quel rantolo rauco che arriva dallo
stereo acceso. Da qualche parte ho ancora una bottiglia di J&B, la prendo e
mi verso quel che rimane in un bicchiere. Da quando sono rimasto solo sono
diventato un casalingo esperto, ho imparato tanti piccoli stratagemmi. Rimbocco
le coperte sopra le lenzuola, lavo i pavimenti con l’aceto, stendo il bucato,
pulisco i vetri asciugandoli con la carta di giornale, e ascolto la radio
mentre sbatto i tappeti. Sul tavolo del salone c’è una mia vecchia foto,
di quando avevo diciotto anni. Ho i capelli lunghi e porto i Ray-Ban, e come
sempre ho un aria smarrita. Non è che sia cambiato di molto, almeno a guardarmi
così di primo acchito. E’ un blues sporco e aggressivo, aspro e irruento, un
blues che partendo dal Mississippi si è formato per la strada, nei bordelli di
Chicago, e si è irrorato di whiskey e imbottito di fumo, fino all’inverosimile.
E’ un blues oscuro e genuino quello che suona Hound Dog Taylor con i
suoi degni compari gli Houserockers, diretto discendente del suo maestro
Elmore James. Con il suo stile bottleneck esuberante e distorto, manda
in visibilio il pubblico nei suoi concerti non stop, che gli fanno conquistare
fama e credibilità nella difficile città del vento. E’ un selvaggio seduto in
quella sedia pieghevole, mentre pesta i piedi e getta la testa all’indietro. Il
volume degli amplificatori è altissimo, ma lui possiede un drive che è una
meraviglia del demonio. Accendendosi l’ennesima sigaretta, aizza la folla ad
alzarsi e ballare. È ruspante, minaccioso, ed è un amante delle donne, tanto
che un suo amico gli affibbiò quel soprannome di cane segugio. Lui sì che prendeva
la vita con ironia e irriverenza. La sbatteva spiaccicandola sul manico della
sua chitarra, per poi con la mano sinistra e quel collo di bottiglia che gli
strofinava sopra, evocare gli spiriti del Delta, e di quel degenerato di Robert
Johnson. La puntina ha percorso tutti i solchi del vinile, e nella stanza adesso
è calato il silenzio. E’ il deserto il luogo preferito dei viaggiatori, perché
è in questo territorio che ci si illude di muoversi, per non arrivare mai. La
mattina dopo aver rassettato la casa me ne sono andato all’ufficio postale, per
pagare delle bollette. Durante il tragitto mi ha fermato una chiromante, che ha
voluto per forza leggermi la mano. Con un certo
imbarazzo gli ho teso il palmo. Mi sembri ubriaco dice, guardandomi dritto
negli occhi. No, non lo sono, gli urlo quasi. Il tuo amore ritornerà. Adesso sì
che caracollo, che sembra quasi che mi stia mettendo a ballare. Infilo una mano
in tasca, e le do tutti gli spicci che possiedo. Quando arrivo alla posta la
gente è in fila fino a fuori dalla porta. Ma dal momento che le bollette sono già
scadute, mi armo di santa pazienza e aspetto. Mi sento stanco, stanco, della mia incapacità di
adattarmi. Tiro a campare e mi nascondo, cercando di evitare di pensare. La
gente che mi sta intorno è scoglionata, e anche nevrastenica. Dal governo si lamentano
alcuni uomini, ci arrivano solo enormi tasse da pagare, e il lavoro è un miraggio
per tanti. Un vecchietto quando arriva il suo turno chiede all’impiegato se gli
può scrivere un indirizzo sulla busta, ma il tizio lo respinge in malo modo. Ed
è così che mi stacco dalla fila e prendo a sbattere le mani sullo specchio che
ci divide, e lo protegge. Come un matto gli urlo di uscire dalla sua comoda
cuccia, che ho delle cose da spiegargli. Perché sono stufo, ma proprio stufo,
di persone come lui. Il tizio mi guarda terrorizzato, restando fermo e silente
sulla sua comoda poltroncina. Lo so che non ci puoi sopportare gli continuo a gridare,
ma neanche noi sopportiamo individui come te. Poi mi rimetto in fila, mentre un
silenzio raggelante scende giù. Illegale non vuol dire che non sia giusto. Weldon
“Juke Boy” Bonner, amava la
strada. Con la sua chitarra dal suono primitivo e grezzo, accompagnandosi con
l’armonica per sottolineare il suo tormento, il suo blues mise in scena la
lotta di un uomo per l’affermazione dei propri diritti, ma anche della sua
stessa sopravvivenza. Ricordo che vivevo sulla costa occidentale
francese. Avevo solo diciassette anni quando una ragazza mi tocco per la prima
volta il cuore. Nonostante io abbia visto i fiumi, questi non sembrano mai
belli come lo sei tu. Talvolta le luci dovrebbero affievolirsi. Talvolta il
mondo è in bianco e nero (Where The Rivers End - Jacobites). Hai sempre
paura di ciò che non conosci. E il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi
uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col
numerino in mano, restiamo in attesa dell’eternità, rincorrendo la giovinezza.
Ma in fin dei conti, cos’è sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse
farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe
sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli
menzogne di cui ci nutriamo. Ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre
angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci! Ci saremmo belli
è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che
nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti
insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci. Mi
sedetti sul divano e alzai gli occhi verso lo specchio. Una volta scendevo al
fiume con Maria, ed è lì che ci siamo amati. Ma adesso quel fiume si è
inaridito, perché i cuori sono come i fiori.
Bartolo Federico
domenica 22 gennaio 2017
Sulla Nave Dei Folli
Bisogna stare in
guardia con le parole. Con quell’aria da niente, non sai mai che direzione
prenderanno. Le parole sono pericolose, si nascondono e ti fanno scricchiolare,
come una lastra di ghiaccio. Le assorbi attraverso le orecchie, il cervello, e
poi finiscono nel cuore. Ed è lì che ti strangolano, trascinandoti nel panico.
Le parole le puoi lasciare scritte sopra il bus, sulla panchina della stazione
centrale, o su un sedile di un taxi. Se però finiscono in una canzone, si trasformano
in una tempesta violenta, che mai avresti immaginato per solo dei sentimenti.
Lo diceva Lou Reed che bisogna tenersi due
radio, nel caso una si rompa. A lui il cielo gli era venuto giù molto presto, da
quando adolescente lo avevano sottoposto ad una terapia di elettroshock, per
curare la sua bisessualità. Non si riprese mai da quell’orrore, che gli fece
uscire gli occhi dalle orbite. Nel 1963 ancora ventenne frequentava la Syracuse Univerity dove studiava
giornalismo, regia cinematografica, scrittura creativa, ed era tenuto d’occhio
dalla polizia per i suoi comportamenti ambigui. Un giorno prima dell’alba onde
d’oscurità lo avvolsero e lo frastornarono, insieme a quel desiderio di
esplorazione. Allora si defilò dalla folla, e andò a vedere cosa succedeva a
quelle ombre che camminavano nel buio, di cui non vedeva la faccia, e non
sentiva la voce. Tutti i tuoi psichiatri da strapazzo ti fanno
l’elettroshock hanno detto che ti avrebbero lasciato vivere a casa con mamma e
papà invece che in ospedali psichiatrici ma ogni volta che provavi a leggere un
libro non riuscivi ad arrivare a pagina 17 perché avevi dimenticato dov’eri
così non potevi neanche leggere. Non lo sai? ti ammazzeranno i figli Non lo
sai? ti ammazzeranno, ti ammazzeranno i figli ti ammazzeranno, ti ammazzeranno
i figli fino a quando non scapperanno via. (Kill Your Sons) Quando ad una festa Lou Reed incontra “il Beethoven della musica” come lui stesso definì il musicista
gallese John Cale, arrivato in America per studiare al
conservatorio, capisce subito che il fiammifero che teneva spento, adesso era
pronto a bruciare. I Primitives sono stati il loro primo
gruppo, insieme a Streling Morrison, e lo scozzese Angus Mc
Lise. The Ostrich è la loro prima canzone, pubblicata nel 1965. Venerdì notte: Ore Due. Sulla nave dei folli, la paura
brancola nel buio. Il vetro della finestra era alzato e l'edificio di fronte
così vicino, da poterlo toccare. Perlustrò
la stanza muovendo il piccolo fascio di luce della torcia tascabile. Adattarsi
e improvvisare. E’ questa la vita. Esaminò
lentamente le pareti. La felicità è il rock'n'roll, il rumore. Ci sono cose che bisogna
sapere, le cose utili da
obbiettare. C'è chi li trova davvero ripugnanti i Velvet Underground. È
difficile immaginare quel che rende una persona simpatica agli altri. Uno vuole
essere utile in qualche modo, e comincia quasi sempre a cantare in tono gentile
una canzone, fino a farti diventare triste, a farti cascare il cuore. Sulla
ventiduesima strada un uomo con una giacca di pelle marrone se ne sta seduto a
terra, con lo sguardo perso nel vuoto. Il sangue gli cola lungo il collo,
imbrattandogli la maglietta. Un tizio poco distante bombato e muscoloso, lo
guarda con indifferenza, masticando e sputando tabacco. Una Ford
impiastricciata di adesivi con due ragazze a bordo che si passano una canna,
percorre il vialone. Nella penombra di un appartamento, un uomo alza la
cornetta del telefono, e compone un numero. Parlotta e riaggancia, facendo
cadere le braccia lungo il corpo. La giovinezza è tutto. Un giro di ritornello,
e ti ritrovi anche tu nella nebbia. Portatemi gli affamati, gli stanchi i
poveri e gli piscerò addosso questo è ciò che la Statua dell’Intolleranza dice
le vostre masse di poveri accalcati picchiamoli a sangue facciamola finita e
buttiamoli nel boulevard”. (Dirty
Blvd) Il segreto è resistere gli aveva detto il vecchio boss del
quartiere, un mafioso siciliano di Castellamare Del Golfo. Devi resistere un
po’ più degli altri, così finiranno per stancarsi. Ma andando avanti si diventa
una schifezza pensò Billy, e in cattiveria non è che si migliori.
Tormenti, ossessioni, rimasugli, sbavature, gocciolano lentamente sulla tua
pelle, e non ti fanno più dormire sonni tranquilli. Però quando si è poveri, e
un dovere provarle tutte. E volare, volare via da questo sporco
boulevard voglio volare, da questo sporco boulevard voglio volare, da questo
sporco boulevard voglio volare volare volare volare da questo sporco boulevard”.
(Dirty Blvd) Anno 1966: Ore Nove e Trenta. L’otto
febbraio del 1966 prende il via l’Exploding Plastic Inevitable uno
spettacolo ideato da Andy Warhol, che unisce il balletto ai
film, alle luci, agli happening, e ai Velvet Underground. Lou e John avevano cambiato il nome alla band, e sostituito il
batterista Angus Mc Lise
con Maureen Tucker, una delle prime ragazze a suonare la
batteria. Warhol un pittore,
scultore, introdusse Nico una cantante attrice, inquieta e
misteriosa, venuta fuori dalla nebbia e dal freddo di Berlino. Paura, gente
viziosa, dolori, una nuova amica catturata nel buio. Lou Reed, il suo
prodigo amante. Le pene alle volte sono una distrazione, ma lei ci teneva al lato tragico della vita.
Ed era impensabile, lasciarla da sola. Agenti teatrali, fisarmoniche, uomini
che aspettano lungo le banchine. E' vero tutto finisce, ma c'è umanità nei loro
dischi, rabbia, amore, il sogno supremo. Non c’è niente dietro quel vetro. Nessun costume, nessun sorriso. Neanche
inganni. I respiri però… quelli ci sono ovunque. Esili… A Berlino,
accanto al muro eri alta un metro e settantacinque era molto bello lume di
candela e Dubonnet con ghiaccio Eravamo in un piccolo caffè si sentivano le
chitarre suonare era molto bello. Oh, tesoro era il paradiso”. (Berlin) E’ nel gennaio del 1967
che vede la luce il loro primo album Velvet Underground and
Nico prodotto da Andy Warhol. Se vi serve qualcosa di illegale, se la menzogna vi
attira, e della vanità non potete fare a meno, il vostro viaggio è appena
iniziato. Come in una vertigine la testa prenderà a girarvi, il dubbio vi
penetrerà, e l’infinito si schiuderà cascandoci dentro. E’ qui che il rock è
stato pestato a morte, è qui che gli hanno fracassato il muso, e spezzato i
polsi. E mentre rantolava con il fegato spappolato, l’hanno fotografato, e ad
ogni flash lui ha sbattuto le ciglia. Poi lo hanno spinto nella notte più profonda,
nella sporca poesia, e a furia di spingere, si sa che si finisce per arrivare
da qualche altra parte. “Perché quando la roba entra in circolo non me ne
frega più niente di voi Tizi e Cai di questa città e di tutti i politici che
schiamazzano come pazzi e di quelli che insultano tutti gli altri e tutti i
morti ammucchiati uno sull’altro. Perché quando la botta comincia ad arrivare
allora non mi importa proprio più nulla. (Heroin) Le due tipe provarono una scossa tremenda, mentre
compravano polvere bianca e marrone. La cassiera del bar passeggiava nell'ombra, sulla ventiduesima
strada, dove ci vuole un sacco
di coraggio solo per fermarsi. L’uomo le porse la mazzetta dei soldi, che lei
nascose nel reggiseno, come un biglietto galante. Bottiglie vuote che tintinnano, accidenti fa qualcuno… e tutti si sparpagliano. La notte si
riprende qualsiasi cosa, senza che tu
abbia potuto capire quel che aveva da raccontarti. Era un desiderio di
purezza quello che i Velvet Underground, stavano inseguendo in una New York
allucinante e disperata, dove il gelo della notte minaccia di morte ogni cosa.
Una città sempre in agguato, stretta in un dolore immenso, impallidita
fino al bianco degli occhi. Ragazzino, lei viene dalla strada sei
finito prima ancora di cominciare si prenderà gioco di te come un fantoccio è
proprio così. Perché lo sanno tutti (è una femme fatale) le cose che fa per
piacere (è una femme fatale) non è che una smorfiosetta (è una femme fatale)
guarda come cammina! Senti come parla! (Femme Fatale) La loro è una storia con vista metropolitana,
che fa a pezzi in un colpo solo tanti presunti sperimentatori. Si fa peccato a non conoscerli. Tanto li hanno
pure cacciati dall’inferno. Glaciali, acidi, disincantati. Il loro sguardo si
posa su quei ragazzi che sentono musica, ma gli arriva il rumore metallico
delle automobili in transito, del mago cornuto, delle roulette russe,
della donna barbuta, della festa ingannevole dei fine settimana. Tutt’intorno
e sopra il cielo, c’è un rumore duro e opprimente di chitarre che girano, rotolano,
e gemono. C’è una rabbia in quel frastuono che ti fa rabbrividire, dalle
orecchie fino ai piedi, ti agita le budella, ti dà scossoni dall’alto fino in
basso. Vorresti fermare tutto. Ma è come sentire il tuo cuore che batte. Anno 1967: Ore Ventiquattro. È una
catastrofe sonante White Light/White Heat, album uscito nel
dicembre del 1967. Musica suonata
dentro una scatola d’acciaio, così violenta da scatenare dei silenzi profondi,
per quel brivido che ti scombussola. Sono
loro il futuro del rock'n'roll. La collaborazione fra Cale e Reed, qui tocca il suo apice. C’è una tensione tremenda in queste
canzoni, che fa saltare i nervi. Basta una piccola spinta e ti ritrovi nel
baratro. Sister Ray è un pezzo da diciassette minuti che sembra
suonato da mille strumenti. Esaltazione, inebetimento, delirio puro. Questa
strada forse assomiglia ad un'altra disse Waldo al barista, ma
non conosco nessuno in questa città. Sto qui cercando di buttare via questa
mania che ho, di svignarmela da ogni posto. Questa sciocca angoscia che mi
perseguita, e mi tormenta. Lo so amo Marsha, ma ancor di più
il mio vizio. Per farmi perdonare sai che farò: gli manderò un regalo. Che
ne pensi se spedisco me stesso dentro un pacco postale? Ah, è così
bella ah, ma è fatta di legno guarda e vedrai. (Here She Comes Now). Il
buio gli aveva offerto una grande occasione, e anche quelle strade. Dopo si
erano riaccese le luci, e tutto era ritornato alla normalità. Lady
Godiva sì e vestita con sobrietà accarezza dolcemente la testa riccioluta di un
altro ragazzo solo un altro giocattolo. (Lady Godiva’s
Operation) Sono state scritte da Lou Reed le liriche e quasi tutte le
musiche delle canzoni dei Velvet
Underground. Per Lou le donne
che soggiogano gli uomini al loro volere, sono come un ossessione. Donne
sfuggenti, fatali, come Nico, che un
giorno lo pianta in asso per andarsene con l’amico John Cale. C’è sempre un amore di riserva. La diversità fra queste
due forti personalità viene inasprita da questa situazione, tanto che Cale lascia il gruppo e viene
rimpiazzato da Doug Vule, un
ottimo musicista. Ma non un genio, come lui. Anno 1969: Ore Sedici e Quaranta. L’album The Velvet
Underground esce nel 1969,
ed è come se ci portassimo nella nostra solitudine, una nuova ragione
d’angoscia. Lo spazio creativo adesso è tutto in mano a Reed. Anche se le atmosfere si fanno più morbide, più liquide,
meno ossessive, le canzoni non perdono in tensione, anzi acquistano un’impronta
più sofisticata, quasi dandy. Ecco la storia della mia vita ecco la
differenza tra giusto e sbagliato ma Billy ha detto che queste due parole sono
morte ecco la storia della mia vita. (That’s The Story Of My Life) Qui c’è qualcosa di diverso che assomiglia
più a un vero sentimento. C’è un insieme che tiene unito il tutto, non venendo
però mai meno quel tono malato e inquieto, che è la prerogativa della musica
dei Velvet, e in seguito dei dischi solisti di Lou Reed. Bar per
feste buie, cadillac lucide e la gente nei metro o nei treni faccia grigia
sotto la pioggia mentre se ne sta in piedi confusa ah, ma al buio la gente è
bella. (After Hours) E’
sempre una strada stretta e sporca piena di tenebre, quella che percorrono. Ed
è nelle crepe più buie che ci fanno intravedere che lentamente e senza
rendercene conto, si perde il proprio destino. Un giorno ci voltiamo indietro,
ed già troppo tardi per cambiare direzione. Sembra una cosa banale, ma il più
delle volte accade proprio così. Chissà perché gli esseri umani sono
sempre preparati ad indicarti la strada da seguire. Come se sapessero già dove
andare, in quale buco infilarsi. Beati loro. Sembra che tu sia il solo che non
ha capito nulla. Si cammina e si cambia traiettoria, una volta a destra poi a
sinistra, ed eccoci su un viale illuminato. Stop. Voi avete qualcosa in
contrario? Alle volte la strada è come una ferita triste, si guarda in
fondo e non si vede niente. Lo ripetono spesso che un terzo dei bimbi del mondo,
vive sotto la soglia di povertà. Lo ripetono da anni ma non cambia mai nulla. Stanno
uccidendo tutto sotto i nostri occhi, e nessuno si muove. C’erano quartieri che
pullulavano di persone, gente e ancora gente. Potevi incontrare chiunque per
strada. Pittori, vagabondi, musicisti, poeti e visionari. Beni preziosi per
l’umanità. Alle volte però la strada, è come una ferita triste. Gli
hanno preso le scarpe dai piedi E hanno buttato il povero ragazzo in mezzo alla
strada E questo è ciò che ha detto: Ah dolce nulla non ha niente di niente ah
dolce nulla non ha niente di niente. (Oh! Sweeth Nuthin) Loaded segna la fine della più
grande rock’n’roll band che sia mai esistita su questo pianeta. L'ho detto e lo
ripeto, tutto in un fiato: la più grande rock’n’roll band che sia mai esistita
su questo pianeta. Questo è il loro
ultimo disco, ma è anche il percorso futuro di Lou Reed. Come sempre avviene
quando ci sono di mezzo quei radical-chic, (che hanno scritto la storia del
rock) quest’opera è stata per anni bistrattata, segata, maltrattata. Si sono
divertiti un mucchio a parlarne male, e anche a sproposito. Anno 1970: Ore Venti e Cinquantacinque. Loaded non è un disco minore,
o da prendere sottogamba. E’ il turno di notte di tutti quelli che hanno spinto
la vita per non farsi nascondere nulla, è la bandiera di chi se ne fotte se la
città è troppo grande, e finirà per schiacciarlo perché: un bel
giorno sente una stazione di New York e non riesce quasi a credere a ciò che
sente, proprio no. Comincia a muoversi a quella musica favolosa. Sai, la sua
vita fu salvata dal rock’n’roll si, rock’n’roll” (Rock&Roll) E’ in questo disco
che Jim Carrol, Willie Nile, Mark Lanegan, Cat Power, Sebadoh, Ian
Hunter, e un mucchio di altri ancora, una lista infinita, hanno trovato
l’ispirazione per scrivere le loro canzoni. Loaded è un disco da portarsi per strada, quando si viene fuori
dalle tenebre deliranti, e si torna a viaggiare su dimensioni più reali. Qualcosa
mi ha afferrato ma non so cosa sia. E’ l’inizio di una nuova era, è l’inizio di
una nuova era, è una nuova era. (New Age) Sabato Mattina: Ore Dieci e Zero Zero. Non c’è la
farà mai gli disse il taxista ad arrivare al confine. Lei ci provi
rispose Billy toccando il
calcio della pistola. Ora mi ascolti vada a destra, poi
svolti alla seconda, e poi verso l’autostrada. Il taxista fece stridere con
rabbia le gomme sull’asfalto, accelerò e si immise lungo l’arteria che
rasentava i centri commerciali. Qualcuno lo chiamò via radio. Taxi 109! Taxi 109!
Non rispose. Continuò a guidare cambiando fila di frequente, accelerando ogni
volta che trovava dove infilarsi. Teneva un occhio sullo specchietto retrovisore,
e poi finalmente accese anche la radio: Un tossico ha messo sotto una
signora una ballerina incinta non potrà più danzare ma il bambino è salvo si
era addormentato al volante dopo essersi fatto di eroina e non si ricorda di
nulla hanno sparato a quella vecchia perché credevano che fosse la testimone di
un crimine che non ha nemmeno visto di chi è patria la patria degli eroi vicino
alla Statua dell’Intolleranza. (Hold On) Attraversarono la città
lasciandosi dietro l’urlo delle sirene. Tijuana adesso era più vicina.
Bartolo Federico
venerdì 20 gennaio 2017
Who Do You Love?
Il giorno con il passare delle ore si era fatto sempre più caldo.
Cercavo di starmene tranquillo seduto su quella veranda da dove potevo
osservare il mare. Rimisi il libro sul tavolino e rientrai in casa, stappai una
birra e sistemai un disco sul piatto dello stereo. Glamour Girl di T-Bone
Walker mi esaminò con attenzione, mentre guardavo gli ultimi raggi di sole
pieghettare le onde. Il mare era piatto e lucido e non c’era un alito di vento.
La notte stava giungendo e tutte quelle stelle sparse nel cielo dicevano che era
quasi estate. Anche se stavo attraversando un momento difficile, mi ripetevo
che non dovevo farmi prendere la mano, che quei sogni strani che mi scuotevano
e mi turbavano fin nel profondo sarebbero andati via, prima o poi. Come ogni
cosa. Era da mesi che durante il sonno mi svegliavo di continuo e, quando non
riuscivo a riaddormentarmi, aspettavo con gli occhi sbarrati l’alba. Quella
notte, però, aveva ringhiato da subito le sue intenzioni e continuò a
tormentami la mente. Non c’è la feci più a rivoltarmi tra le lenzuola, mi
alzai, infilai le ciabatte blu, la camicia di jeans, e andai in cucina. Tirai
fuori dal frigo la bottiglia del latte, ne versai un bicchiere abbondante, ci
misi dentro due cucchiaini di zucchero e mi accomodai sulla veranda. Era una
notte strana, impregnata d’immagini chiare e inumidita da bagliori solitari.
Guardai per un pezzo il mare e il cielo, e anche quella luna che sembrava
arrivata lì per caso. Era come un urlo quel brandello di memoria che non voleva
andar via. Di fronte a me avevo case scolorite dal sole e dalla penombra, e
c’era poca gente intorno. Soffiava una leggera brezza, afferrai la Martin piena
di cicatrici che era appoggiata sul muro del terrazzino, e strimpellai. A volte sei felice. A volte piangi. Metà
di me è come l’oceano e metà è cielo. Tu hai un cuore davvero grande che
potrebbe schiacciare questa città. Ed io non posso arrendermi sempre. Tutti i
muri cadono. Talune cose sono già finite. Altre cose vanno avanti. Tu porti una
parte di me, una parte è già andata via. (Walls - Tom Petty) Le cose accadono e il mondo continua ad
andare avanti, che tu lo voglia o meno. Tanto vale prendere la vita con
distacco. Non avevo programmi a breve termine, ma non serviva farne. Mi ero
rintanato in quella casetta che mi avevano lasciato i miei genitori e che fino
ad ieri non avevo mai sfruttato a dovere. Ma volevo fare tabula rasa di
molte cose e quello era di sicuro il luogo più adatto. Il “simpatico
contafrottole” questo è più o meno il significato in slang del nome Bo
Diddley è uno di quei personaggi che ha seminato molto ottenendo il minimo
sindacale. Di lui non si ricorda quasi mai nessuno, perfino i testi di musica
lo bistrattano e lo liquidano frettolosamente. Come fosse una rogna.
Probabilmente paga per avere cambiato spesso panni e identità musicale, e non
si sa come catalogarlo. Ma, questo è certo, la storia del rock senza le sue
canzoni avrebbe avuto un altro corso. E tra il 1955 e il 1962 che Ellas
McDaniel in arte Bo Diddley, nome impostogli da Leonard Chess quando
incise il suo primo 45 giri, scrive tutti i suoi capolavori caratterizzati da
un ritmo primitivo, ma anche brutalmente gioioso. I’m a Man, Road Runner, Mona,
Story Of Bo Diddley, Cracking Up, Nursey Rhyme, Diddley Daddy, Who Do You Love
sono canzoni che verranno riprese da Jimi Hendrix, Muddy Waters, John
Fogerty, Rolling Stones, Quicksilver, Doors, e un'altra miriade di artisti.
Il creolo Diddley, nato nel Mississippi nel 1929, fu adottato dalla
famiglia McDaniel all’età di cinque anni. E come è successo a quasi
tutti quelli baciati dal talento, la chitarra che gli fu regalata dalla sorella
quando compì dieci anni la imparò a suonare da solo. E a tredici era già
all’angolo della Langley Avenue con un suo complessino. La mattina
mentre andavo al supermercato notai i tanti bar che avevano aperto nella zona e
le case di legno dei contadini diventate ormai grigie per effetto della
salsedine. Comprai della pasta, uova, biscotti artigianali, del latte, un pacco
triplo di caffè e delle verdure, qualche birra e una bottiglia di vino. Il
J&B lo presi anche ma poi lo riposai nel suo scaffale. Rientrai e mi feci
una doccia, restandomene un bel quarto d’ora seduto sotto una cascata di acqua
tiepida. Mi lavai i denti e mi rasai abbastanza velocemente. Dopo, mentre mi
rivestivo, osservai dalla finestra del salone la spiaggia ancora vuota.
Preparai il caffè, ascoltando una cassetta degli Zeppelin che avevo
registrato anni prima per portarmela in macchina. Polvere e Diamanti lo
avevo chiamato quel nastro, perché a quel tempo avevo l’abitudine di dargli un
titolo, ai miei nastri. Questa è la sequenza dei brani sul lato A: “Travelling
Riverside Blues", “Ramble On”, “Immigrant Song”,” Going To California”,
“When The Levee Breaks”, “The Rain Song”, “Battle Of Evermore”,” Over The Hill
And Far Away”, “Misty Mountain Hop”, “Babe I'm Gonna Leave You”. Dovevo
cercare la regolarità, pensare dei pensieri normali, non potevo seguitare a
essere un disadattato, un cavaliere errante, uno che rincorreva ancora quegli
spiriti furiosi che mi danzavano nella testa. Uscii di casa e feci una lunga
passeggiata sulla spiaggia che tra non molto si sarebbe animata da decine di
famiglie con bambini e ombrellone a seguito. Mal sopportavo l’ipocrisia della
gente e quelli che non si volevano annoiare mai. Conoscevo l’iniquità
dell’animo umano, e la normalità mi aveva fatto sempre paura. I Quicksilver
Messanger Service nacquero per volontà di Dino Valenti, un folk
singer già affermato della bay-area. John Cipollina e Terry Dolan lo
incontrarono nel 1963. Valenti innamorato della musica dei Jefferson
Airplane, Beatles e Grateful Dead, si era stancato di suonare da solo e
stava cercando di mettere su una rock-band. Dal momento che era alla ricerca di
musicisti, quei due tipi davvero bizzarri facevano al caso suo. Dino spiegò
quale era la sua idea al gruppo, che voleva includere anche due ragazze al
tamburino e che si dovevano anche vestire in maniera eccentrica. Stabilirono di
iniziare il giorno dopo. Johnny e Terry si portarono appresso Jimmy Murray e
Gary Duncan, due loro amici. Quando arrivarono, tutto era pronto, gli
strumenti, il manager, la sala. Mentre aspettavano che arrivasse Dino, si
fecero una pasticca di lsd. Dopo una lunga attesa, finalmente, arrivò una
ragazza che disse che Dino era stato arrestato, che lo avevano beccato mentre
fumava marijuana, ma che sarebbe stato rilasciato tra qualche giorno. Passarono
i mesi ma Dino non arrivava, perché era ancora in prigione. Nel frattempo i
ragazzi conobbero David Freiberg, un amico di Valenti, anche lui uscito
da poco di prigione e che suonava la dodici corde in modo eccellente. Ma dal
momento che David voleva suonare il basso dopo varie e animate discussioni fu
accontentato. I Quicksilver erano nati. Dino Valenti uscì dal carcere dopo un anno
e mezzo, ma ormai non c’era più posto nella band. Nel marzo del 1969 esce Happy
Trails. Il disco, eccetto “Maiden Of The Cancer Moon”, è il
risultato di alcune registrazioni live fatte nel 1968 nei due teatri Fillmore
East e West di San Francisco, ed è la prova di quanto fosse emozionante e
travolgente la Quicksilver Messanger Service dal vivo. La prima facciata
è composta da una lunga suite di venticinque minuti che prende spunto da Who
Do You Love di Bo Diddley per poi diventare, strada facendo,
qualcos’altro, in un impasto musicale fantastico. La seconda facciata si apre
con Mona sempre di Bo Diddley e, passando per la strumentale Maiden
Of The Cancer Moon, si finisce con Calvary, un pezzo scritto da Gary
Duncan. C’è di tutto intinto in questo disco, svisate, arpeggi, chitarre
distorte e laceranti, tocchi di acustica e improvvisazione. Un vero autentico
trip sonoro. Uno dei momenti migliori del rock californiano degli anni
sessanta. Stavo cercando di adattarmi alla situazione ma ero sempre animato da
una profonda sfiducia verso il genere umano. Mi sedetti in un bar sotto un
pergolato e ordinai da bere. Dal cestino poggiato sul tavolino presi dei
fazzolettini e mi asciugai il sudore sulla fronte. Mentre aspettavo osservai
dei ragazzini che indisturbati giocavano al videopoker. Il cameriere mi allungò
il bicchier gelato con la vodka alla pesca che mandai giù in un botto, solo per
il gusto di sentirmi le budella bruciare. Non mi andava d’ingannare nessuno, ma
ogni domanda che mi facevo restava senza risposta, e questo non era un buon
modo per andare avanti. Pensieri cupi si accavallarono nella mente mentre
rientravo a casa. Mi fermai sotto una palma ormai morta, perché attaccata dal
punteruolo rosso, un insetto che al suo interno compie tutto il suo ciclo
vitale, e mi accesi una sigaretta. Il nome The Byrds in americano non ha
alcun significato razionale, invece il suono dei Byrds rimane ancora
oggi un mistero. Innovatori, eccentrici, geni, alieni chi lo sa. Forse solo
musicisti. “Se vuoi diventare una stella
del rock&roll, ascolta quello che devo dirti, prendi per un po’ una
chitarra elettrica ed impara a suonarla, e quando i tuoi capelli sono lunghi
abbastanza e hai i blue jeans ben attillati, allora sei a buon punto ed è tempo
che tu vada giù in città dove troverai un agente. Vendi la tua anima alla
compagnia discografica che aspetta di vendere la sua merce di plastica. In una
settimana o due, se c’è la farai, le ragazze ti prenderanno da parte, il prezzo
che tu hai pagato per la tua ricchezza e la tua fama è un gioco strano. Sei un
po’ pazzo, il denaro che ti arriva e l’urlo della folla. Non scordare chi sei:
tu sei una stella del rock & roll.” (So you want to be a rock and roll star) Nell’estate del 1964
Jim McGuinn stava suonando al Troubadour di Los Angeles e si stava
divertendo improvvisando imitazioni delle canzoni dei Beatles. Seduto
tra la folla c’era Gene Clark, un ragazzo apache del Missouri a cui
quell’esibizione fece venir voglia di formare una rock’n’roll band. The Jet
Set, con al basso David Crosby, incisero due brani sulla raccolta Early
L.A., pubblicata dalla casa discografica Elektra. McGuinn, Clark e
Crosby, giusto per affinare l’intesa, si esibirono in qualche locale dove
reclutarono un virtuoso del mandolino, un certo Chris Hillman, e un
batterista alla sua prima esperienza, Michael Clarke. Dopo un periodo in
cui si chiamarono The Beefeaters, il gruppo prese il nome di The
Byrds. Con la produzione di Jim Dickson incisero ai World Pacific Studios l’album Preflyte,
che vedeva composizioni scritte da Clark McGuinn e Crosby. Per la prima volta
una band di rock eseguiva canzoni di musica folk e questo cambiò le cose per
sempre nel rock’n’roll. “Mr Tambourine Man” è il brano di Dylan
che li avrebbe, da lì a breve, catapultati nel mondo delle rockstar. La notte
del 20 agosto 1965 la FM’s di L.A., San Francisco e San Diego iniziarono
a trasmettere le loro canzoni due volte ogni ora. Ho avuto sempre un debole per
Clark, uno che voleva starsene lontano dal caos e che non voleva
essere una rock’n’roll star. La sua Here Without You è una
delle mie canzoni preferite di sempre. Il
giorno serve a farmi sentire solo. Di notte non posso far altro che sognarti.
Ragazza, sei ogni istante nella mia mente. E’ così difficile starmene qui senza
di te. Parole nella mia testa continuano a ripetere quello che hai detto quando
stavo con te. Mi chiedo se sia vero che tu provi le stesse cose. E’ così
difficile, qui, senza di te, stare qui, senza di te.” Il
pomeriggio la strada sterrata vicino casa era inondata da un sole
incredibilmente luminoso. Il ventilatore sul tre piedi ruotava cigolando.
Quando ci stavano i miei genitori era una casa aperta a tutti. Per questo loro
ci tenevano così tanto. Gli era costato molto economicamente, ma ne era valsa
la pena. In tutte le stanze c’era ancora qualcosa che parlava di loro. Quella
notte avevo dormito molto e mi sentivo migliore. Era un pomeriggio caldo e
senza particolari pretese. La vita non mi aveva fabbricato felice. E in
qualche modo sarei sopravvissuto.
Bartolo Federico
lunedì 16 gennaio 2017
Gloria Di Velluto (The Molochs-America’s Velvet Glory)
E' un tuffo nella frenesia artistica degli anni sessanta questo disco. Nei sotterranei del rock, quando la musica ha davvero vissuto uno dei suoi momenti più magici. Eccoli qua quei sogni e suoni avanti nel tempo, che sapevano puntellare le canzoni con un nodo d'organo misterioso e malato, accompagnando le melodie con riff di chitarra aspri e liberi, che non ti trituravano le palle con assoli infiniti, e che si avvolgevano come per magia al buio della notte. Qui rivive la musica oscura e futuristica dei Velvet Underground la più grande rock'n'roll band mai esistita, e porta con se una nuova inquietudine, una nuova foschia, come lo seppero fare i dischi d'esordio dei Green On Red, Dream Syndicate, Television, The Only Ones (solo per citarne alcuni nella folta schiera di ammiratori) e ancora prima i Modern Lovers di Jonathan Richman, uno degli artisti più sottovalutati della storia del rock. Riciclaggio di canzoni ad uso e consumo di nuovi seguaci, ma anche per chi striscia nella notte e ha resistito chiuso dentro il suo rifugio tra veglia e sonno, sprofondato nella voragine ad ascoltare i rumori di un mondo che sbraita, ma che resta fermo, nel vento che soffia.
Bartolo Federico
domenica 15 gennaio 2017
Eternamente Qui
Ci sono giorni che somigli a uno che si tiene a galla senza più
speranza. Resti come inebetito, spingendoti verso la deriva. Ma è la
disperazione che fa scattare la molla per riprendere a lottare. Frankie Lee Sims imbracciò la chitarra arrotolandosi
su se stesso come un gatto. E anche se l'alcol e l'ozio in cui era sprofondato,
lo avevano ridotto male, si sentiva in grado di aspettare un miglioramento. Con
una smorfia si bagnò l'anima in quel blues che lo affliggeva. Poi
quel blues rimbombò dentro le lattine di birra sparse sul pavimento, che
lo amplificarono. Chiuse gli occhi e avvertì il rumore di un treno, che veniva
da sud. Quando il treno si fermò sopra il ponte, sentì come se tutte le ragazze
del quartiere avessero cominciato a cantare... Vieni qui... eccoti qui... Frankie
Lee Sims, vieni qui… eccoti qui….
Frankie Lee Sims... Quando al
mattino mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana, le previsioni del
tempo davano un peggioramento nella serata, con vere bombe di pioggia in
arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero e la sciarpetta di seta in
fantasia cachemire che era stata di mio nonno, m’infilai gli occhiali e nel
momento in cui Frankie Lee Sims aveva cominciato a cantare Raggedy And Dirty, spensi lo stereo dall’interruttore
della luce. Una diavoleria escogitata da Sal, quando ancora frequentava il regno
dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento, e una volta in strada insieme a
quella nuova indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il
cuore, m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il
sopravvento sui miei pensieri. Osservai i passanti infagottati in quegli enormi
piumini da neve che procedevano silenziosi con il viso fasciato da grandi
sciarpe di lana, e mi parevano come spettri. Pensai che la mia casa era
davvero così piena di musica, da potermi considerare quasi come un
suo ospite. Il vento fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi
verso l’entrata della metropolitana. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere,
ma nello stesso tempo essenziali per tirare avanti. E ci scordiamo di quei
brividi che ci hanno reso la vita un po’ meno amara. Scesi i gradini della
metrò e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue
rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla.
Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la
ferita che non si era più rimarginata e lo aveva fatto cadere insieme ai suoi demoni,
nelle profondità più nere di noi stessi. Un eroe ribelle e drogato, che ha
attraversato la storia del rock, lasciando un segno profondo. Lui più di tanti funamboli rompicoglioni
della sei corde, è da considerarsi un vero uomo di blues. Ma com'è successo per tanti
altri rinnegati del rock, dal cuore puro e furibondo, è stato
dimenticato in fretta. Sparito per sempre sotto un cumulo di polvere e macerie.
Se chiudo gli occhi e come se lo vedessi ancora con quell’aria goffa e smarrita,
fermarsi e intonare un paludoso blues di Charley
Patton. L’esordio folgorante di Fire
Of Love (1981) con la sigla Gun
Club, è un disco di canzoni che hanno dentro quella fiamma che brucia, e che
non si placa. Che ti arrivano come un pugno in pieno viso, perché hanno il
piglio della ribellione e dell’anticonformismo. Perfette per uomini che si
sentono soffocati da un mondo che ti afferra e ti rovescia, sul lato opposto
dei tuoi sogni. Zeppe di quel vento ululante che ti fa ghiacciare il
cuore nella notte, e di quel blues ancestrale che ha popolato le strade del
Mississippi. Un disco che resta una pietra miliare, e che ebbe la forza di
aprire le porte a tanti punk verso la musica del diavolo. Allora il resto del mondo però non contava niente. Il
rock mi tranciava la pelle, l'anima, in quella disperazione mattutina dopo una
notte balorda e disperata. Fu però con Miami che Lee Pierce conquistò una visibilità
più ampia. Un disco notturno e denso di emozioni, spudorato per quella spontaneità
ad esporsi nei suoi sentimenti, senza alcuna barriera di protezione. Che ad
ascoltarlo oggi a distanza di tre decadi, ti mette paura, tanta è l’intensità di
quella sventagliata di rock viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e
lirico. C’è lo spirito di Hank Williams
che aleggia nelle canzoni, mentre Jeffrey si avvicina allo spirito
anarchico e medianico di Jim Morrison.
Chris Stein è il produttore di
questo lavoro un ex membro dei Blondie,
gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante Deborah Harry, anche lei qui presente.
Chris con la sua produzione tende soprattutto a far risaltare la sua voce, e
quel canto sferragliante e infettato di voodoo, fumo, e sporco fino al midollo
del rock’n’roll selvaggio dei migliori Creedence
Clerwatwer Revival. In Miami
ci sono canzoni di un uomo che nonostante tutto riesce a sopportare ancora il
dolore. Anche se la droga e l’alcool stanno diventando fin troppo importanti
nella sua vita. Ma in fondo è la storia che lo insegna, è sempre dai
sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali,
delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento. Don't
let her take her love to town They
will never fill her hear She
needs a passion like her fathers used to be I
know because I'm like the train shooting down the mainline I
know because I'm the Indian wind along the telegraph lines She's
like heroin to me She's
like heroin to me She's
like heroin to me She
cannot miss a vein. (She's Like Heroin To Me) Durante una pausa per le registrazioni del disco Jeffrey si accese
uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani, e
un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato
sa fare. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. Pioggia e
freddo intenso avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una
metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione,
che le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni la vedeva
protendersi e chiamarlo. Lo pregava di proteggere il suo
ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide camminare verso di lui.
Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso afferrò
la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Su quegli
stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova canzone. Tutti i presenti
si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava i versi di Mother Of Earth, ancora avvolti dentro una melodia traballante. "Sono andato giù nel fiume della
tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti
chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del
mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande
terra. “(Mother Of Earth)
Era il blues che risuonava dentro di lui, e sarà sempre il blues a tingere di
scuro le sue canzoni, anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne
i suoni, sarà sempre il blues demoniaco e disperato della sua anima, che tirerà
pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note, combinazioni, si possono
ottenere da una chitarra? E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi?
Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli
uomini, e dei loro bisogni. Perché anche i solitari vivono una loro vita, amano
e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey
colmo di una malinconia indelebile. Ma i sentimenti che proviamo sono più
potenti delle parole. “Torna da me
amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime” Quando sussurra con
l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro il microfono, capisci quanto
era fragile e vulnerabile. Le sue canzoni risuonano ancora oggi impetuose per
quei selvaggi che hanno il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. Ci sono
persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di
morire, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la
pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto
incontrare Jeffrey per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché
altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella
stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. E che la
destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue
canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza.
Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e se si
sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso,
abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non
ho avuto il coraggio di dirglielo. Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata qualunque del metrò scesi e camminando senza
meta per la città, mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte, e non
si fidava più di nessuno. Andando in giro mi resi conto che quello che
attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di
tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice,
banale formalità. Nelle maggior parte dei negozi, stavano appesi i cartelli con
la scritta Affittasi/Vendesi. Una donna di mezza età mi chiese dei soldi.
Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita
però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre. Qualcuno dice che se
conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico
che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti al
municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte
della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle
persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato,
erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero
cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo.
Tornare a combattere invece di starsene inermi ad aspettare servirebbe a
cambiare lo stato delle cose? Non lo so. Non so più un cazzo di niente. Un
anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di
un cassonetto girò la testa, e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una
grande pensione figliolo”. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È
un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei
nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa l’orologio a muro segnava le due e
venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava
accadendo. Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra, ma siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà se ci fossi salito a quale stazione sarei sceso? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E' vero comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. E’ l’anno 2017 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che
si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia, ero di cattivo
umore così negli scaffali dei dischi rintracciai gli “X”, la banda di John Doe e
Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando
quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 "Los Angeles” l’album prodotto da Ray Manzarek, l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade
il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di
Dylan, Jim Morrison, Patti Smith,
Lou Reed, Jimi Hendrix. Los Angeles
è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei
valori umani. Ma è anche la grande voglia di non arrendersi, avendo chiara la consapevolezza che il momento più duro, è sempre
quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco con il suo
inconfondibile suono la tastiera di Manzarek si presta per colorare il
buio, dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del
mio cuore. Qui oltre alla forza dirompente del punk ci sono quei duetti
bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni malvagie
e feroci, fino a raschiarsi le corde vocali, fino a cadere sanguinanti in fondo
alla notte. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto
le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. Procediamo curiosi
nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra,
un’altra volta a sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che
nessuno ci spiega. Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza.
In quella sfrontataggine c’era molta sincerità. Quello che non capiva il punk
lo intuiva. Poi come in una sorta di auto indulgenza non sapendo barare, sé né
tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile giungere. Quando la
musica è finita ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era
rimasto, ho rassettato la cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una
doccia, e mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio. Ma mi era
venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a
nessuno.
Bartolo Federico
venerdì 13 gennaio 2017
Giorni Blu, Notti Nere
Quel tizio aveva lo sguardo vago e il naso rosso ma il tono della
sua voce era forte e sicuro. “Noi uomini
sterminiamo tutto ciò che c’è di bello e di buono in questo mondo, e tutti
siamo colpevoli allo stesso modo. Nessuno è innocente”. Si accese un sigaro
e si versò un bicchiere di vino, guardandosi la punta delle scarpe. Per un
breve attimo oscillò in avanti quasi volesse cadere, ma fortunatamente si
riprese subito. La festa delle seconde nozze di un mio vecchio amico, si stava
rivelando più piacevole del previsto. Ci ero andato controvoglia perché ero in
una fase in cui non me la sentivo di stare tra la gente, e solo il pensiero di
rincontrare vecchie conoscenze per poi finire a rivangare i bei tempi che
furono, mi metteva un'assoluta tristezza. Ma Ale me l’ero ritrovato sempre nei
momenti più difficili, e non mi andava di deluderlo. Così su quel prato inglese
di quell’albergo di una famosa località turistica siciliana, bevendo vino
bianco ghiacciato, mi ritrovai a conversare con quell’uomo che con esattezza
non sapevo neanche chi fosse. Ho paura
s’interruppe per portarsi il calice alle labbra, si schiarì la gola, e
proseguì; “ho paura che non resterà più
nulla su questa terra di meritevole. Stanno spazzando via tutto con inaudita
ferocia e violenza, stanno creando un mondo che è una pattumiera a cielo
aperto. Il guaio è che a nessuno sembra importargliene. Di questo passo dove
andremo a finire?" "Ho
l’impressione", proseguì avvicinando il sigaro che teneva in mano e
poi allontanandolo come per focalizzarlo, "che finiremo male, molto male. Quest’universo è amministrato da gente
incapace che ha sempre pensato al proprio profitto, e mai al bene comune.
Ciarlatani, saltimbanchi, che hanno in mano il destino degli esseri umani. E'
veramente incredibile tutto questo”. Quello sconosciuto era davvero un
fiume in piena, s’infiammava e trasudava passione da tutti i pori. Restammo a
parlare fin quando due bambini giocando a rincorrersi mi franarono sulle gambe.
Li osservai rialzarsi lesti da terra e correre via. Chissà perché pensai alla
solitudine degli uomini. Quella solitudine che ci perseguita e ci rende amara
la vita. Che ci riempie di dubbi e man mano che avanza sgretola le nostre
piccole certezze. Come fanno certi blues tristi e dolorosi che ti divorano
dentro sin dal primo ascolto, per non lasciarti mai più. La mattina dopo mi
svegliai all’alba che ero completamente sudato, e senza aver dormito a
sufficienza. Era una giornata afosa per cui mi ficcai velocemente sotto la
doccia, prima di prendere il caffè. Sotto il getto dell’acqua ripensai alla serata
trascorsa, tutto sommato considerai che mi ero rilassato, una cosa che ultimamente
mi capitava di rado. Mi asciugai in fretta e scesi in cucina. Mentre preparavo
la caffettiera accesi la radiolina, che suonò incredibilmente Peggy Sue.
Un brivido mi percorse il corpo, quasi come fosse una scossa elettrica. Una
canzone che difficilmente oggi senti per radio. Una canzone che fece conoscere
al mondo le stella di Buddy Holly. Che da
quando è morto, il rock non è più lo stesso. Questo lo ha detto un protagonista del film America Graffiti, pellicola che
diresse George Lucas nel 1973,
che è un omaggio alla sua giovinezza e al rock’n’roll. Buddy Holly nasce a Lubbock in Texas, nel 1936. È un
ragazzino precoce con la musica. A quattro anni prende lezioni di violino, e a
cinque partecipa ad un concorso per canterini, dove vince un premio di cinque
dollari. A dodici anni si compra la sua prima chitarra, dopo aver suonato il
pianoforte. Andava ancora a scuola quando con il suo inseparabile amico Bob Montgomery,comincia a suonare alle
feste scolastiche o in casa di amici. La KDAV di Lubbock era una radio country locale che organizzava
concerti nei suoi studi, e al Cotton
Club, una delle sale da ballo più importanti della zona. Hi-Pockets Duncan faceva il
disc-jockey in quella radio, e divenne il primo manager di Buddy Holly. Ogni
domenica pomeriggio dell’anno 1954 Buddy, Bob Montgomery e il bassista Larry
Welborn, suonano alla KDAV
nel programma radiofonico “Sunday Party”,
mentre alla sera aprono gli spettacoli che si tengono al Cotton Club. E’
davvero difficile dire di conoscersi. Chissà quante vite racchiudiamo in ognuno
di noi, che attendono solo di essere vissute. E le cicatrici che ci portiamo
appresso, sono come dei marchi a fuoco per la nostra coscienza. Rassettai il
soggiorno, e mi misi a scartabellare vecchi scritti di mio padre. Che è un modo
per continuare a parlarci. Bisogna sempre guardarsi indietro, per capire da dove
si viene. Holly è il suo gruppo
suonavano e provavano nuove canzoni chiusi nel garage sul retro di casa sua, ed
è verso il 1955 che il batterista Jerry
Allison, comincia a frequentare Buddy. La musica di Holly sta navigando
verso un'altra direzione, e la presenza di Elvis Presley sul mercato discografico favorirà questo
cambiamento. Elvis aveva appena inciso per la Sun Records, quando arriva a Lubbock per una data al Cotton Club
invitato dall’emittente KDAV, ed
è lì che i due s’incontrano. Il giorno dopo quello
show, Buddy aprirà il concerto che Elvis terrà per l’inaugurazione del salone
della concessionaria Pontiac. Il rock’n’roll è stato solo un'illusione di
libertà. E’ servito a contenere le pulsioni di milioni di adolescenti e
ammansirli dentro un recinto, concedendo solo qualche salvacondotto, tanto per
non inasprire troppo gli animi. Ha camuffato con furbizia comportamenti
inoffensivi, facendoli passare per ribelli. Non ha infranto nulla. Chi ha
spezzato le regole lo ha fatto da solo, e per se stesso. Il rock’n’roll non
c’entra con quelle ragioni. Ascoltavano
tanta musica Buddy e i suoi
amici. Elvis, ma anche i Drifters
e Ray Charles, musicisti che
seguivano tutte le sere attraverso una radio che trasmetteva da Shereveport, località vicina a
Lubbock. Non era per niente rivoluzionario Holly nell’aspetto, a differenza
degli altri rocker degli anni cinquanta. Anzi, sembrava uno studente riservato
e impacciato, con quei grandi occhiali che gli ornavano il volto. Ma
musicalmente era il più avanti di tutti. Un cantautore che sapeva mescolare con
estrema sensibilità tutti i generi musicali che lo avevano influenzato, creando
un suono riconoscibilissimo. Fu tra i primi ad utilizzare in studio la tecnica
dell’overdubbing, (sovra incisione) ed a lanciare la chitarra Fender
Stratocaster nel mondo del rock. In Pulp
Fiction il film di Tarantino
nel locale Jack Rabbit Slim (che
è anche il titolo di un disco di Steve
Forbert) a tema anni cinquanta, l’attore Steve Buscemi è un cameriere travestito da Holly. Quando quella
mattina la signora Stella mi vide passare, mi salutò con un cenno degli occhi.
Se ne stava sotto la grondaia al fresco del suo chiosco, e combatteva l’afa di
un agosto opprimente, sventagliandosi noiosamente un po’ d’aria. Suo marito
"l’americano" come lo
chiamavamo nel quartiere, era seduto accanto a lei, e sorseggiava una granita
limone. Quell’uomo aveva sempre l’aria del cazzo, con quei baffi irti sembrava
che non cambiasse mai d’espressione. "Caramelle
dolci, cocco, panini" vociò lei rauca. La conoscevo sin da bambino e
gli ero affezionato. Ci ero cresciuto giocando sul marciapiede di quella strada. Al Fair
Park Coliseum di Lubbock nel 1955 Bill Haley and His Cometes e Jimmy Rodgers Snow, tennero un concerto. Ad aprire quell’evento ci
pensarono Buddy e i suoi amici. Quella sera era presente l’impresario di
Nashville Eddie Crandall che
rimase folgorato da quei ragazzi, tanto da chiedere a Dave Stone il proprietario della radio KDAV, l’acetato di quattro
loro brani. Canzoni che tramite Crandall arrivarono a Paul Cohen della casa discografica Decca, che lo volle subito sotto contratto anche se da solista. Fu
Bob Montgomery a convincere Buddy ad andare a Nashville, perché lui non ne
voleva sapere di lasciare gli altri a casa. Quella session per la Decca incisa
il ventisei gennaio del 1956
allo studio Bradley’s Barn,
produsse il suo primo singolo “Blue
Days, Black Nights”, mentre sul retro ci sistemarono “Love Me”. La seconda seduta viene
fatta un paio di mesi dopo, il ventidue
luglio del 1956, questa volta Buddy incide con la batteria, e a suonarla
c’è il suo amico Jerry Allison.
Da questa session non escono dischi, anzi c’è da parte di Cohen una qualche
sorta di ripensamento sulle qualità artistiche di Buddy. Ma si sa che Nashville
è un ambiente musicalmente conservatore dove si suona da sempre il country, e
trovare musicisti adeguati alla musica di Holly che era uno sperimentatore, era
davvero difficile. Quel giorno tra l’altro incisero anche “That’ll Be The Day”, che sarà il primo
grande successo di Buddy e dei suoi Crickets.
Avevo circa sette anni quando un
parente tornando da un suo soggiorno in Svezia, portò in regalo a mia madre dei
quarantacinque giri di Elvis Presley. Erano tempi in cui le famiglie italiane
se ne stavano riunite in religioso silenzio, ascoltando e registrando le canzoni
del festival di Sanremo con dei piccoli apparecchi a cassetta, appoggiati
all’altoparlante della televisione. Io invece me ne stavo sotto la branda del
mio letto con il mangiadischi, ad ascoltare quei dischetti neri, fino a quando
non si scaricavano le pile. Quelle canzoni stavano cantando del mio sogno e fu
allora ne sono certo, che quel tremito interiore s’impadronì di me. Adesso è
come se avessi appoggiato un occhio su una foto sbiadita dal tempo, che
m’imbottisce di nostalgia. Il rock’n’ roll è stato il desiderio di
essere liberi, una voglia irrefrenabile di fuga, di spazio. Ma anche della paura
che questa nuova condizione implica. Così gli sconfitti, i solitari,
nell’immaginario del rock diventano eroi, perché in qualche modo credono di
avere una superiorità morale rispetto al resto del mondo. Ma il rock è una
visione, e come tutte le visioni ha dei confini su cui muoversi, e i confini
indicano sempre delle limitazioni, quindi il controllo da parte di qualcuno. Il
rock nel tempo non è riuscito più a comunicare e crescere. L’industria che gli
gira intorno è riuscita ad omologarlo e a fargli perdere l’orientamento. A novembre del 1956, Buddy Holly tiene
l’ultima registrazione per la Decca. Vi suonano solo session men, e a Natale
dello stesso anno viene pubblicato il singolo “Modern Don Juan”, con sul retro “You Are My One Desire”. Buddy Holly comincia a viaggiare verso
altri contesti, e prende a collaborare con Norman Petty, che a Clovis New Mexico ha uno studio di registrazione.
Petty è un musicista di successo, ha mandato nelle classifiche di vendita due
brani “Almost Paradise” e “Mood Indigo”, e fa pagare il costo del
suo studio non ad ore, ma a canzone. Holly registra qui nuovi brani da proporre
alla Decca, che però non gli rinnova il contratto. “That’ll Be The Day” viene nuovamente registrata in questo studio
il venticinque febbraio 1957, ed
è la versione che andrà in classifica. Qui si forma anche il nucleo storico dei
Crickets, che oltre Buddy Holly,
vede Niki Sullivan alla
chitarra, Allison alla batteria,
e Welborn al basso. Saranno poi
le sussidiarie della Decca, Brunnswick e Coral, a distribuire quei dischi. La sera al rientro mi sentivo
particolarmente stanco, accesi una spirale d’incenso su un piattino per tentare
di allontanare le zanzare, e mi coricai tirando il lenzuolo fin sulla testa.
Alcuni di noi sono predestinati alla salvezza, altri condannati alla
dannazione. Ma converrebbe sempre non fidarsi di nessuno, se non si vuole
crepare prima dei propri giorni. Rimasi immobile nel letto con gli occhi sbarrati,
e contando le pecorelle cercai di prendere sonno. Quella sera però non riuscivo
a dormire nonostante la spossatezza, allora mi alzai, e sul balcone mi accesi
una sigaretta. Ne aspirai qualche boccone e la gettai via con disgusto.
Guardai il tubo del neon del terrazzino che era assaltato da minuscoli insetti,
e tornai a coricarmi, lasciando la finestra spalancata. Alle volte ci sentiamo
indifesi tutti infilati negli stessi sogni, tutti uguali, tutti soli. Mi chiesi
se era Peggy Sue che mi mancava? Il
ventisette maggio del 1957, a nome Crickets “That’ll Be The Day” fa il botto e arriva al numero uno delle
classifiche inglesi, e si piazza terza in quelle americane. L’attività
concertistica del gruppo subisce un'impennata notevole, mentre nelle studio di
Norman Petty, si continua a lavorare a nuove canzoni. Tra il ventinove
giugno e il primo luglio, Buddy registra a suo nome Peggy Sue, e dopo qualche mese dalla sua pubblicazione parte in
tour insieme a: Chuck Berry, Drifters,
Paul Anka, Eddie Cochran e Fats Domino. La paga è di mille dollari alla
settimana. I Crickets e Buddy partirono invece per un tour di venticinque giorni in
Inghilterra, dove hanno ben quattro singoli in classifica. Qui partecipano ad
una trasmissione della BBC chiamata Off
The Record, e subito dopo fanno ritorno negli States, dove invece
prendono parte ad un tour guidato dal disc jockey Alan Freed, chiamato The
Big Beat, insieme a Jerry Lee
Lewis e Chuck Berry. E'
nell’agosto del 1958, che Buddy Holly sposa Maria Elena Santiago che ha
conosciuto a New York. In questo periodo di cambiamento cerca di diversificare
anche il suo repertorio, e invita il sassofonista King Curtis a registrare un suo pezzo “Reminiscing”. Esistono cose davvero malvagie nel mondo, che
non smetteranno mai di riprodursi. Ma come il sole che ogni giorno continua a
sorgere e tramontare, anche l’amore non si ferma mai ed è incontenibile.
Continua a scavare e a scalciarci dentro come un bambino nel grembo. Cos’è
stato il rock’n’roll se non quell’illusione di restare per sempre giovani, per
sempre innocenti? Due strofe e un ritornello che è un modo come un altro per non
perdere la propria identità, per riconoscersi in qualcosa prima di finire in
quel mondo, che è l’ingresso nella vita dei grandi. Dopo l’ultimo tour con Frankie
Avalon, il grande Dion And The
Belmonts e Bobby Darin, Buddy scioglie i Crickets e si trasferisce
a New York, andando ad abitare al Greenwich
Village. Qui con l’orchestra di Dick
Jacobs, incide il ventuno
ottobre del 1958 un brano di Paul Anka “It Doesn’t Matter Anymore”. Sono quindici mesi che Holly si
divide tra tour e sala d’incisione. A New York finalmente trova il tempo di
rilassarsi e incide a casa sua delle canzoni solo per chitarra e voce, pezzi
finiti in cui collabora anche sua moglie. Il 2 febbraio del 1959 Buddy Holly ha ventidue anni e insieme a Dion And The Belmonts, Frankie Sardo, Ritchie
Valens e The Big Bopper (J.P.
Richardson) si trova al Surf
Ballroom di Clear Lake
nello stato dello Iowa. Finito
lo spettacolo per evitare un lungo trasferimento in macchina, e dato che
all’indomani devono suonare a Moohead
nel Minnesota, Holly, Valens e
Big Bopper, affittano un aereo un Beech Bonanza pilotato da Roger Peterson. Nella notte decollano,
ma l’aereo precipita poco dopo, a cinque miglia dall’aeroporto di Mason City. Muoiono tutti, e verrà
accertato che è successo per un tragico errore del pilota, che ha inserito il
volo strumentale senza saperlo usare del tutto. It Doesen’t Matter Anymore pubblicata il cinque gennaio del 1959, diventerà il più grande successo di Buddy
Holly. La brace della sua sigaretta brillava nel buio. Quando la vidi dentro
casa non mi ricordai se avessi nutrito qualche speranza di rivederla.
Attraversai il salone e me la trovai di fronte. Aveva un'aria smarrita. Vuoi fumare?
mi chiese nervosa. Una semplice domanda, a cui non seppi rispondere. Era
diventata misteriosa. “L’ho sempre saputo che sarei tornata da te”. Mi
sentivo bruciare le guance e prima che ruzzolassi nel buio di me stesso, versai
due bicchierini di brandy e mi sedetti sulla panca del terrazzino. La guardai
con attenzione. Era bella con i jeans sbiaditi e quella camicetta attillata,
che gli faceva quasi esplodere il seno. “Perché sei tornata" gli
chiesi. E guardai il cielo nero, chiuso, piatto, sopra la mia testa, in attesa
della sua risposta. “Perché è solo qui che ho le mie certezze”. Nonostante
fossero le dieci di sera il caldo era ancora soffocante. Scrutai i suoi grandi
occhi castani e mi parve gracile. Se ne stava in piedi in un atteggiamento mite,
che era anche questo una sorpresa. Avevo sempre avuto un debole per le donne
sagaci e tristi. “E’ l’amore disse, che mi ha portato fin
qui, nient’altro”. Non c’era alcuna aggressività in lei, lo notai alle
prime luci dell’alba mentre dormiva tranquilla arrotolata nel lenzuolo. E’ un
labirinto l’amore che c’inghiotte nelle sue spire e che ci salva da noi stessi.
Mi alzai e preparai il caffè. Lo bevvi da solo in silenzio a sorsi molto
lenti. Poi accesi la radiolina. Peggy Sue I love You.
Bartolo Federico
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