sabato 29 settembre 2012

Prima Dell'Alba

 
L’indolenza da troppo tempo mi ha sopraffatto, tanto che ho imparato a mentire, a dire corbellerie solo per accontentare il mio interlocutore di turno e sono diventato bravo a recitare la mia parte con il mondo, ma sono solo un vigliacco in cerca di una scappatoia,  una nullità  nel niente assoluto. Cazzo! Dove sono finiti i miei tremolii, le mie vertigini che mi hanno salvato tante volte da quel vuoto? Dov’è quel morso che mi ha sempre spinto oltre senza guardare, senza pensare a ciò che sarebbe accaduto. Dove sono finite quelle notti in cui farfugliavo ubriaco il mio orgoglio a basso prezzo tenendomelo stretto sul cuore? Avevo gli occhi rivolti al cielo  in cerca di certezze. Avrei voluto un lavoro sicuro,  ma era come se chiedessi a quella luna a forma di panino di scendere giù per farci un picnic. Era veramente chiedere troppo ad un mondo che ti spezza le reni se solo provi a fermarti o ad uscire dal gioco. Lui con i suoi ingranaggi ti stritola, ti centrifuga e neanche ti guarda mentre muori, senza più rabbia, inebetito e disperato. 

Non c’è che dire, sono veramente messo male. Ci avrei bevuto volentieri su, ma dovevo risparmiare  anche in questo per tirare avanti.  In tasca tenevo  quel biglietto per il concerto di un emerito sconosciuto, un certo James Maddock, che mi era stato regalato da un altro emerito sconosciuto alla fermata della metropolitana. Il tipo se ne stava accanto a me, seduto ad aspettare, quando ad un tratto si girò e, allungandomi il ticket, mi disse: “Prendilo tu,  non posso proprio andarci a questo concerto, ma ne vale le pena ” . Senza che mi rendessi conto di cosa stesse capitando, lo afferrai al volo, proprio mentre giungeva il metrò. Fu un attimo e ci perdemmo nella calca. Disorientato da quel gesto, restai lì fermo e alzai le spalle guardando un uomo grassoccio e dalle gambe storte suonare l’organetto. Dato che avevo bisogno di quattrini provai a venderlo quel ticket, ma non mi fu possibile. Così  decisi di vederlo, quel concerto. In fin dei conti la musica era l’unica cosa che mi teneva vivo da quando ero sprofondato nel buio della mia non esistenza.

Il Rockwood Music Hall è un coffee house sito sulla Lowers East Side di Manhattan. Presi un vecchio tram che scrollava maledettamente, ma scesi molto prima. Avevo voglia di camminare a piedi per quelle sbiadite strade del rock che Lou Reed e Willie Nile avevano cantato  con amore e poesia e a cui Springsteen aveva dedicato una delle ballate più  belle e struggenti che abbia scritto, N.Y. City Serenade. La gente avanzava lentamente nelle luci della notte. Un tempo i miei sogni affioravano dall’ombra per scaldarmi l’anima,  l’inquietudine faceva posto all’ indulgenza, adesso invece  sono un animale ferito pronto a scagliarmi contro chiunque con inaudita violenza. E questo mi fa paura, molta paura. Quando arrivai al club notai subito che c’era una bella atmosfera, la gente  rilassata e ben disposta e la mia tristezza aumentata perché mi rendevo conto che ero io ad aver perso la mia battaglia per la sopravvivenza. Non è il mondo che andasse a rotoli, no, lui continuava imperterrito a ruotare come fa da millenni, ero io che con la bava alla bocca e senza accorgermene avevo saltato un giro di troppo.

Presi posto vicino al palco e aspettai che iniziasse il concerto. James Maddock stava tra la sua gente, lo capivo dai discorsi che involontariamente ascoltavo tra gli astanti. Non attesi molto e il piccolo palco si riempì di musicisti. Le luci si spensero e un piano che mi riportò dritto alle atmosfere di Welcome To the Club di Ian Hunter mi  riempì la testa di melodia.  James cantava con una voce roca come un altro amato beautiful losers, Steve Forbert. Ed è cosi che, senza accorgermene, mi ritrovai  in sintonia con i musicisti e le canzoni. Quell’atmosfera  mi travolse e mi spinse nuovamente verso la vita ed ondeggiai dapprima esitante poi senza più remore, mi lasciai andare  per non stare almeno quella notte da solo come un cane che si era perso.

C’è sempre un limite a tutto, pensai mentre tornavo a casa, anche a compiangersi. Certo ero invecchiato e nulla era più come una volta, ma  mi sentivo a mio agio a stare per strada, mentre le ombre mi avvolgevano e la notte colloquiava pensosa con i suoi fantasmi. Il tempo mi aveva ricoperto di acciacchi e malinconia, ma quella sera l’angoscia che mi turbinava il cuore l’avevo messa  sotto i tacchi delle mie scarpe di camoscio nero stile inglese demodé. E vaffanculo se quelle stelle sulla mia testa  mi pareva che  fossero  come pertugi dell’anima di tutti quei sognatori che non avevano smesso di fare la rivoluzione! E pazienza se  certe canzoni avevano ancora il potere di ferirmi come un bambino privo di anticorpi o, cosa ben peggiore, come un innamorato privo di barriere protettive! No, io a quella notte gli avrei preso tutto il calore possibile, la sua smisurata dolcezza, la sua sensuale esaltazione, la sua ruvida sciatteria e lo avrei fatto camminando a suo fianco, in punta di piedi per non disturbare nessuno.

Bartolo Federico 

                                                                              

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