L’indolenza da troppo tempo mi ha sopraffatto, tanto che ho imparato a mentire, a dire corbellerie solo per accontentare il mio interlocutore di turno e sono diventato bravo a recitare la mia parte con il mondo, ma sono solo un vigliacco in cerca di una scappatoia, una nullità nel niente assoluto. Cazzo! Dove sono finiti i miei tremolii, le mie vertigini che mi hanno salvato tante volte da quel vuoto? Dov’è quel morso che mi ha sempre spinto oltre senza guardare, senza pensare a ciò che sarebbe accaduto. Dove sono finite quelle notti in cui farfugliavo ubriaco il mio orgoglio a basso prezzo tenendomelo stretto sul cuore? Avevo gli occhi rivolti al cielo in cerca di certezze. Avrei voluto un lavoro sicuro, ma era come se chiedessi a quella luna a forma di panino di scendere giù per farci un picnic. Era veramente chiedere troppo ad un mondo che ti spezza le reni se solo provi a fermarti o ad uscire dal gioco. Lui con i suoi ingranaggi ti stritola, ti centrifuga e neanche ti guarda mentre muori, senza più rabbia, inebetito e disperato.
Non
c’è che dire, sono veramente messo male. Ci avrei bevuto volentieri su,
ma dovevo risparmiare anche in questo per tirare avanti. In tasca
tenevo quel biglietto per il concerto di un emerito sconosciuto, un
certo James Maddock, che mi era stato regalato da un altro emerito
sconosciuto alla fermata della metropolitana. Il tipo se ne stava
accanto a me, seduto ad aspettare, quando ad un tratto si girò e,
allungandomi il ticket, mi disse: “Prendilo tu, non posso proprio andarci a questo concerto, ma ne vale le pena
” . Senza che mi rendessi conto di cosa stesse capitando, lo afferrai
al volo, proprio mentre giungeva il metrò. Fu un attimo e ci perdemmo
nella calca. Disorientato da quel gesto, restai lì fermo e alzai le
spalle guardando un uomo grassoccio e dalle gambe storte suonare
l’organetto. Dato che avevo bisogno di quattrini provai a venderlo quel
ticket, ma non mi fu possibile. Così decisi di vederlo, quel concerto.
In fin dei conti la musica era l’unica cosa che mi teneva vivo da quando
ero sprofondato nel buio della mia non esistenza.
Il Rockwood Music Hall è un coffee house sito sulla Lowers East Side di Manhattan. Presi
un vecchio tram che scrollava maledettamente, ma scesi molto prima.
Avevo voglia di camminare a piedi per quelle sbiadite strade del rock
che Lou Reed e Willie Nile avevano cantato con amore e poesia e a cui
Springsteen aveva dedicato una delle ballate più belle e struggenti che
abbia scritto, N.Y. City Serenade. La gente avanzava lentamente
nelle luci della notte. Un tempo i miei sogni affioravano dall’ombra per
scaldarmi l’anima, l’inquietudine faceva posto all’ indulgenza, adesso
invece sono un animale ferito pronto a scagliarmi contro chiunque con
inaudita violenza. E questo mi fa paura, molta paura. Quando arrivai al
club notai subito che c’era una bella atmosfera, la gente rilassata e
ben disposta e la mia tristezza aumentata perché mi rendevo conto che
ero io ad aver perso la mia battaglia per la sopravvivenza. Non è il
mondo che andasse a rotoli, no, lui continuava imperterrito a ruotare
come fa da millenni, ero io che con la bava alla bocca e senza
accorgermene avevo saltato un giro di troppo.
Presi
posto vicino al palco e aspettai che iniziasse il concerto. James
Maddock stava tra la sua gente, lo capivo dai discorsi che
involontariamente ascoltavo tra gli astanti. Non attesi molto e il
piccolo palco si riempì di musicisti. Le luci si spensero e un piano che
mi riportò dritto alle atmosfere di Welcome To the Club di Ian Hunter mi riempì la testa di melodia. James cantava con una voce roca come un altro amato beautiful losers, Steve Forbert.
Ed è cosi che, senza accorgermene, mi ritrovai in sintonia con i
musicisti e le canzoni. Quell’atmosfera mi travolse e mi spinse
nuovamente verso la vita ed ondeggiai dapprima esitante poi senza più
remore, mi lasciai andare per non stare almeno quella notte da solo
come un cane che si era perso.
C’è
sempre un limite a tutto, pensai mentre tornavo a casa, anche a
compiangersi. Certo ero invecchiato e nulla era più come una volta, ma
mi sentivo a mio agio a stare per strada, mentre le ombre mi avvolgevano
e la notte colloquiava pensosa con i suoi fantasmi. Il tempo mi aveva
ricoperto di acciacchi e malinconia, ma quella sera l’angoscia che mi
turbinava il cuore l’avevo messa sotto i tacchi delle mie scarpe di
camoscio nero stile inglese demodé. E vaffanculo se quelle stelle sulla
mia testa mi pareva che fossero come pertugi dell’anima di tutti quei
sognatori che non avevano smesso di fare la rivoluzione! E pazienza se
certe canzoni avevano ancora il potere di ferirmi come un bambino privo
di anticorpi o, cosa ben peggiore, come un innamorato privo di barriere
protettive! No, io a quella notte gli avrei preso tutto il calore
possibile, la sua smisurata dolcezza, la sua sensuale esaltazione, la
sua ruvida sciatteria e lo avrei fatto camminando a suo fianco, in punta
di piedi per non disturbare nessuno.
Bartolo Federico
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