sabato 7 gennaio 2012

Lupo Solitario.

Mi ero imbottito di quei blues scontrosi e poco confortanti, che amavo ascoltare quando volevo fare chiarezza con me stesso. E siccome queste cose mi accadono sempre di notte, per dimostrare quanto ero forte, mi ero lavato le ferite e stavo sprofondato nell’ombra, in attesa dei primi colori dell’alba, che chissà perché tardava a venire. Avrei dovuto sistemare quella porta del bagno che cigolava fastidiosamente ad ogni colpo di vento, pensai, intanto che accendevo una sigaretta e tiravo qualche boccata. Era una notte anonima e senza sfondo, una delle tante notti che avrei preso volentieri a calci se le mie ossessioni non avessero deciso di assalirmi e vendicarsi per i soprusi e le angherie a cui le sottoponevo.

Da un po’ di tempo a questa parte si era aperto un conflitto d’interessi tra me ed i miei chiodi fissi; avevamo avviato il conto alla rovescia, per vedere chi si fosse arreso prima. Mentre brancolavo, decisi che questa volta non sarei fuggito, ero pronto a sfidarle in un duello all’ultimo sangue, come quelli che avvenivano tra pistoleri nel polveroso west. Fu così che mi ricordai di Lone Wolf, il Re della Solitudine, il mio eroe dei fumetti di quando ero bambino e leggevo l’Intrepido nella veranda di casa di mio cugino Alfio. In un attimo mi trasformai in lui. Con il poncho e il cappello calato sulla fronte, tirai un risolino stanco e vuoto, un risolino da lupo ed aspettai paziente che facessero la prima mossa. Stavolta le avrei sbirciate con un ghigno di disprezzo e fulminate all’istante, non appena avessero allungato la testa. Con il mio Winchester in acciaio brunito.

La notte si era rintanata nel suo sgabuzzino. Stropicciato ma vivo, ne ero uscito anche questa volta. Rimisi a posto quel cd alla moda, che l’industria discografica furba e rapace aveva pubblicato per il centesimo anniversario della nascita di Robert Johnson. Quel cd in cui avevano masterizzato i suoi blues in modo impeccabile e serviti in una confezione di lusso. Ma il blues, se vuole essere tale, deve stare scomodo altrimenti somiglia a qualcos’altro o è un’altra cosa. Quando misi quel compact nel lettore, a momenti mi pigliava un colpo. Non me le rammentavo più, quelle canzoni; la chitarra era nitida e pulita, la voce di Robert mi sembrò irriconoscibile. Abituato, com’ero, ad ascoltarlo sul vinile, tra fruscii, salti di puntina, polvere e alone di mistero, quel cd non si addiceva per nulla ad un tipo come lui e neanche a me. O almeno così volevo pensare. Si finisce sempre per credere a ciò che fa più comodo. Raccattai dallo scaffale il mio vecchio 33 giri, sgangherato e pieno di graffi, e i demoni della sopravvivenza ripresero a pungermi. A certe cose non bisognerebbe mai forzare la mano. Certe cose vanno custodite così come ci sono state donate.

E' un inquieto ed affamato sentimento. Che non dice niente di buono, quando tutto quello che dico lo puoi dire altrettanto bene. Tu hai ragione da parte tua, ed io ne ho dalla mia. Siamo rimasti indietro per un mattino di troppo ed un migliaio di miglia (One Too Many Mornings -Bob Dylan-)

Mi ero messo ad aspettarla, con la bocca impastata di nicotina, ed un freddo nelle ossa che mi faceva battere i denti. Ci avrebbe pensato Bob, come sempre, con le sue parole, a tenermi compagnia. Era stata una gran fortuna, averlo incontrato per la prima volta, quel pomeriggio di non so quale anno. Quel pomeriggio che sembrava privo di vitalità, destinato a sparire come altri mille pomeriggi da lupo solitario, si rianimò tutto ad un tratto. Quando Blonde on Blonde, planò sul piatto del giradischi modello anni settanta, la pioggia era venuta giù e la strada luccicava di tutti quei sogni e speranze con cui mi ero riempito le tasche e la testa. Che poi molti di quei sogni non si siano avverati è un’altra verità. Rimasi ammutolito, impietrito di fronte a quel fiume di parole e musica che mi inondava il cuore. Senza alcun preavviso, un pazzo svitato era piombato nella mia cameretta. Quel tizio rullava musica con una facilità disarmante, cantando come fosse in trance mistica. Chi era mai quell’uomo che aveva speso tutto quel che aveva di sè, in intensità, emozioni e poesia? Di che razza umana era? E che musica era mai, quella? Blues, folk, rock, musica da circo, musica d’amore, d’autore, musica classica, sinfonica, cacofonica, psichedelica. Mai nessuna etichetta avrebbe potuto imbrigliare tanta bellezza, perché quel tizio mi offriva una via d’uscita al grigiore e mi faceva correre verso il sole. Come non mi capita più da ormai molto tempo. Da quando la notte si è presa tutto di me.

[Astral Weeks - Van Morrison Album Cover Art]Lasciai vagare un sorriso, mentre il vento affrancava il cielo dalle nuvole che l’avevano preso in custodia per tutto il giorno. Una nuova notte era arrivata. Nella penombra, mi feci trasportare dal tempo che passa e ci porta con sè per sempre. Avevo dimenticato molte cose ma altre, ne ero certo, non avevano dimenticato me. Misi su Astral Weeks di Van Morrison e riempii il bicchiere di Jack Daniels n°7. Volevo conservare qualcosa di umano prima di lasciarmi andare al cinismo più esagerato. Accesi la lampada sulla scrivania vicino la finestra, l’orologio segnava le tre ,il cielo era pulito e sterminato e per strada c’era una luce fredda come il mio cuore. Avrei voluto sentirla parlare, sarei rimasto ad ascoltarla, mi avrebbe fatto bene. Quel disco in genere mi scuoteva, ed era uno dei pochi che teneva testa a Blonde on Blonde, mi rifletteva sempre le cose che avevo voluto dimenticare. Mi annusava ogni anfratto dell’anima, perché suonava intimo e greve e lo faceva in modo indagatorio e senza nessuna enfasi. Mi preparai un caffè ristretto che bevvi seduto davanti alla finestra. Non era che poi fossi cambiato, ero solo invecchiato. Troppi incroci, troppa strada fatta contromano per restare liscio e lucido. “Oh bambino mai a chiedersi perché”, insisteva Van Morrison, mentre gli occhi del cuore si coprivano di cataratte. Sapevo che ci usavamo ,che ci consumavamo lentamente, intanto che le strade secondarie si riempivano di altri sogni che non si sarebbero mai avverati. Bevvi a garganella quel che restava nella bottiglia.

Passavo il mio tempo a girare in tondo, forse avevo bisogno di sole, di calore, di una nuova pelle. Lei era arrivata. La vidi dalla finestra posteggiare l’auto. Era vestita alla moda, stretta nel suo impermeabile nero, i capelli raccolti sotto il basco di lana con un ciuffo ribelle che le fuoriusciva da un lato. Aveva fascino. Quel fascino, neppure troppo discreto, di chi sa che ha delle carte da giocarsi. Scese in fretta dall’auto e per non bagnarsi dalla pioggia velata che cadeva sulla città, camminò sicura a grandi passi verso il portone di casa. Mi affacciai al balcone e la pioggia mi calò lungo la faccia. Una faccia divorata dalla tristezza, come quella di Leonard Cohen.

Ora ti dico addio, non so quando tornerò. Mi muoverò domani verso quella torre giù lungo la strada. Ma lo saprai da me donna, dopo molto che sarò andato. Ti parlerò dolcemente da una finestra. Nella torre della poesia” (Tower of Song).

Entrò in casa sfoggiando un sorriso a buon mercato. Andò in cucina e tornò con una tazza di caffè, si sedette sulla poltrona davanti alla mia e, fissandomi con uno sguardo che mi trapassò da parte a parte, disse: “da come sei conciato non esci da giorni. Che ti succede? Hai davvero una brutta faccia!”. Si comportava con arroganza, come avevo fatto  anch’io con la vita. Chissà chi era in cella fra noi due, pensai guardandola. Ma non aveva nessuna importanza saperlo e restai in silenzio. La mia era una lotta con me stesso ed era la più difficile. Lottavo contro le mie speranze, i miei sogni, la mia stessa incapacità, contro il mio passato che mi riacciuffava, sempre e comunque. Non mi andava di spiegarglielo, non avrebbe capito. Me lo disse lei stessa, un giorno, nuda sul letto, che ero un tipo difficile, di quelli che sfuggono, di quelli che.. non sapeva neanche lei come definire. “Relegati al sesso abbiamo premuto contro i confini del mare vedendo che non c’erano rimasti oceani liberi per spazzini come me. Sono arrivato in coperta benedicendo la flotta rimasta ed allora acconsentii al naufragio. A mille baci di profondità (A Thousand Kissess Deep – L. Cohen)

Chiusa nella sua torre d’avorio, sopravviveva ai suoi party, ai suoi falsi amici, gente che era morta e non lo sapeva. La guardai mentre accavallava le gambe; era attraente, ma era bene chiamare le cose con il proprio nome. Era solo una questione di sesso quella che ci congiungeva. Non che la cosa mi dispiacesse, anzi, ma era un gioco al massacro. Dovevo fare attenzione, dosare ombre e luci per essere credibile; e lei doveva essere solo più curiosa e, probabilmente, anche più profonda. Glielo dissi parlando lentamente, a voce bassa, cercando in tutti i modi di non ferirla. Mi versai un dito di whisky per non cedere allo sconforto.

Era andata via così come era arrivata. Da quella stessa porta era uscita per sempre dalla mia vita, con un passo lento e senza mai guardarmi negli occhi. Non me lo meritavo. Ma era stata la cosa migliore per tutti e due. Non sapevo fingere, non potevo sempre essere in guerra con tutto e tutti. Mi sentivo stanco, sfinito, e avrei voluto dormire. Misi un cd di Willy il lupo mannaro e mi abbracciai alla pioggia che continuava a cadere. E intanto che lui cantava con la sua voce rotta dall’emozione quelle note per un amante assente, mi addormentai. ”Dille che aspetterò/Al solito posto/Con gli stanchi ed estenuati/Non c’’è scampo/Al bisogno di una donna/Devi sapere/Come chi è forte diventa debole/E il ricco diventa povero/Stai correndo con me/Non toccare la terra/Siamo quelli dai cuori senza riposo/Non quelli in catene. (Slave To Love – Bryan Ferry)

A Paolo Vites, con stima.

Bartolo Federico - Gennaio 2012


domenica 1 gennaio 2012

Scarpe Volanti.





Seduto sui gradini della sua casa di legno osservò il deserto. Era ridotto a brandelli e, nonostante capisse che quella frenesia da tossicomane alcolizzato che lo dominava lo avrebbe portato diritto alla tomba, si accese l’ennesima sigaretta e bevve un lungo sorso di rum. Il cuore accelerò i battiti e lo picchiò nel petto nello stesso istante in cui un odore di merda sopraggiunse. Che strano, pensò. La notte lo attraeva e, nel contempo, lo spaventava; era scura e gelida ma per altri versi anche confortante. Dondolò su se stesso e raccolse da terra la Gibson color tabacco. Con la mano sinistra prese un accordo di Mi maggiore e, sommessamente, nella brezza leggera, tossì un blues rauco. Un coyote, celato nell’ombra, stette ad ascoltarlo.

Il whiskey dev’essere il mio letto di morte. Dimmi dove mettere a giacere la testa. Non con me è tutto quel che lei disse. Sul far del mattino. Se avessi un biglietto da un dollaro, credo, certamente andrei in città a bere sino a riempirmi. Sul far del mattino. (Dollar Bill Blues)

Quel giorno, prima che il cielo si facesse scuro e un vento freddo prendesse a soffiare, se la filò con il suo pick-up. Ci aveva caricato il necessario ed era sparito da quella città in cui non c’era nulla da fare, specie per un uomo schivo come lui. Guidò dall’alba al tramonto, osservando la pioggia cadere e contemplando sé stesso. Bere era diventato il suo chiodo fisso; nulla di cui vantarsi, certo, ma non era andata sempre cosi. Quando era bambino aveva un sacco di idee su come sarebbe stato il suo futuro e poi, crescendo, aveva ridimensionato tutto e si era limitato a parare i colpi, cercando di soffrire il meno possibile. Nessuno di noi può prevedere il futuro e che cosa ci succederà. Magari uno crede di riuscirci, ma non è vero. Ed allora facciamo cose insensate, balziamo di qua e di là, come cavallette impazzite, restiamo in attesa che le cose tornino a essere come non saranno più.

La stamberga di legno gli si era parata davanti all’improvviso, un giorno che si era spinto più in là del solito nei suoi pellegrinaggi attraverso il deserto. Quella baracca, che un tempo aveva dato riparo a viaggiatori solitari, hoboes e pionieri, cadeva letteralmente a pezzi, ma lui s’innamorò all’istante di quel luogo. Con una pazienza certosina la rimise in sesto e, alla fine, ci andò a vivere. Rientrò in casa e mise a posto la chitarra, si accovacciò sulla branda guardando le travi del soffitto. Un raggio di luce penetrava dalla finestra colpendolo direttamente sugli occhi. L’aria era fresca, bevve un’altra lunga sorsata. Si rimise in piedi, arrotolò una sigaretta e stette immobile per un lungo istante nella penombra. Afferrò nuovamente la chitarra è biascicò una canzone, una di quelle canzoni in cui si metteva a nudo. Una di quelle canzoni che feriscono fin dentro l’anima, se percepisci le voci e quello strano brusio delle cose che ci circondano.

Non devo raccontarti delle bugie Non credo che sia saggio Hai dei bei occhi Vorresti starmi alla larga non valgo molto come amante è vero ora sono qui e poi sarò via e triste per sempre Ma sono certo di volerti. Cieli pieni di argento ed oro. Prova a nascondere il sole. Non si può fare a lungo. (No Place To Fall)

Quando entrò in quel bar, si sedette su uno sgabello di legno accanto a dei messicani che bevevano e chiacchieravano tra di loro. Il banco era di mogano scuro. Di fronte, nel mobile dietro il banco, c’era uno specchio dove poteva osservare gli altri uomini dietro di lui. Notò che erano per lo più solitari, sbandati, assorti dentro i loro guai. Non fece in tempo ad ordinare, che la puttana che lo aveva preso di mira appena entrato si avvicinò con garbo e lo guardò dritto negli occhi. Loretta era bella da lasciarlo senza fiato, sembrava piccola e sperduta ed era diversa da tutte le ragazze che aveva incontrato. Lo sentì a pelle, gli fece un effetto dirompente, tanto da pensare che con quello sguardo lei potesse osservarlo fin dentro le viscere. Ma fu un attimo. Subito dopo abbassò gli occhi e quell’euforia svanì nel nulla, lasciando spazio solo alla paura, a quel brivido freddo che lo smarriva, all’angoscia senza limiti che lo permeava. Si sentì triste e colpevole di chissà quale misfatto senza che avesse fatto nulla di male.

Oh, Loretta è solo una ragazza da saloon indossa il sette sulla manica Balla come brilla un diamante Racconta bugie che adoro credere Ha 22 anni circa e occhi allegri color nocciola Butta via il mio denaro come cascate d’acqua Mi ama come vorrei amarla io (Loretta)

Sputò via la cicca che spense schiacciandola con la punta dello stivale. Stava alla finestra, dietro il vetro polveroso, e guardava la vecchia ferrovia in disuso. Tutto intorno regnava il silenzio, ma gli sembrò di vedere qualcosa e schiacciò la faccia nel vetro freddo. Di notte i vagabondi si nascondevano da quelle parti. Rannicchiati sulla terra fredda, con il corpo che gli doleva, sentivano i crampi alle gambe e alla schiena mentre aspettavano che il treno merci passasse per saltarci su. Gli erano sempre piaciuti i vagabondi perché anche lui, come loro, amava guardare le nuvole che se ne andavano senza meta nel cielo. Uomini dimenticati, quelli, che probabilmente avevano la colpa di avere il cuore al posto giusto. Uomini che celavano storie incredibili e conoscevano quelle ballate antiche che parlavano di banditi buoni come il pane, di ferrovie e di quanto era duro il mondo con la povera gente. Amava quelle canzoni, lo facevano sentire orgoglioso di ciò che era diventato. Il buon Dio li abbia in gloria i vagabondi, pensò.

Non si accorse neppure che si era fatto giorno. Nella piccola cucina preparò del caffè e su del pane raffermo spalmò del burro di arachidi. Mangiò, continuando a fumare tra un boccone e l’altro, ascoltando nel silenzio il proprio respiro. Era cresciuto in una famiglia facoltosa che si era arricchita con il petrolio. Negli anni della sua fanciullezza aveva cambiato più volte residenza per via degli affari di suo padre. Questi continui spostamenti non gli permisero di avere radici da nessuna parte. Durante il periodo universitario si era ben distinto, poi il buio e la paura lo vennero a prendere. In quell’alba fredda, strisciando come un crotalo, qualche ricordo si fece timidamente largo e si meravigliò non poco perché la sua malattia gli impediva di farlo. Quando i ricordi si spengono é come avere detto addio a tutto ciò che conosci, a ogni cosa che hai amato; il vento furioso ti sommerge, lasciandoti ansante e tremante, riempiendoti gli occhi di polvere e di ruggine. Cosi, a poco a poco, si muore.

Giorni pieni di pioggia Il cielo sta venendo giù ancora Mi sento proprio stanco di queste solite vecchie tristi canzoni, Bambina non sarà lungo il tempo prima che io allacci le mie scarpe volanti (Flyng Shoes)

Aveva il morale a terra ma, come per molti che soffrono di disturbi psichici, voleva sembrare sereno, dare l’impressione di essere perfettamente normale, quando sapeva bene che non era così. Il suo spleen lo portava alla deriva, doveva decidere solo se affondare lentamente o tutto in un botto. Bisognava assumere le redini del comando, tenendo una vita più regolata. La lampada ad olio era rimasta accesa e la baracca sembrava accogliente o cosi pareva ai suoi occhi. Una pioggia sottile iniziò a cadere. Dalla finestra imperlata di pioggia osservò la strada. Il vento aveva preso a soffiare. Mandò giù d’un fiato un bicchiere di whisky, si alzò e infilò una mano nei pantaloni, tirò fuori quel foglio raggrinzito su cui aveva appuntato quei nuovi versi e con la chitarra cercò una melodia.

Sui venti della tristezza la luce è dolente e le catene sono strette. La libertà sta cantando. Aggràppati al buio fino a quando non avrai cambiato canzone. La tristezza mi laverà e subito mi asciugherà. Il mondo mi nasconderà, ma lei saprà ritrovarmi e quando mi troverà mi porterà a casa. (When she don’t need me)

Aveva già inciso dei dischi ma non era per nulla soddisfatto dei risultati ottenuti. In quella capanna in mezzo al deserto stava cercando di capire dove sarebbe potuto arrivare. Il materiale che aveva scritto gli sembrava buono; qualche sua vecchia canzone, a furia di provarla e riprovarla, aveva preso più consistenza ed un rantolo di fiducia lo spingeva in avanti. La musica era la sua ancora di salvezza. Aveva il viso magro e nei suoi occhi si leggeva tutta la sua sofferenza, il suo male di vivere, ma avrebbe in ogni modo inciso quelle canzoni. Si tolse il cappello e fumando guardò lontano, verso il deserto. Scese lentamente i gradini che lo portavano fuori dalla baracca e prese a camminare tra i sassi. Un coyote lo osservò da dietro una siepe. Camminando prese a contare i passi e si sentì sospeso sopra il deserto; un breve attimo con le sue scarpe volanti. Si voltò è tornò indietro. Rientrò in casa e si sdraiò sulla branda cercando finalmente di dormire. In lontananza gli parve di sentire il fischio sottile di un treno.

Bartolo Federico - Gennaio 2012





lunedì 26 dicembre 2011

Marcus Foster-Nameless Path-

                                                                              

domenica 25 dicembre 2011

I Believe In Rock&Roll - The Folk Survival Club-