È difficile vivere dall’altro lato della strada.
Il mondo si dissolve in fretta a guardarlo da quella parte. Che tu te
ne stia appollaiato dentro un bar, o sotto un sole caldissimo, o una
pioggia incensante, ti senti sperduto in quell’overdose di solitudine in cui ti sei cacciato.
Con quel vestito da senzatetto e quell’aria malinconica che ti pervade
la faccia, ti senti un perfetto idiota, mentre cerchi di limitare i
danni. Chi è sensibile alle sfumature lo sa bene, che la musica
trionferà sempre su tutto. Buttò giù del whiskey nel vuoto delle sue
budella, mentre Ray Davies cantava No One Listen. Seduto nella piccola cucina di casa cercava un modo per venire fuori da quel grigiore che negli ultimi tempi aveva avvolto la sua vita. Era un tipo come c’è ne sono tanti altri nel mondo. Un uomo pieno di grinze e ragnatele che viveva con assillo e furia la sua esistenza. “Quando invecchi gli aveva detto suo padre ti restano i ricordi”…
ma non te ne fai niente dei ricordi pensò. Solo seghe. L’unica cosa che
conta è non perdere il tuo tempo. Perché alla fine si muore. Come tutti
d’altronde. Non c’è altro. Rimise nuovamente la stessa canzone,
tornando indietro con il telecomando del CD. Dalla finestra filtrava una
pallida luce. Si chiese da che parte doveva andare, perché Ray Davies in quel momento cantava Imaginary Man: “I
saw my reflection in the glass Watched as the world went flashing past.
I knew the face but could not tell. Why I couldn’t recognise myself”. Lo aveva imparato da solo che ci vuole sempre una botta di culoper non finire annientati sotto i colpi di questo mondo marcio, barcollante, ostile… ma chi erano mai – e poi mai – questi gerarchi detentori del pensiero unico, per decidere le sorti di popoli interi?. E’ la storia che rappresentano che li inchioda. Nutrono immenso disprezzo per tutti i lavoratori, che si trovano nel livello più basso del mondo. Hanno un odio profondo per gli anarchici, gli ultimi, e i guastafeste, che non vogliono collaborare per i loro fini. Woody Guthrie lo spiegò che la vita è una lotta, dalla culla alla tomba. Come non era mai accaduto prima questi gerarchi sono davvero lontani dalla vita, e dai suoi bisogni elementari. Cinici, spietati, violenti. Con il dito premuto sul grilletto, non si fanno alcuno scrupolo a pisciarci in testa. Il loro intento è solo quello di sopprimere i sogni di migliaia di uomini e donne.
Gente che non sa ascoltare la capriola di una canzone, che risuona
dall’altra parte della strada. Il suo volto divenne duro e freddo. Woody,
cercò di spiegargli che cosa stava accadendo con parole semplici e
dirette Era questa la sua grande virtù. Si riempì nuovamente il
bicchiere. La vita all’improvviso può diventare un incubo, una vendetta
infinita. “Questo è il modo in cui finisce questo mondo del cazzo non con un BOOM, ma con un gemito”. Lo sentii dire a Dennis Hopper in “Apocalypse Now”. Siamo come cacciatori di stelle mentre cerchiamo in tutti i modi di scovare nuove canzoni, per cibare lo spirito e la carne. Abbiamo dentro un demone che ci possiede. Lo stesso che aveva Harry Smith un antropologo, bizzarro e barbuto. Un collezionista di 78 giri bramoso di scovare pezzi rari della musica americana… ò con la sua collezione di dischi, che la Folkways, un’etichetta dedita alla folk music, pubblica “Anthology Of American Music”. Una specie di bibbia per tutti quegli uomini che se ne vanno in giro fumando in silenzio, e dormendo per strada. Un cofanetto diviso in tre volumi che parla delle gesta di persone sperdute, semplici, avvolte dentro una nuvola di polvere. Sempre ubriache di pessimo whiskey. Musica inquietante, piena zeppa di fruscii, di fantasmi che si affacciano a ogni nota scorticata da un banjo, o da una chitarra scordata. Sangue, sofferenza, e follia. Musica populista vestita di stracci, che però ha l’affanno dell’uomo comune, del disoccupato, del migrante, di chi non sa più dove andare. Raccoglie dentro di sé immagini e speranze, rimpianti… ma anche entusiasmo. I
politici alla pari di quei finti progressisti che blaterano dagli
schermi televisivi, fanno solo finta di conoscere questo lato della vita. Sono dei buffoni, avidi e smaniosi.
Quanto di più lontano esista da questa musica. Il loro abbraccio è
mortale per qualunque cosa che trotterella nella polvere, e si
raggomitola per terra. “Forgive me, I’m still a sad creature of little faith. We are such creatures of little faith”. (Ray Davies). Finì di bere e si versò dell’altro whiskey. Poi si mise a guardare le copertine dei suoi vecchi vinili. Ogni disco raccontava una parte della sua vita. Era stato sposato con Emma, ma la cosa non aveva funzionato. Dopo un primo periodo in cui sembrava che le cose tra loro filassero al meglio, erano arrivati all’improvviso i primi litigi. Man mano che le cose deterioravano, si arrivò a vere esplosioni di violenza fisica da parte di entrambi. Questa cosa lui la odiava profondamente. Alla fine non si parlarono più… e manco si guardavano. Lei andò via una mattina di ottobre, serena e pacifica. Fuori ad aspettarla c’era il suo collega d’ufficio, con cui aveva intrecciato una nuova relazione. Quella sera lui si cucinò del pesce bollito, con delle patate al prezzemolo per contorno. Poi accese lo stereo e mise un vecchio vinile dei Mott The Hoople: “Now
it’s a mighty long way down the dusty trail. And the sun burns hot on
the cold steel rails. ‘N I look like a bum’n I crawl like a snail. All
the way from Memphis”. All’una e trenta della notte si scolò una bottiglia di vino rosso, e ascoltò innumerevoli volte Walk On The Wild Side.
Bisogna rientrare nella propria vita in qualche modo. Perché se era
rimasto qualcosa era meglio andarlo a prendere il più presto possibile,
prima che finisse per essere divorato dalla sua stessa inquietudine. L’influenza del blues del Delta sul rock’n’roll, è davvero indelebile e profonda. I musicisti rock hanno preso qualsiasi cosa da quelle canzoni, e da quel modo di suonare. Charley Patton aveva uno smisurato amore per la musica. Anche se suo padre lo puniva ferocemente, lui se ne andava in giro continuando ostinatamente a suonare il suo blues, agghiacciante e viscerale. Sembra semplice ma il blues è musica complessa. Puoi anche imparare lo stile slide in maniera impeccabile… ma per fare sentire vero quel suono pieno di sfumature, di coraggio e incertezza, devi possedere anche tu quell’ambiguità
di cui questa musica è piena zeppa. Accidenti a questo sole del cazzo
che acceca la vista e rende ubriachi senza aver bevuto un solo goccio. E’ davvero difficile essere liberi in questo mondo. Si può morire spiritualmente molte volte, ma la carne rimane viva bramosa di libidine, come il rock’n’roll. Continuavano a piacergli le puttane,
le altre donne le trovava noiose e incongruenti. Solo una piccola
illusione momentanea. Rimase seduto al bar a bere e fumare.
Tamburellando con le dita sul tavolo cercò una nuova melodia, per quella
canzone che stava scrivendo. Una canzone per bastardi senza cuore che
attraversano la strada per rifugiarsi tra le ombre. Come lui… cacciatori di stelle.
C’è stato un momento
tra il 1973 e il 1978, che il mercato discografico sembrava non facesse altro
che cercare dei nuovi Dylan. Ci sono finiti in tanti in quella "maledizione", perché
essere paragonati a Dylan è stata un aspettativa che alla fine ha portato quasi
sempre al fallimento commerciale. Chiunque a quel tempo stringesse tra le
braccia una chitarra acustica e aveva un pugno di canzoni scritte di proprio pugno,
finiva dentro quella "condanna". Ne sanno qualcosa Elliott Murphy, Phil Ocks, John Prine, Dirk Hamilton, Steve Forbet,
James Talley e tanti altri. Adesso Dylan è solo un vecchietto, per qualcuno anche maleducato e
arrogante, che non fa più tendenza. Pensate a quante inutili polemiche si sono
levate contro la sua nomina al Nobel per la letteratura. Ma in un modo o nell'altro, il mondo non
finisce in Norvegia. Quello che invece è chiaro, che non ci sarà mai un nuovo Dylan.
Anche perché il mercato discografico non lo cerca più uno come lui. Il rock’n’roll ha dispetto di noi vecchi
romantici ancora sulle barricate, è qualcosa che sta al chiuso di qualche sottoscala pieno di polvere e ragnatele. Figuratevi oggi a chi diavolo importi di diventare un folk-singer, squattrinato e solitario. I
ragazzi inseguono altri suoni, hanno altri idoli. Gira in un altro modo il mondo della musica. Si va solo nei talent show per emergere. La strada "maestra di vita" non conta più un cazzo,
la gavetta non si fa più sui palchi scalcagnati di periferia. Tutti vogliono diventare delle
star e viaggiare in prima classe. La tivù offre questo sogno effimero, questo salto nel
vuoto. L’apparire più della sostanza. Ma come al solito ci sono le eccezioni
che rimettono tutto in discussione. John Calvin Abney con il suo “Far Cries and Close
Calls” mi ha spiazzato sin dalla prima canzone quando con una voce nasale
e sporca di polvere, si è messo a cantare il suo amore per il rock’n’roll. Mi ha
preso con se e mi ha portato tra quelle strade dove sono stato un mucchio di
altre volte, in quei luoghi consumati dal tempo e dalla nostalgia, e lo ha
fatto con un piglio fresco e genuino, sincero e onesto. E allora la sua
solitudine è diventata anche la mia. Sono un mazzo di canzoni che vale
la pena ascoltare e consumare, fino alla nausea. Certo John Calvin Abneynon è il nuovo Dylan, ma
ci somiglia accidenti a lui, se ci somiglia. Perché volenti o nolenti si resta soli
nella nebbia, e l’unica luce che abbaglia sono queste piccole stelle nel cielo.
Mi
sono svegliato con indosso una tristezza infinita. Non sono neanche uscito da
casa, non avevo voglia di vedere nessuno. Mi sono seduto sul terrazzo. Il cane
mi ha visto lì solo soletto, e si è raggomitolato ai miei piedi. Anche lui mi è
sembrato triste. Il mondo va a fuoco, ma c’è chi si ostina a dire che tutto va bene.
Sono giorni agitati da ferocia e insofferenza. Sotto la pelle Americana, la
ferita brucia ancora. Malcom X, Martin Luther King, Robert Johnson e Muddy
Waters, sembrano passati invano. Anche Mandela. Nessuna innocenza da parte di
nessuno. Meglio non dirsi niente, starsene zitti e ascoltare musica. La
saggezza non appartiene a questo mondo. L’altro ieri su You Tube ho visto il
concerto che Springsteen a tenuto a Milano, il 3 luglio. L’inizio è stato un
trauma, poi mi sono sciolto un pochino. Mi ha fatto tenerezza Bruce. Cosa ci
faceva lì, mi sono chiesto. Ma un uomo è nel giusto quando fa le cose che gli
piacciano. E lui ama il rock’n’roll, anche se ormai ha le sue certezze, e una
sedia con lo schienale per dondolarsi. Io non ho certezze. Ma questa è solo colpa
mia. Sono andato avanti ad ascoltarlo, non mi è piaciuto tutto quanto. Certe
canzoni le ho sempre trovate goffe e anche fastidiose, ma lui ha un animo
generoso, ed io mi fido dei buoni. Anzi mi fido solo di loro. Le strade ormai
sono vuote, e si dimentica tutto in fretta. Mi sono chiesto se mi sarei mai potuto
fidare della mia vecchiaia. Me lo sono chiesto, nel cuore maledetto della notte.
Mi sono agitato come un bambino. Poi mi è venuto da piangere, ripensando a
quell’incantesimo. Quello che mi ha legato a certa musica. E così quel disagio che mi prende sempre quando sono
inquieto, quando capisco che devo andare, quando ascolto certe canzoni, come
quelle dei Felice Brothers ha fatto capolino. Eccola qui l’America polverosa, fatta di strade e d’incontri magici. La terra promessa, la
luna e il cielo, la radio che suona, il vestito di Mary che sventola, mentre
l’orizzonte è lontano. Mi succede ogni volta con le loro canzoni, che mi volto
indietro e vedo la mia solitudine conservata in quelle valigie scalcagnate,
lasciate ai bordi di qualche strada secondaria. America dove sei finita? Dove
sono i tuoi vagabondi, quelli con quelle facce da babbei, e gli occhi timidi. E
dov’è finito quell’istinto a prendere qualsiasi deviazione? Qui siamo e qui ce la faremo. Da soli, come sempre. Vivi nel buio. America, America,
America.