Nella notte aveva piovuto di continuo e al mattino la carreggiata
era ancora bagnata. Sembrava una giornata di fine ottobre per quella malinconia
che aveva avvolto il paesaggio. Dei pettirossi passarono sopra la mia testa sfarfallando
qua e là. Li osservai massaggiandomi la schiena. Avevo il corpo indolenzito
dopo la nottata trascorsa a riposare sul sedile del furgone. Ma era anche vero
che non ero più vispo come una volta. Fatto il pieno, controllato l’olio e
l’acqua del radiatore, cambiate le pasticche dei freni e riparate le
ammaccature che ricoprivano la carrozzeria del camioncino, ero partito. Mi
sentivo braccato dagli eventi, e quell’ inquietudine di andarmene senza meta mi
aveva nuovamente morso nel cuore. Ma non era più il tempo di fughe precipitose,
della ricerca frenetica, da perdenti sballati, o da esausti, che una volta
ingolfavano la linea bianca di mezzeria. Non era più il tempo di facce sperdute,
di capelloni con chitarra, di mistici, tutti quanti diretti verso i propri
confini interiori. No, non era più quel tempo. Ma avevo la consapevolezza che
la strada era l’unico luogo dove potevo fare chiarezza alla mia stessa confusione
e in qualche modo salvarmi dalla pazzia. Sapevo che durante il viaggio sarei
stato ciò che sono, finalmente senza più alcuna finzione. Per questo avevo
deciso di seguire quell’ansia che ad un tratto mi attaccava e mi lasciava senza
respiro. Quella smania che provavo sin da ragazzo e che mi aveva divorato la
vita. La strada era ancora lì, nera e lucente, selvaggia e inafferrabile, apparentemente
immobile, e con occhi spalancati aspettava di essere nuovamente percorsa.
Pranzai con maccheroncini
fatti in casa al sugo di pomodoro fresco e basilico, e della salsiccia
arrostita sulla brace, in uno di quei posti dove ti senti trattato come uno di
famiglia. Chiacchierai con il proprietario Don Alfio Zaccone del luogo e delle tradizioni
centenarie che a dispetto di tutta la tecnologia continuavano a resistere. Il mondo
va avanti, mi disse Don Alfio, continua a girare imperterrito, ed è giusto che
sia così. Ma grazie a Dio, ci sono uomini che hanno ancora del buon senso e si
muovono verso lo spirito delle cose. Le rondini garrivano felici, aggrappate
alle travi di legno del tetto della chiesa. Dal telefono fisso dell’osteria
chiamai Concetta ma non mi rispose. Bevvi un bicchiere di vino rosso che
profumava di corteccia d’albero e mi accesi una sigaretta aspirandone
lentamente il fumo. “Siamo nati prima del
vento siamo anche più giovani del sole. Prima che la graziosa barca fosse vinta
navigavamo nel mistico ”(Into The Mystic- Van Morrison). Quando un paio
d’ore più tardi raggiunsi nuovamente la
pianura, vidi il mare lì davanti a me
che era piatto e libero e mi diede una sensazione d’immensità. Come d’incanto mi
ero già lasciato tutto dietro.
”Metà cotone va al banchiere, l’altra metà al negozio, sul bancone. Mentre alla moglie del contadino resta solo un vecchio vestito di cotone, pieno di buchi,pieno di buchi (Bo Weevil). Se nasci nel sud, puoi starne certo, sarai un emigrante. Mio nonno Iano me lo ripeteva sempre. Ad un uomo del sud gli viene il blues. Gli viene dal cuore quel modo di dirti come vive, come viene trattato da chi in tutti i modi cerca di umiliarlo, di fotterlo, di piegarlo sulle ginocchia. Chester Burnett aveva sentito che la gente se la passava meglio nella Wind City. Saltò in piena notte su un treno merci e dal profondo sud del Mississippi si spostò a nord. Cantando il blues. Al sud a quasi tutti viene affibbiato un soprannome. Chester, veniva chiamato “Bull Cow”, ma anche “Big Foot”, per via della sua stazza. Ma poi suo nonno John Jones, sentendo i racconti di un songster, un certo John “Funny Papa” Smith, per via del suo carattere intemperante lo chiamò Howlin’ Wolf. Il giovane lupo lavora nelle piantagioni di cotone ed è qui che incontra Charlie Patton e Willie Brown. Patton lo prende subito sotto la sua custodia insegnandogli i primi rudimenti alla chitarra, impressionato da quella voce selvaggia e roca che ricordava la sua. Howlin’ è un uomo alto quasi due metri e dal peso di un quintale ma questo non gli impedisce di dare libero sfogo a tutta la sua fisicità. Durante le esibizioni dal vivo, salta per il palcoscenico, si arrampica sugli amplificatori e si getta ululando sul pubblico. È il blues nel suo aspetto più carnale, è il diavolo che si impossessa del suo corpo e guaisce. Il blues è la storia di un popolo di migranti. Un popolo che riusciva a sentire, ascoltare e guardare in faccia le cose che accadevano ed a parlarne con la forza della musica. Persone ricettive, i bluesman, che tramite il viaggio, il continuo spostamento da un luogo ad un altro, aprivano gli occhi sul mondo. “Voglio piangere, voglio urlare, mi sento così male, che ho voglia di morire. Ma se domani mi sento come mi sento oggi, preparerò la valigia e me ne andrò via”(Big Bill Broonzy). Howlin’ inizia ad incidere che è già abbastanza grande e questo giocherà a suo favore. Nel suo blues saprà convogliare la tradizione dei vecchi poeti del Delta, con quello che la strada gli ha spiegato.
La statale
passava su ponti, costruiti sopra ampi letti ghiaiosi, che collegavano le
sponde delle fiumare. Ero circondato dal verde intenso degli agrumeti che si
estendevano per chilometri e da incolti dominati dalla canna. In un pomeriggio avanzato seguivo il sentiero
sterrato che avevo imboccato per caso. Percorrendo un'altra via, ad un tratto,
senza alcun preavviso, mi ritrovai su quella strada delimitata da muretti di
pietra, costruiti a secco, che continuava a entrare in aperta campagna. In
questa beata solitudine ad un tratto vidi un uomo camminare su una mulattiera
limitrofa. Anche se non c’era nessuno nei paraggi, azionai la freccia e mi
fermai su un lato. Scesi dal camioncino e mi diressi verso di lui. Antonio
Strazzera era stato un uomo-tonno, a capo di una paranza con otto marinai a
bordo. Me lo raccontò lui stesso più tardi a casa sua mentre mangiavamo una frittura
di pesce cucinata dalla moglie Giuseppina e che, per quanto buona, era da
erigere a divinità. Sono sempre i poveri che ti offrono tutto quello che hanno.
Dopo cena, sotto il patio con un venticello caldo che soffiava dietro le nostre
spalle sorseggiammo della birra artigianale ghiacciata. Il tempo trascorse in
un baleno e si fece notte. Gli Strazzera vivevano di una modesta pensione in quella
piccola ma accogliente casa che grazie a Dio gli era stata lasciata in eredità dal
padre. Non avevano avuto figli ma non se ne erano mai fatto un cruccio. Erano
felici della vita che avevano vissuto e il signor Antonio continuava ad
arrangiarsi ancora con piccoli lavoretti. Nonostante l’età avanzata, era ancora
robusto e nodoso come un rovere. Il mare lo aveva forgiato a dovere. Quella
sera mi addormentai su un lettino improvvisato nel magazzino degli attrezzi
agricoli. All’indomani mattina quando mi
svegliai il sole era già alto nel cielo e prima di andarmene la signora
Giuseppina abbracciandomi mi sussurrò di guardare alle cose nuove che avrei
incontrato con curiosità e rispetto. Loro avevano vissuto aggrappati ai sogni e
dandogli molto spazio. E me lo disse porgendomi un sorriso luminoso. “Ho sognato di avere un miliardo e per moglie
una bella sirena. Ho sognato di vincere il ponte di Brooklyn giocando a dadi in
ginocchio. Ho sognato che giocavo al lotto, e che scommettevo ai cavalli. Ho
vinto tanti di quei soldi da non sapere più cosa farne. Ma era un sogno solo un
sogno nella mia testa. Quando al mattino mi sono svegliato, neanche un soldo ho
più ritrovato” (Just A Dream - Big Bill Broonzy.
Mi aveva
fatto bene quell’incontro. La solitudine del viaggio mi rendeva disponibile con
la gente. E poi quel sorriso della signora Giuseppina fu così bello che me lo
portai appresso per giorni. Guidavo su una litoranea con il mare distante uno o
due chilometri. All’improvviso la strada prese a salire dolcemente e mi trovai
attorniato da filari di viti coltivate ad alberello. Sulle colline distinguevo chiaramente
le dimore rurali degli agricoltori raggruppate in piccoli nuclei ma anche
isolate. Misi su un cd e mi fermai sotto la cresta ombrosa di un albero di
carrubo. “Apri la porta al tuo cuore, apri la porta alla tua
anima, torna sulla cresta dell’onda. apri la porta al tuo cuore i soldi non ti
danno soddisfazione i soldi pagano soltanto le bollette. Si tratta di
necessità, non di avidità. Apri la porta al tuo cuore” (Open The Door - Van
Morrison). Durante
gli anni venti e trenta Howlin’ Wolf coltivava la terra e si dedicava a suonare
soltanto nei fine settimana. Alle feste del sabato sera, oppure nei jukes o
nelle bettole clandestine, sempre e comunque in compagnia di Charlie Patton.
Per un po’ di tempo si fece anche trascinare in giro da gente come Rice Miller,
Robert Johnson, Robert Lockwood Jr. e Baby Boy Warren. Ma il lupo non amava la
vita sgretolata fatta di whiskey, donne, e spesso fuori legge. Perciò si ritira
nella fattoria del padre per scomparire dalla scena attiva del blues. Questo
almeno fino alla seconda guerra mondiale. Look down the road, cantava Skip
James mentre osservavo l’orizzonte di fronte a me. Il blues con la sua scala di
note tradizionali del Delta esprime l’angoscia, il rimpianto, l’amarezza. Il
blues rurale era istintivo senza nessuna convenzione e sgorgava libero
dall’anima del musicista. Alle volte era fragile, fragilissimo, come gli uomini
che lo cantavano. Ma per questo pieno di pathos e mistero. I bluesman del Delta
non sapevano mai cosa avrebbero suonato quando imbracciavano la chitarra o
soffiavano in un armonica. Solo dopo, con l’avvento degli strumenti elettrici
furono costretti a suonare sequenze derivanti dall’armonia. Era un nuovo modo per
farsi ascoltare nel frastuono della città ed anche per continuare ad esistere. Questo
rese certamente più fruibile la loro musica, ma tolse qualcosa alla magia primordiale.
“Oh, baby don't you want to go, Oh, baby don't you want to go, Back to the
land of California, To my sweet home Chicago (Sweet home Chicago - Robert
Johnson).
Alle tre del pomeriggio mi fermai per fare rifornimento lungo
una strada a doppia corsia completamente deserta. Il ragazzo della pompa di
benzina aveva la faccia stanca e ansimava per l’alto tasso di umidità che rendeva
l’aria irrespirabile. Mentre attendevo che si riempisse il serbatoio parlottammo
del più e del meno. Poi ripresi il viaggio. Su quel versante dell’isola l’acqua
era davvero poca, tanto che la campagna intorno era senza alberi, gialla e
rinsecchita. Il cielo, però, era di una luce come non l’avevo visto mai prima
di allora. Costeggiai una lunghissima spiaggia dai sapori oceanici e mi
ritrovai su una grande piana. Con l’ultimo bagliore del giorno arrivai in una città.
“La tua mente ti dice di viaggiare
dovunque. Quando sei là, non ci starai molto. Non sai restare in nessun luogo”
(Out On Santa Fè Blue s- Arthur Petties). Wolf a Chicago arrivò nel 1952,
insieme alla sua chitarra e l’armonica a bocca che Sonny Boy Williamson, nel
frattempo diventato suo cognato, gli aveva insegnato a suonare. Quel contadino
portava con sé il suo caratteraccio smanioso e diffidente sempre pronto alla
rissa, tanto che i suoi rapporti con gli altri bluesman furono problematici, specie
con Muddy Waters, suo eterno rivale. Scritturato da Leonard Chess, per
l’omonima casa discografica, condivise con Waters, le canzoni che il prolifico
e immenso Willie Dixon gli scrisse. Spoonful, Little Red Rooster, Evil, Back
Door Man, I Ain’t Superstitious, sono alcune di quelle perle. Quando nel 1955
il chitarrista della sua band Willie Johnson viene sostituito da Hubert Sumlin
troverà in lui uno dei pochi musicisti in grado di assecondarlo, tanto che lo
considerò sempre come un figlio. Il blues del “lupo ululante” era oscuro e
martellante, aggressivo e privo di compromessi. Wolf era un figlio del
Mississippi, radicato nelle tradizioni e cresciuto con la lezione del grande
Charley Patton. Anche quando alla fine della sua carriera il successo gli
arrise, non si scordò mai dei suoi dolori, dei suoi disagi, delle sue origini. Non
scordò mai chi era stato. Ho i buchi
nelle tasche, piccola, e le toppe nei calzoni. Sono in arretrato con l’affitto
e il padrone di casa lo vuole tutto in anticipo. Ho le cavalette nel cuscino, piccola,ho
i grilli nei miei pasti. Ho i chiodi nelle scarpe, piccola, e mi pungono il
calcagno (I’m Leaving Blues- Leadbelly).
I macconi, una serie di grandi dune,
orlavano la costa. Oltrepassai un lungo e altissimo viadotto, e subito dopo un
paesino quasi disabitato. La notte avevo dormito nel sacco a pelo su una
spiaggia bianchissima. All’alba dopo una doccia gelata in uno dei tanti lidi
balneari che spuntano come funghi a deturpare i litorali, avevo ripreso il cammino,
in compagnia della chitarra magica e speciale di Peter Green che suonava I Believe My Time Ain’t Long, un
blues inquieto di Robert Johnson. Qualche
chilometro dopo aver superato il paesino, notai in un piazzale assolato il bar
“Gianni”. Decisi di fermarmi per un caffè. Gianni Siracusa aveva fatto il
camionista per vent’anni e percorso
l’Italia, ma anche buona parte dell’Europa, guidando uno di quei mostri
d’acciaio che solo a guardarli ti mettono paura. Un giorno, al suo rientro a
casa, non trovò più nessuno ad attenderlo. La moglie se ne era andata da
qualche altra parte del mondo, portandosi con se anche il figlio. Dopo i primi
tempi di autentico e comprensibile sconforto, decise di riprendersi la sua
vita. Si licenziò dalla ditta di autotrasporti e partì per Lipari e quella che
doveva essere una breve vacanza si rivelò invece un vero cambio di esistenza. Ci
restò cinque anni in quell’isola, anche per via di Susy, la sua nuova compagna,
una ragazza danese che aveva conosciuto appena arrivato. Poi la nostalgia lo
aveva lavorato sui fianchi e trafitto. Così era rientrato al paese e investito tutto
quel che aveva in quel bar-ristoro che
gestiva insieme a lei. Avevo lasciato la radio accesa nel furgone e i
finestrini abbassati, il cd di Peter Green adesso suonava Love That Burns,e mi sorprese non poco scoprire che Susy era una
sua fan. Assaporai lentamente una granita di mandorla in un atmosfera surreale
con il blues in sottofondo e una schiera di cani secchi come chiodi poco
lontano, sdraiati al fresco di una tettoia di quello che una volta doveva
essere un lavaggio per auto. Mi sembrò di essere stato fortunato a fermarmi in
quel posto. Un brutto momento non è la fine, mi disse Gianni allungandomi la
granita. La curiosità è sempre una buona
motivazione per ricominciare. Forse ogni tanto serve prendere batoste perché queste
ti aiutano a ripartire verso i tuoi sogni. Ma qui non succede mai niente,
aggiunse sommessamente. Poi un cliente lo reclamò per pagare il conto e la
conversazione si chiuse lì. Lo osservai mentre batteva i tasti della cassa e
annotai il suo sorriso semplice e bonario, e non so
perché mi venne in mente Don Alfio e i suoi
uomini di buon senso.
L’estate si allunga lenta e dilata
il tempo e i giorni si muovono in armonia.
Il caldo scioglie il catrame e le emozioni corrono veloci, come la pazzia.
Ma sono cose che non tutti riescono a percepire. La notte era atterrata
rastrellando alcuni pensieri, mentre altri erano rimasti sparpagliati nel buio.
Lungo il tragitto mi accompagnavo con le note di I've
Got A Mind To Give Up Living/ All Over Again, che mi sfibbiarono il giusto l’anima.
Dal bar avevo telefonato nuovamente a Concetta,
ma anche questa volta non aveva risposto. Una macchina mi superò suonando
nervosamente il clacson. Erano le dieci della sera e faceva un caldo boia. Mi
sentivo teso con il corpo sveglio ma la mente addormentata. Non riuscivo a
tenere in piedi un pensiero e quello
strano senso di vuoto si era nuovamente impadronito
di me. Facevo strada cambiando umore di
continuo. Adesso avrei potuto rimanere per sempre immobile nella notte. Quando
avevo sedici anni me ne stavo a fantasticare romanticherie, ero nel pieno di
quel desiderio di solitudine ma anche convinto che un incontro mi avrebbe
cambiato la vita. Poi le cose avevano fatto il loro corso e c’erano stati
lunghi inverni passati da lupo. Alla fine qualcuno aveva bussato alla porta. Guidavo
stando a colloquio con i miei spiriti, e avrei voluto che piovesse nuovamente. Non
c’era più quella magia intorno a me che rendeva tutto più sopportabile. Il
tempo si era distorto. Ma il tempo è l’unica certezza che abbiamo. Forse,
pensai, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare, a nuotare senza gli stivali e
guidare senza freni. Guardai la strada nera e profonda davanti a me e poi il
cielo che era un fragore di stelle. Calai il finestrino e ascoltai il vento sibilare tra l’erba.
Bartolo
Federico
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