lunedì 31 marzo 2014

Il Dolore Delle Parole

Guidavo sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote. Quel paesaggio, se da un lato alimentava una  sensazione  d’intensa  malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro appoggiato sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi la radio e inserii Undead, anno 1968, un set  dal vivo dei Ten Years After, granitico gruppo inglese di hard- blues, in auge dalla metà degli anni sessanta. Alvin Lee, chitarrista e anche leader della band, per tecnica, velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re della sei corde Jim Hendrix. Ma la storia del rock è ingrata e, come spesso accade, i Ten Years After sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La musica riempì l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare via la cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano. Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far fischiare le gomme sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di scotch che tenevo nel cruscotto e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre avuto l’impressione che l’alcool potesse ripulirmi dentro e, nello stesso tempo, spegnere quel tormento che mi portavo appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere, almeno in un certo modo, anche se l’alcool restava una tentazione molto forte. Il motore adesso tirava che era una bellezza, scrollai il capo e  mi abbandonai  alla musica.
 La libertà è sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e Peter Fonda nel film Easy Rider. Nell’ascoltare un disco di musica rock, fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può trovare in mille cose. Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le persone, marciscono e ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei ragazzi.

 C’è stato un tempo in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi, il problema, semmai, era crescere, restare insieme, capirsi, ma anche comprendere se stessi. Quello sì che era difficile. A me sgomentava il dover sempre e comunque vestire gli stessi panni per tutta la vita. Perché mi sarebbe piaciuto una mattina alzarmi ed essere Keith Richard, in un'altra Robert Johnson, e via di questo passo. E invece, sempre la stessa faccia sempre la stessa esistenza, a volte grigia a volte piena. Un esistenza che se ne andava per i fatti suoi, ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia furiosa.
 Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando  al riparo dentro l’androne del portone di casa. Posteggiai l’auto di fronte all’ingresso e in un baleno saltò dentro dandomi un lieve bacio sulla guancia. Stavamo riprovando a stare insieme, cercando di raccogliere i cocci sparpagliati della nostra esistenza e, per la prima volta, entrambi attraversavamo sentieri sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire. E noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del dialogo e del dolore delle parole.
(Bourbon Blue tratto da Viaggiatori Nella Notte)

domenica 30 marzo 2014

Prenditi Il Tuo Tempo


Seduto nella vecchia cucina economica che ormai cadeva a pezzi, bevve un sorso di whisky. Quella casa pareva abbandonata per com’era ridotta. Le finestre con le sue tende scure erano arrugginite e le porte stridevano sui perni. Sul tetto le tegole rotte facevano penetrare l’acqua piovana ed era tutto eroso e consumato dal tempo che passa, come la sua anima, pensò alzandosi dalla sedia. Non aveva più voglia di sorridere, ma aveva anche il terrore di smettere per sempre di farlo. Era pallido e si sentiva piuttosto stanco. Per un attimo strinse gli occhi per vedere meglio nell’oscurità. Non si sentiva alcun rumore in quella casa ed era già come darsi una risposta.
 Negli ultimi tempi lo aveva anche sfiorato il pensiero di farla finita magari buttandosi giù da un viadotto o tagliandosi le vene. Ma per chi era stato un guerriero nella vita, l’unica via per realizzare quel gesto inconsulto, era che qualcuno gli sparasse un colpo secco al cuore. Continuò a camminare verso nord, poi verso sud, poi di nuovo verso nord, senza che riuscisse a trovare un varco, una via d’uscita. Il suo cervello montava tutto, pezzo per pezzo, punto per punto, poi tornava a smantellare ogni cosa come se non accettasse nessuna spiegazione che si dava e girava, girava incredulo e smarrito, intorno alle cose. Aveva sempre fatto tutto con parsimonia ed aveva sempre avuto paura nella vita. Una paura collegata a qualcosa come al rischio di non potere pagare la casa o le bollette e si rendeva conto che era stato un infelice. Ma adesso doveva dare alle sue paure un valido motivo, trovando ad ogni costo una buona ragione per andare avanti.
Non vedo niente, qui intorno. Tu mi afferri quando cado, mi afferri quando cado. Mi afferrerai? Perché sto cadendo qui intorno. Sono sotto il tiro della pistola, qui intorno. Sono innocente, sono sotto il tiro della pistola, qui intorno. Non vedo niente,niente, qui intorno (Round Here - Counting Crows). 
 Da quando aveva perso il lavoro, Maria non faceva altro che lamentarsi di tutto, di quella casa, della sua vita, di come non poteva più comprarsi un paio di scarpe e del suo immobilismo. “Voglio lavorare!”, gli gridava come se fosse lui ad impedirglielo. “Voglio lavorare!”, urlava, e velenosamente gli ripeteva: “visto che tu non porti più i soldi necessari”. Si sentiva sempre nel giusto, lei, anche con l’unico figlio che avevano avuto, si era presa la briga di decidere da sola qualunque cosa lo riguardasse. Tanto fu predominante nelle sue scelte, da escluderlo e, alla fine, anche come padre era stato un vero fallimento. Lui l’aveva lasciata fare per non ferirla, per non toccare i suoi sentimenti di madre protettiva. Ma adesso si rendeva conto che aveva sbagliato tutto. Adesso che era troppo tardi capiva che in tutti quegli anni i loro mondi forse non si erano mai incontrati davvero ed erano rimasti distanti mille miglia l’uno dall’altro.

Volevo così tanto qualcun’altro oltre me che mi fissasse ma tu eri andata, andata, andata. io volevo vederti camminare a ritroso ed avere la sensazione che tornassi a casa. e volevo vederti andare via da me senza la sensazione che mi stessi lasciando solo (Time And Time Again - Counting Crows).

 Si svegliò l’indomani nel tardo pomeriggio. Nella notte i suoi fantasmi erano andati a trovarlo con passi da lupo. Quando i ricordi ti inseguono ed hanno più gambe e fiato di te, è questo il prezzo da pagare per tutto il dolore che raccogliamo e ci portiamo dentro. Così, il resto della nostra vita diventa solo un incubo. Adesso però, che non c’era più nessuno, non aveva alcuna fretta. Ma poi a che serve avere fretta? Forse quando si è giovani, è spiegata con quella voglia di andare avanti. Quella voglia di arrivare al traguardo a tutti i costi, anche a testa bassa, spingendo, urlando, bestemmiando.  Ma ora che le cose sono diventate vuote e non ricordi quasi neppure il tuo nome, ora che devi fare l’acrobata sul trapezio e che cerchi l’ispirazione per vivere, per quale ragione devi accelerare?(Qui Intorno Non Mi Voglio Spegnere tratto da: Viaggiatori Nelle Notte)
 

sabato 29 marzo 2014

Mamma Me Lo Aveva Detto(Che Dio lo abbia in gloria, Elvis)

Ehi grandissima testa di minchia, lo vuoi alzare quel cazzo di volume, di quella fottuta radio. Non lo senti che il Re del rock’n’roll sta cantando.
Spider Murphy suonava il sassofono tenore, Little Joe soffiava nel trombone. Il batterista dell’Illinois faceva crash, boom, bang, l’intera sezione ritmica era  “The Purple Gang”.Forza! Balliamo il rock, tutti insieme, balliamo il rock. L’intera prigione stava ballando il Jailhouse rock.”
 Quando ero ragazzino mio nonno mi faceva tirare di box perché aveva paura che potessi diventare ricchione. Mi faceva schiattare di fatica in quella palestra. Io però glielo dicevo: “nonno a me le femmine mi piaccionooo!” Ma lui niente, non mi ascoltava, dovevo stare li a  tirare cazzotti in quel cazzo di sacco duro come una pietra. Alla fine le nocche delle mani mi facevano talmente male che non potevo neanche tenere le posate per mangiare. Poi però arrivò  il giorno in cui lo ringraziai per tutto quel sudore che mi aveva fatto gettare. 
Elvis aveva assorbito troppi generi musicali e non si riusciva a trovare una direzione precisa. Modulava il canto ogni giorno in maniera diversa. Alle volte cantava come fosse un bluesman di strada, altre come un cantante country, altre ancora come un crooner. L’idea di base era quella di fondere tutti quegli stili che Elvis aveva incamerato e farli maturare in qualcosa di nuovo. Ma con tutto l’impegno profuso non si riusciva a cavare nulla di buono. Alla fine Sam decise di gettare la spugna. Fu in quel preciso momento  che il destino bussò alla porta. Elvis lo convinse a provare un pezzo che gli piaceva particolarmente, un brano che il bluesman Arthur Big Boy Cudrup aveva inciso dieci anni prima. La canzone si chiamava That’s All Right Mama.Beh, mamma me l’aveva detto, E me l’aveva detto anche papà,“Figliolo, quella ragazza con cui te la stai spassando Non va bene per te.”  
 La pioggia sferzante mi colpi in pieno. Mi infilai sull’auto e scivolai lungo la strada deserta. Mi sentivo ostile con il mondo ed ero arrabbiato con me stesso per non aver visto le cose come andavano per non essermi fermato prima a ragionare. Prima che restassi solo come un cane bastardo. I miei figli con ragione non ne volevano sapere più di me e non li potevo biasimare, avrei fatto lo stesso anch’io se mio padre si fosse comportato come avevo fatto io con loro. Ma ero anche troppo orgoglioso per chiedere scusa. Avevo lasciato molto tempo fa la mia casa, ed abitavo in un vecchio motel. Non m’importava più di niente, neanche di morire. Ma a Maria avevo scritto un sacco di lettere d’amore che non gli avevo mai spedito. Erano tutte raccolte dentro un piccolo bauletto di legno che era appartenuto a mia madre. Chissà  forse un giorno le leggerà pensai
Perché non si può vivere come la si pensa, ma bisogna fare esattamente il contrario? Perché non si può vivere tutti insieme ed essere ciascuno quel che è? Guardai fuori dalla finestra senza vedere niente, restando in piedi fino al mattino. Tutto era andato in malora. Ma quando c’era Maria… non c’era niente di più bello. Bevvi una lunga sorsata di whisky. Tirai la tenda della finestra e mi sedetti sulla poltrona ad aspettare che finalmente mi venisse a prendere.
Le ultime esibizioni di Elvis furono una serie di concerti tenutesi a Las Vegas  nel giugno del 1977. Esiste  un filmato in cui il Re canta seduto al pianoforte Unchained Melody, è sudato, stanco ma sorride  alla vita, sorride a chiunque lo tocchi, come solo lui sapeva fare. Canta con passione anche se il suo fisico è tormentato dai farmaci, ma il suo grande e generoso cuore  dà tutto quello che ha per rendere felice il suo pubblico, anche quando intona per l’ultima volta Are you lonesome tognight. ( Uomini In Bilico tratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

venerdì 28 marzo 2014

Predicando Blues(saltò su il diavolo)

Guardai la mia faccia livida riflettersi nello specchio del bar. Consumai velocemente un caffè ristretto e stranamente senza zucchero. Scambiai due chiacchiere svogliate con il barista, pagai il conto ed uscii. Don Peppino, un vecchio maestro di pianoforte, lo diceva sempre che noi uomini siamo strani. Ci teniamo stretti le nostre disgrazie, ci occupiamo di loro. Le culliamo, come fossero bambini in fasce e non le schiodiamo più da lì, neanche a cannonate.
Quando nasci senza nulla, nella piena indigenza, volente o nolente l’ingegno si aguzza. Elmor James iniziò a suonare su uno strumento che si era costruito da solo. Aveva  aggiunto quattro corde a una scatola di latta. In quella maniera cercava di far uscire la melodia che c’era in lui. Elmor regalò il cuore alla musica. Perché fin che la vita suona, tutto ha un senso, puoi sperare di superare le pene devastanti che un esistenza fatta di privazioni e povertà ti negano. Senza, ci sarebbe solo il vuoto e il silenzio più assoluto. Siamo alla fine degli anni venti. Elmor James,  che era venuto su in fretta, non immaginava minimamente che un giorno i libri del blues lo avrebbero indicato come uno dei rinnovatori più significativi e autentici della musica del diavolo.
Alle due di notte dormivo tranquillo quando il citofono di casa suonò. Prima che mio padre si decidesse ad alzarsi dal letto e rispondere, suonò una seconda volta, e poi una terza. Solo allora, incazzato come una iena, andò a rispondere. Di certo un altra rogna quella notte lo attendeva. Come accadeva ormai spesso, una volante della polizia era venuta a prelevarlo. Poche ore prima, ma questo lo raccontò in famiglia la sera del giorno dopo, quando finalmente fece rientro a casa, era avvenuta una carneficina. Un uomo, in preda ad un raptus di gelosia, aveva ucciso l’amante della moglie, la moglie e si era suicidato. Al citofono parlottò nervosamente con l’agente. Poi si vestì in fretta. Prese la sua valigia di pelle bordò e la Rolleiflex,  già pronta allo scatto. Macchina che usava per fotografare i cadaveri senza l’uso del treppiedi. Prima di uscire venne a salutarmi. Per la prima volta notai che aveva un’aria stanca e disillusa. Le sue notti erano state come una danza lenta e inquieta. C’era stato solo spazio per quell’umanità, che in un modo o nell’altro, perdeva l'equilibrio e impazziva. Lui, allora, si sentiva come una preda ferita, che sbatteva le ali e non riusciva a fuggire da tutto quell’orrore. Me lo confidò lui stesso mentre viaggiavamo col mio furgone anni più tardi, una  volta che venne a farmi compagnia in una giornata di lavoro. Era estate ed un sole alto illuminava il mondo. Un blues elettrico, lento e penetrante, fuoriusciva dall’autoradio e ci accompagnava nel viaggio. Magicamente, si era rilassato guardando il mare che costeggiavamo e mi raccontò tante cose di lui. Fu uno di quei rari momenti che ho visto mio padre girarsi verso di me e sorridere alla vita. Nessuno in fondo resiste alla musica.
Elmor James se ne stava rannicchiato in un angolo, abbracciato alla sua chitarra, sotto la pioggia battente. Ad un tratto, un uomo dal viso buono, anch’egli completamente inzuppato di pioggia, lo invitò ad entrare in quel juke joint che stava dal’altro lato della strada. Lo sconosciuto era anch’egli un musicista, un suonatore d’armonica. Sonny Boy Williamson era il suo nome. 
Un po’ di tempo fa, mio padre mi disse: non si foraggia mai nessuno con una mano, per poi eliminarlo con l’altra. Questo è quel che hanno sempre fatto i nostri politici. Gente cattiva che si organizza e poi ci da dentro. Come in guerra, qui non viene mai nessuno ad aiutarci. Io e mio padre eravamo amici. Lui si fidava di me, ed io di lui. Adesso lui è morto. Ed io, io suono il blues della rassegnazione. Il blues della rassegnazione. (L’odore della paura (il blues della rassegnazione) tratto da Viaggiatori Nella Notte)  
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giovedì 27 marzo 2014

Pioggia D'Autunno

Attraversai la città a piedi con le palpebre strette e considerai che non si ha mai ragione da soli. Il vento era calato e una pioggerella, sorda e triste come un dolore, mi sorprese. Mi alzai il bavero del sgualcito soprabito, come per difendermi. Maddalena aveva portato scompiglio nella mia esistenza. Una vita senza infamia e senza lode, la mia, ma non mi andava di farmene una colpa. Camminavo sotto la pioggia e, rimasticando pensieri, tirai un sorso di gin dalla bottiglia che mi penzolava tra le mani. Era quasi mezzanotte quando rientrai in casa. Osservai le pile di dischi, i libri accatastati alla rinfusa sugli scaffali, il caos totale sopra il tavolo e mi sdraiai sul divano, osservando la luce obliqua della notte che penetrava dalla finestra. Avevo fatto in tempo a mettere sul giradischi Autumn in New York di Charlie Parker che caddi in un sonno tumultuoso.
 Charlie Parker fu l’uomo della pioggia. Quella pioggia che si schioda ad un tratto dal cielo e viene giù come un diluvio universale. Un visionario delle sette note, che solo quando era intento a suonare riusciva a liberarsi dall’eroina. Una tossicomania acquisita sin dall’adolescenza. Era in quei frangenti che il suo dialogo interiore si metteva in moto. Attraverso di lui la musica si esprimeva in tutta la sua naturale bellezza. Notturna, violenta, brutale e, alle volte, tenera e dolce, la sua arte lambiva i contorni incerti del bene e del male, emanando un’ondata scura e affamata d’amore. Una storia, quella di Charlie “Bird” Parker, di ordinaria solitudine. 
 Un anima pesta, gettata tra le fauci di un mondo privo di delicatezza. Così come è capitato a tutti i dannati di questa terra, teneva più ai suoi veleni che a tutto il resto.
Avevo collezionato un gran bel numero di errori non c’è che dire, ed ero pure cresciuto con la testa piena di cazzate. Guardai la mia immagine accigliata nello specchietto retrovisore dell’auto mentre procedevo a trenta all’ora, ascoltando Monk, il santone pazzo del jazz, in Round Midnight. E’ risaputo che a furia di cercare si finisce sempre per trovare qualcosa. Ma lei era ormai un capitolo chiuso. Avevo avuto il mio momento di gloria, non potevo più accedere ai suoi pensieri, né al suo corpo, ma di questo potevo biasimare solo me stesso. Guidavo non sapendo dove andare, solo che quell’unghiata mi doleva come un ostinato mal di denti. Uno stuolo di nuvole grigie si addensò nel cielo, ascoltai i gemiti sordi del vento. Tra non molto, ci avrei scommesso, sarebbe venuta giù la maledetta pioggia.
Non appena rientrai in casa, accesi lo stereo e misi sul piatto Foreign Affair di Tom Waits. Un disco che porta con sè brandelli di pioggia, destinato a tutti quei pazzi di vita che hanno ricevuto un colpo da ko, ma che, pur traballando, riescono in qualche modo a non cadere. Canzoni che sono come tante piccole lacrime tra le ciglia, narrate in notti spese alla ricerca di quella cosa che mai raggiungeremo. Ballate dolci e amare, perfette per coloro che si sentono in fuga dal mondo. 
(Verso Mezzanotte tratto da Viaggiatori Nella Notte)
 

lunedì 24 marzo 2014

La Strada Che Porta Da Lei

Quando s’invecchia ci si ammutolisce e si prova una sottile sensazione di disagio a stare con gli altri, pensò. Ma poi a che serve parlare, le parole scivolano e si gira intorno alle cose. Ognuno di noi, alla fine, fa sempre ciò che vuole. O, almeno, così crede che sia. Fino a quando, improvvisamente, ci si rende conto che il mondo va in un'altra direzione, rispetto a quella che abbiamo seguito. Ad un tratto, si apre un buco nero dentro di noi, e comprendiamo che non siamo stati capaci di raggiungere il cuore della vita, di essere stati bellamente usati e fottuti dalle circostanze. All’inizio ci sentiamo pieni di rabbia e ne facciamo una questione personale. Con il passare del tempo non ce ne importa più nulla. Ed è a quel punto che si resta afoni e muti. Nel buio della stanza illuminata dalla tele senza volume si versò un’altra tazza di caffè e diede fuoco a un avanzo che era rimasto nel posacenere.  
Rivolse lo sguardo, ancora una volta, verso la finestra. Un violento temporale si era scatenato. Aveva perso qualcosa e voleva sapere se era davvero così. Doveva ritrovarla e riuscire a parlarle, solo a questo anelava. Ma quello che esigeva era davvero troppo. Guardò sul tavolo il medaglione che gli aveva regalato la sera prima che sparisse. Si era fatta una doccia e se ne stava raggomitolata sulla poltrona di pelle, mentre lui con la chitarra strimpellava un vecchio country blues. Ad un tratto, Alice si avvicinò e gli fece un succhiotto sul collo. Era avvolta in un corto accappatoio bianco, che mostrava l’interno delle sue cosce. Lo abbracciò e sentì i seni duri sulla schiena, continuò a suonare stentatamente mentre dei brividi di piacere lo scuotevano. Con maestria gli passò la lingua dietro l’orecchio e gli donò quel pacchetto. Avvolto in un fazzoletto a forma di cuore, c’era quel medaglione con su incisa una frase: Al Mio Amore.
 
Quando riusciva a sottrarre dal lavoro qualche ora libera, amava frequentare un negozio di dischi. Mr Jones, un americano trapiantato era il proprietario di quella bottega e, dato che si conoscevano da tempo, gli lasciava ascoltare tutto quello che desiderava Quella passione per la musica gli era rimasta intatta, nulla era riuscita a scalfirla. Scartabellava tra gli scaffali, guardando ogni singolo lp e cd. Il suo reparto preferito restava quello dedicato al blues, l’unica musica che lo rincuorava. Considerava il blues come la sua ombra acciaccata che lo pedinava su quelle strade tortuose che il suo lavoro lo costringeva a percorrere. Il suo mondo era ingolfato da gente che tentava di fottersi l’uno con l’altro. Da matti pronti ad uccidere per un nonnulla. Da persone colme di odio e miseria. Viaggiava in quel brutto sogno e non riusciva a liberarsene. Fino a quando non gli apparve lei. Fu allora che ruppe definitivamente gli argini e si allargarono i confini. Ruzzolò dentro se stesso, nella sua anima più profonda. E tutto cambiò. Per la prima volta, guardandosi allo specchio, non si riconobbe più. I miei occhi son divenuti rossi quando la mia vita è diventata triste. Così, sto abbandonando tutto, è la verità, per saltare in una nuova pelle. (Don’t Box Me- Stan Ridgway)
Hai voglia a metterli in colonna, le somme del cuore non tornano mai. Ripensando al passato, sentiva di non avere rimpianti per tutte quelle porte che si erano chiuse, per tutti i sogni spezzati e le speranze devastate. Si era disintossicato definitivamente dalle sue e altrui menzogne. E allora? Cos’era che lo spingeva a cercarla? Tanto valeva ammetterlo, almeno a se stesso. Era la carne che si ostinava a rincorrerla, era quel desiderio del suo corpo, della sua bocca, della sua figa, che non si placava. Era quel sentirsi leggero quando lei lo toccava. Quella sensazione di abbandono che provava nel penetrarla e dopo ogni suo orgasmo. Forse stava inseguendo un fantasma. Ma i fantasmi non ti abbracciano, non ti baciano, non piangono. 
Il vento fece sbattere l’imposta della finestra. Si alzò dalla poltrona, raccolse le sue cose che erano sparpagliate per la stanza, le infilò dentro la sacca e si vestì. Non appena fu in strada la pioggia aveva smesso di scendere. Salì in macchina e si avviò lentamente. Anni di odio, di paure, di rabbia, erano scivolati via, tutti in un botto. Accese una sigaretta e ne aspirò una lunga boccata. Si fermò al semaforo ed abbassò il finestrino. Voleva sentire il vento sul viso. Al verde, ripartì sgommando. Dopo qualche chilometro si fermò nuovamente e scrutò intorno, come a cercare qualcuno, qualcosa, una direzione. Ma non c’era nulla in quella città deserta. Neanche una freccia, che gli indicasse la strada che portava da lei.(Città Solitaria tratto da Viaggiatori Nella Notte)