domenica 13 agosto 2017

La Fabbrica

La notte come una vecchia baldracca era uscita traballante dal suo nascondiglio segreto, conquistando qualunque cosa. Non avevo molto da fare quella sera perciò me ne stavo seduto nel buio della mia auto, fumando e guardando la città. Me lo ripeteva sempre mio padre che “tutto s’aggiusta nella vita” ma, nel guazzabuglio in cui mi trovavo, non ero più sicuro neanche di questo. Mi sentivo stanco di gironzolare, di camminare, e non trovare mai nulla che mi somigliasse un po’. Accesi la radio per riascoltare “Words From The Front”, un vecchio disco del 1982 di Tom Verlaine. L’ex leader dei Televison è sempre stato un uomo schivo e profondo, un tipo con l’aria provata. Uno che non ha mai usato droghe, brillante e istruito, sghembo e ossuto, che ha sempre scritto canzoni nervose, aspre e agitate e, solo all’apparenza, fredde e ciniche. Allungai un braccio e la chitarra tagliente e affilata di Postcard From Waterloo, non fece alcuna fatica a conficcarsi proprio dove c’era freddo e silenzio. E’ sempre meglio non farsi illusioni, serve a non perdere quel poco d’anima che è rimasta rintanata dentro di noi. La vita prima o poi si riprende tutto, senza sconti. Così quella brutta smorfia che nascondiamo viene fuori, e si mette in bella mostra sul nostro viso, insieme ai nostri fallimenti, alle nostre angosce, che solo a guardarci allo specchio diventa una fatica assurda. Days On The Mountain toccò spietatamente altri punti deboli rimasti scoperti, e mi obbligò a stoppare quei pensieri. Una macchina con più persone a bordo per qualche istante si accostò accanto alla mia. Erano le undici e trenta e mi parve che la musica si muovesse inquieta sotto quell’illusorio gioco di luci che la strada offriva. “Attraverso luoghi di timore, attraverso luoghi di dolore, sotto la pioggia, vedo mio padre varcare i cancelli della fabbrica. La fabbrica lo ascolta, la fabbrica gli dà vita, è vita, vita, nient’altro che vita di lavoro. (Factory – Bruce Springsteen). Da giovane con i miei genitori e mia sorella abitavo in una casa vicino allo scalo merci. Dalla mia finestra potevo udire a qualunque ora del giorno i locomotori dei treni che aspettavano il loro carico, per poi scivolare lentamente sulle rotaie. Nella città in cui vivevo non accadevano molte cose. Era triste e noioso quel posto, fatto prevalentemente di vecchi fabbricati anneriti dal fumo dell’acciaieria. La maggior parte degli abitanti ci lavorava in quella fabbrica, compreso mio padre, e tutti erano iscritti al sindacato. Le cose sembravano che funzionassero, tanto che avevamo comprato il televisore, la lavatrice, e il frigo era quasi sempre pieno… ma non tenere gli occhi aperti e vigili su quegli uomini gli era costato caro. Lentamente, giorno dopo giorno, quei ciarlatani dei sindacalisti, avevano svenduto le loro tutele. Fin quando accadde che la proprietà licenziò tutti i lavoratori. Velocemente smantellarono i macchinari per andare a produrre all’estero. La loro mattanza sociale, inseguendo un profitto sempre più alto, sarebbe continuata sulla pelle di altri uomini, di altre famiglie. La città in breve tempo si svuotò, e anche noi prima che finissero i soldi della liquidazione, andammo via. Spensi rabbiosamente la sigaretta nel posacenere dell’auto. C’ero cresciuto al bar di Pietro Lombardo, un posto che puzzava di acqua di colonia “Mennen”, e Nazionali” senza filtro.  L’unico posto dove potevi farti una partita a biliardo, e bere qualche birra senza che nessuno ti rompesse le palle. Pietro era stato un marinaio, uno a cui piaceva andare in fondo alle cose, un tipo stravagante che sapeva sempre come fare per alzare il morale, e la temperatura corporea agli astanti. Un appassionato di musica rock che ogni sera ci apriva i cancelli del cielo, facendoci ascoltare i dischi che aveva comprato in giro per il mondo. Fu mentre che la pioggia cadeva a rovesci sulla città, che conobbi i Dr. Feelgood. Una band operaia che suonava del rock blues, ad alta gradazione alcolica. Un gruppo di giovani emarginati, capace d’infuocare la notte in quei luoghi di Londra frequentati dal sottoproletariato urbano, da disperati, sbirri e malviventi. Musica diretta al cuore di chi non riusciva a pagare l’affitto, ed era vestita fuori moda. Lee Brilleux suonava l’armonica e cantava, mentre Wilko Johnson suonava la chitarra.  Tipi tosti che con la loro miscela fecero da ponte per far traslocare il rock anni settanta, alla rivoluzione punk. Sparavano cannonate micidiali, rollando e fumando le cover di Chuck Berry, Elmore James Sonny Boy Williamson. Erano dei maledetti selvaggi, e ogni loro esibizione si chiudeva quasi sempre in rissa, per quel troppo vigore di vivere, e di passione che c’iniettavano. Il loro live “Stupidity” uscito nel 1976 ha quel senso di libertà che ti svuota gli occhi dall’odio, e tra il fruscio dei solchi si può sentire ancora il rumore di quel blues che soffia impetuoso solo sulle sponde del Mississippi, mentre la chitarra e l’armonica sono così sincere che ti fanno commuovere. Canzoni sepolte dalla polvere del tempo, ma che mantengono ancora oggi quell’aria scomoda, e quel brontolio rabbioso di chi ha bevuto a sazietà e continua anche da solo a cantare uno sporco trasandato blues. Seduto dentro la macchina tenevo il braccio fuori dal finestrino, lo tenni tanto al freddo, che ad un certo punto sentii dei brividi percorrermi la schiena. Dal lunotto posteriore vedevo la strada piena di luci, e l’insegna di un motel per cuori infranti… e allora chissà perché pensai a Salvo, il mio vecchio amico Sal, sparito per sempre nel buio della notte. Quando eravamo ragazzi ci piaceva guardare i treni, ce ne stavamo per ore distesi sull’erba ascoltando il loro suono. Avevamo condiviso un mucchio di cose che il tempo adesso ha disteso sul letto dei ricordi, come ha fatto anche il suo viso, un volto che sapeva tenere qualunque segreto. Accartocciato nell’ombra il cuore ha preso a battermi forte, e tutti quei pensieri mi è sembrato che si sparpagliassero nel cielo. Tra le stelle. La mia stanza era rettangolare, c’erano pochi mobili e anche quelli per nulla invitanti. Davanti al mio letto c’era uno specchio e una poltrona di velluto che mi aveva regalato un vicino, quando era andato via da quel palazzo. Sul tavolo accanto la finestra c’era appoggiato un abat-jour di rame, un cappello di carta color avorio, e la mia radiolina. Sulla parete sopra il letto una fotocopia in bianco e nero della foto di copertina dell’incredibile isterico debutto, nell’ormai lontano 1977, dei Television. Un disco che rimane un caposaldo assoluto del rock’n’roll, con quell’odore di pioggia e malinconia che sprigionano quelle canzoni secche e appuntite come chiodi. Ho sentito un cigolo nel cuore, e ho preso a traballare. Un sapore amaro mi ha riempito la bocca. “Don’t Point Your Finger”, è uno dei tanti dischi nascosti negli sgabuzzini del rock. Un figlio bastardo, forse anche minore dei Feelgood, ma pure lui è stato una corrente d’aria fresca. Un unghiata nei polmoni pieni di catarro da fumo, su uomini con facce di granito e occhi smorti. Lo pubblicarono nel 1981 Nine Below Zero, un gruppo che ebbe la fortuna di andare in tour con i Kinks, e gli Who e che suonava con grinta e convinzione musica blues e rock’n’roll. Un disco che andrebbe rivalutato, imperfetto come deve essere sempre il rock quando suona sincero e onesto. “Don’t Point Your Finger” fu prodotto da Glyn Johns, uno che ha lavorato con Stones, Who, Faces, Zeppelin, Dylan, J. Hiatt, e tantissimi altri ancora. L’ho riascoltato l’altra sera mentre con gli occhi lucidi e spiritati, scartabellavo vecchie foto di famiglia. Mi sono accorto che mantiene inalterata la sua carica vibrante e tremolante e, soprattutto, quello stupido orgoglio che una volta mi faceva sentire di una specie superiore, quando scaraventato nella notte riuscivo ugualmente a vedere la luce del sole. Non come adesso che sono precipitato nel gradino più basso delle ombre. Ho fatto un sacco di lavori sottopagati, e anche non pagati. Forse mi è sempre mancato il coraggio di andarmene da qualche altra parte. Ma sono come intossicato dal tempo che passa e ti divora; ma stasera, seduto su questa macchina mi fa quasi piacere tenere gli occhi chiusi, aspettando che la luna sparisca dal cielo… è il momento giusto per lasciare che anche “Five” di J.J. Cale, un disco edito nel 1979, mi prenda con sé, con quel suo twang morbido, increspato, e quella voce di J.J. roca e sussurrata, mi racconti ancora un po’ di sogni, e dei cercatori d’oro. Si vive soprattutto di calore. Un tenue sorriso mi è affiorato sull’angolo della bocca. Mentre un nuovo miscuglio di sensazioni, un rimescolamento, mi sta facendo nuovamente sussultare, esitare, gemere. Come la vita. Anche questo mi avrebbe aiutato a tenere insieme i miei brandelli.  Ho fatto le mie valigie e mi dirigo verso la tempesta. Diventerò un imbroglione per spazzare via tutto quello che non si regge in piedi da solo. Spazzare via i sogni che ti distruggono, spazzare via i sogni che ti spezzano il cuore, spazzare via i sogni che ti spezzano il cuore, spazzare via i sogni che ti lasciano perdente, straziato dal dolore”. (The Promised Land – Bruce Springsteen).

 Bartolo Federico

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