venerdì 30 settembre 2016

Cadendo All'indietro(sorella morfina)

Nessuno resiste alla musica. Nessuno. Lei il suo cuore, l'ha regalato alla musica. Perché finché suona è salva. Anche cadendo all'indietro.




domenica 25 settembre 2016

Le canzoni Che Ho Imparato







Il pomeriggio lo aveva passato davanti alla finestra, guardando dal vetro polveroso la strada silenziosa. La grande crisi economica aveva sepolto molta gente sotto il suo mantello di dolore, e la città pullulava di venditori ambulanti, e intrallazzatori. Le persone si aggiravano confuse e pronte a tutto, pur di racimolare qualcosa per tirare avanti. Si sedette sul letto prendendosi la testa tra le mani. Un gesto istintivo che faceva anche sua madre, quando era viva. Dopo un po’  la stanza fu avvolta dal buio. Si alzò fece una doccia veloce arrotolò una sigaretta, e fumando si rivestì. Prese la giacca di pelle appoggiata sul letto, le chiavi di casa, e uscì chiudendo la porta alle sue spalle. Fuori l’aria era fresca. Sotto l’insegna verde del chiosco, scambiò un cenno di saluto con Gertrude Stein, una sua vecchia amica.  In fondo al viale C.W Stoneking suonava il suo blues vagabondo, figlio di quell’incantesimo sonoro che i bluesman del Delta, avevano lasciato in eredità al mondo intero. Quando le strade diventavano buie, quel ragazzo accompagnato dalla sua band la Primitive Horn Orchestra, si lanciava nel richiamo di quelle anime sperdute, che vagavano solitarie per la città. Si fermavano tutti ad ascoltarlo. Persino Orazio il salumiere, un uomo scorbutico e di poche parole batteva il piede, e muoveva la testa a tempo. La sua musica possedeva immagini e suggestioni popolari, che calamitavano l’attenzione come gli accadeva anche ai bluesman negli anni venti e trenta, laggiù nel Mississippi. Alle volte per essere sovversivi basta una chitarra acustica, un banjo, e una voce scorticata dalla vita, che canta con passione storie vere. 


Sono sempre i poveri che ti danno una mano d’aiuto, che ti accolgono in casa loro, che dividono con te qualunque cosa possiedano. La città sembrava un mortorio.  Saracinesche di negozi sbarrate, locali chiusi, e poca gente per strada. Una volta erano i più anziani che parlavano e i più giovani ascoltavano, adesso invece non parla più nessuno, ci si scambia messaggi con i computer, o tramite i cellulari. Faccine e slide, passatempi, anche per qualche cazzone governativo. I vecchi sono la testimonianza di ciò che è accaduto, sanno cose che i ragazzi non possono neanche immaginare, o presupporre. Bisognerebbe ricucire quello squarcio. Camminava nel buio della notte, dove ancora può accadere qualunque cosa. Dei cani gli passarono vicino scodinzolando la coda. Suo nonno era nato sul finire del 1800 e non aveva mai imparato a leggere e scrivere. Nel corso della sua vita aveva visto dei cambiamenti epocali, ma non si era mai confuso davanti a niente. Era rimasto una persona semplice, e di buon senso. Ma quello che non riusci' mai a comprendere, fu la cattiveria e la cupidigia, che serbano gli uomini di fronte al denaro. Quello si, che lo lasciava senza parole.


I Sebadoh, facevano musica come fossero dei banditori che soffiavano nel microfono, prima di un asta. Lou Barlow, Eric Gaffney, e Jason Loewenstein non avevano tutte le rotelle al posto giusto, ma il loro suono carico di nebbia, e malinconia, era assai affascinante. Sapeva prendere percorsi imprevedibili, sgusciare di lato, e sprofondare nell’oscurità. Folk e rock, che si fondono magnificamente con il rumore di chitarre acustiche, elettriche, e voci inclinate che echeggiano direttamente dal sottosuolo del rock, in un paesaggio desolato, spazzato da un vento impetuoso. La domenica mattina ti svegliavi, e ti sparavi quel disco “III”, e ti sentivi felice. Tenevi gli occhi chiusi e ascoltavi come in catarsi, quelle canzoni. Impossibile capirci qualcosa. In quella confusione avevi come l’impressione, che stavi ancora ficcato di traverso dentro un sogno. Nel sogno. Lui si fermò si piegò in avanti, e appoggio i gomiti sul muretto. Si tolse tabacco, cartine, e filtro dalla giacca, arrotolò una sigaretta e la accese. Mentre fumava osservò la sua ombra disegnata nel marciapiede, e gli fece un sorriso tenue. Lei lo stava aspettando seduta al bar. Il cameriere arrivò con i bicchieri di whiskey che avevano ordinato, e li posò sul tavolino. La ragazza parlava a voce bassa così da costringerlo a curvarsi, per non farsi sfuggire le sue parole. Dopo un po’ gli chiese anche come si sentisse. Lui fece finta di non aver udito, e rimase in silenzio. La ragazza scosse la testa, e bevve un sorso. Capì che non gli andava di parlare. Ma non si sentì offesa per quel suo rifiuto, rispettava il suo volere, e gli fece un sorriso tenue. 



"So Low" di Greg,  Eric,  e Jack Oblivian, non lo sentirete mai suonare per radio. Un combo di musicisti della stessa pasta bastarda di Tav Falco. In quel di  Memphis, una vera è propria leggenda del rock. Nella loro musica vive un mondo passato, che incontra un mondo a venire. È qui che la notte è completamente a suo agio. E’ come se guardassimo dentro un buco profondo, e scorgessimo nelle viscere della terra, qualcuno suonare. Quello che si origlia è un rumore di ossa frantumate, un suono irregolare, come un graffio nel disco di vinile nero. Un colpo di tosse è il rock’n’roll è polverizzato, nel borbottio di una tastierina, o di un sax che spazia in maniera molto free, di qua e di là. So Low è qualcosa che solo l’oscurità può comprendere. La musica è iniziata. Finché non rimane che il fruscio della puntina sul disco. Strizzò gli occhi, perché la luce del neon gli dava fastidio. Forse stava diventando pazzo, o forse lo era sempre stato. Lei era davvero carina, e lui era davvero un coglione. Ma quando il mondo ti cade addosso non hai tempo per l’amore, e per tutte quelle cose che ti fanno raddrizzare i sensi. Si teneva aggrappato ad una fune con una mano sola, ed era pronto a precipitare nel buio per sempre. Lei lo chiamò per nome, e lui si scosse per un attimo da quei pensieri. Aveva gli occhi arrossati, e graffi che non si vedevano. Ma certe cose facevano davvero fatica ad andarsene.


Il mondo è lo spettatore non il protagonista di quello che accade. E non è mai il mondo che cambia, ma sono gli uomini. Le cose a cui teniamo, chissà poi perché ci vengono sempre sottratte. Mentre altre di cui faremmo volentieri a meno, restano attaccate dentro di noi con una capacità di resistenza che lascia sbalorditi. Certe persone non tornano più.  Prima o poi anche lui se ne sarebbe fatta una ragione. Si può sempre chiudere gli occhi e parlarci, ma un giorno anche questo cesserà. E tutto sarà un ombra.

Songs The Lord Taught Us dei Cramps, fu registrato nel 1980 negli studi della Sun Records. Musica sporca e pervertita, che non poteva non piacere ad uno come Alex Chilton, che produsse il disco. I mitici tre accordi del rock’n’roll, qui furono riproposti nella sua forma più nefanda. In quei giorni che il mondo osannava i Police (mai nome piu' brutto, per una band di rock), una schiera di disadattati, di junkies, e bikers, trovò in Lux Interior e nella sexy Poison Ivy le loro star. E quella fu la colonna sonora per andare alla casa del diavolo. In questo disco è presente la lezione di Link Wray, di Robert Gordon, e di tutti i grandi sconosciuti del rock’n’roll , ma c’è anche dell’altro. Con i Cramps si tornava a fare l’amore nel retrobottega, a fumare e divertisi fuori da quel letamaio della cultura rock ufficiale. Gente con il culo a caldo gli sbraitava contro. “Una proposta schifosamente balorda”, “non sanno suonare”. Facevano paura quei delinquenti, con quel suono selvaggio che veniva dal cuore. Per molti i Cramps rappresentarono un monito contro la repressione culturale di certa sinistra, e quel rigore estremo di chi voleva, e ci vuole, tutti uguali intellettualmente. Una forma di difesa sociale, una rivincita dei poveri, degli sventurati, contro quella casta di tranquilli e rassegnati. Lo dicono i vecchi. Quelli che non sanno, devono basarsi su quello che accaduto prima. E’ tutto ciò che non è venuto dall’anima, verrà immancabilmente smascherato. 


Mentre la città si faceva sempre più buia, un taxi si fermò all’incrocio e qualcuno scese. Dalla via arrivarono rumori di clacson. Una pioggerellina leggera iniziò a cadere. Lui guardò al di là dei suoi capelli neri e si appoggiò con le mani al tavolino, come per confessarsi. Non ti mentirò mai. E lo disse con un filo di voce. Lei gli strinse la faccia tra le mani e lo baciò. Dopo si alzarono e si avviarono lungo la strada. Un uomo è sempre nel giusto quando insegue ciò che ama. Sempre.


Bartolo Federico






Le Buone Bugie(ho scopato una fiamma)



Mi sono svegliato senza idee, annoiato. Mi sono alzato e preparandomi un caffè con la moka, ho pensato alla vecchiaia. Si diventa vecchi quasi senza accorgercene e si rincoglionisce in un botto, mentre raccogliamo alla rinfusa ciò che resta di noi. Sorseggiando il caffè ho guardato in strada. Un uomo sotto la pensilina del bus, ha invece guardato l'orologio. Aveva uno sguardo spento, almeno così mi è sembrato. Dopo un po' il 46 è arrivato e lui è salito con passi lenti. Ho immaginato che adesso avrebbe guardato la tristezza della vita  attraverso i finestrini del bus, che lo stava portando a casa. Continuano a piacermi i noir di Dashiell Hammett e Jim Thompson, e anche quei dischi pieni di cose oscure. Quelli che ti fanno gelare il sangue mentre guardano la città dentro le sue ombre. Quella città  dove regna l'egoismo e la stupidità, dove a nessuno interessa di nessuno. Quella città piena zeppa di uomini pazzi, che camminano sotto la pioggia battente cercando in qualche modo, chissà dove, la forza di andare avanti. Vite qualunque, occhi che nessuno guarda, che nessuno vuole. Ma anche i pazzi  soffrono e amano, allo stesso modo degli altri. Non credo di avere l'umore giusto oggi.  Mi sono seduto sul divano e ho ascoltato un disco. Poi mi è venuto  il bisogno di confidare a qualcuno i miei pensieri. Con un sorriso dolce e triste anche il dolore deve avere una fine.


Bartolo Federico




sabato 24 settembre 2016

Miagolando Il Blues (vagabondo per orgoglio)



Passai una notte insonne nella stanza di quel motel. Una vera topaia, ma al prezzo che chiedevo, non avevo trovato altro. La mattina quando ripartì, il tempo era ancora messo male. Una schiera di nuvole basse e grigie, coprivano il cielo rendendo l’atmosfera cupa. Per non annoiami infilai nello stereo della macchina “Blues From Laurel Canyon”, il primo album americano di John Mayall. Un disco influenzato da sonorità psichedeliche, molto in voga nel 1969 anno in cui fu pubblicato. Accompagnato da una band ridotta all’osso, con la chitarra di Mick Taylor, il basso di Stephen Thompson, e le percussioni di Colin Allen, ne venne fuori un blues stringato ed essenziale, figlio dei Canned Heat perfetto per guidare nei grandi spazi aperti. Musica che ti fa scorazzare con la fantasia in un tempo polveroso, quando il deserto era attraversato da chopper con a bordo Dennis, Jack, e Peter, e tutto poteva ancora accadere. Il cofano della macchina era pieno di reliquie, schegge di memoria, testi di canzoni, graffi e poesie. Da qualche parte c’era anche la Polaroid di mio padre. Guidavo e avevo non so perché, la netta sensazione di essere come un reduce di un altro mondo. Durante quel viaggio mi ero prefisso di piantare qualcosa lungo il tragitto, come fosse un segnalibro infilato in un racconto. Un modo come un altro per lasciare qualche traccia di me.



Nella tarda mattinata finalmente le nuvole si aprirono, e nel cielo comparve un sole caldo. La sera della partenza alla chiusura del negozio, avevo salutato il signor Alfredo comunicandogli che non sarei tornato a lavoro, e spiegandogli  quello che avevo in mente di fare. Inaspettatamente fu molto comprensivo e generoso nei miei riguardi, tanto che mi regalò l’incasso del giorno. Quel gesto mi colpì molto. 

I "travellin’ man" così venivano chiamati i vagabondi di colore, si spostavano lungo le strade polverose battute da operai ferroviari, braccianti agricoli, giocatori, prostitute, e sbandati di ogni tipo. Tutti si muovevano con un'unica direzione Chicago. Dal 1920 al 1950 cinque milioni di neri migrarono dagli Stati del Sud, verso la città del vento. 

Io non avevo una meta da raggiungere, stavo solo cercando di prendere il mio tempo. Dovevo chiudere delle porte, e riaprirne delle altre, guardando a destra e a sinistra, su e giù.  Un vagabondo per orgoglio. 



Dopo che Peter Green lasciò i Bluesbreakers di John Mayall portandosi appresso anche il bassista John Mc Vie, reclutato il chitarrista slide Jeremy Spencer, e il batterista Mick Fleetwood, nel 1967 diede origine ai Fleetwood Mac. “Peter Green’s Fleetwood Mac”, fu registrato nel 1968 in solo tre giorni. Il blues si era rimesso in cammino emettendo un nuovo ruggito. Ispirato e lirico pronto ad esplodere, in questo disco si omaggia Elmore James, Howling Wolf, e Robert Johnson. Ma quando Peter Green è la sua chitarra prendono le redini, la musica comincia già a intrufolarsi nella foschia del mattino.


La statale è sinuosa ed è piacevole da attraversare. Mi tornano in mente certe fughe solitarie che avevo fatto da ragazzo, tra spiagge e scali ferroviari. Come allora cerco nuovi luoghi per rimettermi a sognare. 

È un netto cambiamento quello che avvenne nei Fleetwood Mac con la pubblicazione nel 1970 di Then Play On. Peter Green inizia il suo volo nello spazio, dentro atmosfere trasognati e cosmiche. La musica come nella migliore tradizione psichedelica si dilata camminando sperduta, fino a quando non ricade sulla strada. Il suo vero unico rifugio. Qui non c’è più il filo spinato a recintarla. Quel filo che aveva fatto ingoiare umiliazioni e rinunce viene spezzato, il blues torna a viaggiare libero. E diventa un veicolo per l’anima, perché non ha altro posto dove nascondersi, se non in un fremito, o in un dubbio. 


C’erano un sacco di strade che portavano a Chicago, tutte dei numeri dispari. La 45, la 51, la 23, la 13, la 49. La 61 è la più famosa per via di quel disco di Bob Dylan, ed è anche il luogo dove Robert Johnson strinse il patto con il diavolo. Vie di fuga per i neri delle piantagioni di cotone del sud, celebrate come fossero delle donne. Perché la strada rimane la più grande puttana del mondo. Big Joe Williams dedicò un disco a questi tragitti secondari, polverosi e malinconici. Ascoltare Blues On Highway 49 è come avere di fronte una cartina stradale del delta, dove però si scorgono nitidi i vagabondi che ci correvano sopra furtivamente, e che suonavano la chitarra in stile bottleneck, per miagolare il loro blues nella notte.


In Italia accadono sempre cose strane. Un paese dai mille segreti di Stato, dove si può ammazzare un ragazzo massacrandolo di botte, è tutti sono assolti. Un paese dove a pagare il prezzo più alto tocca sempre è solo, alla povera gente. La corporazione degli industriali appoggiati dalle multinazionali, hanno assoldato quel presentatore della Ruota Della Fortuna, per reprimere gli elementi a loro indesiderati. Operai, studenti, pensionati, precari, esodati, gay, una filiera di deboli, di condannati, che rompono le palle, scioperando e protestando. Vogliono un mondo senza diritti, un mondo di schiavi ubbidienti. Ma gli sta sfuggendo che quel popolo si sta ingrossando velocemente, e a dismisura. Ma quegli artisti o presunti tali, quei progressisti, che si ribellavano veementemente allo strapotere del bullo di Arcore, e si stracciavano le vesti nei vari talk televisivi. Quei cantautori, comici, registi, attori, tutti appartenenti a quell’area (si dice così no?) adesso di potere. Gente che si è tenuta in vita con la cannula dell’ossigeno, grazie a quel partito. Che fine hanno fatto? Dove sono finiti ? Il loro silenzio è assordante, di fronte a questo disastro collettivo. Ah dimenticavo l'ipocrisia.


La cantavano gli hobo sui treni merci questa canzone. 

Non m’importa se piove o gela starò bene tra le braccia di Gesù.’ Anche se dovessi perdere camicia e pantaloni lui amerà lo stesso i figli di puttana come me. Sono l’agnellino di Gesù? Si ci puoi scommettere che lo sono. 


Con quel sole che scaldava l’abitacolo della macchina, mi sentii ozioso ma mio agio. E mi fermai in uno spiazzale.  Dall’altro lato della carreggiata il traffico scorreva senza troppa fretta. In questo momento dei poveri disgraziati stavano sicuramente su qualche carretta del mare per cercare di arrivare, in una terra che non li voleva. Potevo essere in qualunque posto del mondo, con chiunque, ma ero anch’io come molti, un prigioniero. Quella guerra sociale stava sterminando milioni di famiglie. E nessuno faceva niente. Chissà perché’? Mi sentivo arrabbiato, ma anche sconsolato. Così decisi di andarmene al diavolo. Ma a modo mio. Con una grande scossa di musica. Quando ai Derek And The Dominos si aggiunse la chitarra di Duane Allman il più grande sliderman di tutti i tempi, le cose per la band di Eric Clapton, Bobby Whitlock, Carl Radle e Jim Gordon presero un'altra piega. Negli studi del Criteria di Miami nel 1970 si registrò Layla And The Other Assorted Love Songs, uno dei dischi fondamentali del rock blues. Certo che portarsi i ricordi dappresso può far davvero male. Dentro quello studio girava un mucchio di droga, e la musica che scorreva come un fiume in piena, era creativa ed eccitante. Doveva essere una sensazione meravigliosa, starsene lì ad ascoltare quei musicisti che esploravano il blues, il soul, il rock. Tutti correvano sulla stessa strada. E’ stata questa l’alchimia. Canzoni che rimangono nella memoria, come un brivido, una nostalgia, un colpo di fulmine. Per anni si è accreditato l’assolo di Layla ad Eric Clapton, ma quella fu un intuizione di Duane Allman. Uno che stirava le note come un elastico, senza timore che si rompessero.


Se un nero ammazzava un altro nero, “Jim Crow” telefonava alla polizia, e questo bastava per metterlo in libertà, e riportarlo a lavorare nei campi di cotone. La strada è un sogno, ed io voglio attraversare strade che non ho mai attraversato, per imparare nuovamente a sognare. Accesi la radio e infilai Blue Matter dei Savoy Brown. Mi sentivo le dita delle mani intorpidite, girai la chiavetta del motorino d’avviamento, e il motore ed io tornammo a vivere. Miagolando il blues.


Bartolo Federico

venerdì 9 settembre 2016

E' Tutto Finito Ora (bambina blue)

La pioggia si era messa a schizzare da ogni parte. L’uomo si passò una mano sulla fronte ma incomprensibilmente tardò ad andare via. Era vestito con abiti signorili, e vederne uno in quella zona, era davvero una cosa che non passava inosservata. Tanto che mi venne naturale chiedermi chi stesse aspettando. A guardarlo da dietro il vetro della mia finestra di casa, pareva un signorotto, di quelli che si vedono nei noir. Con quelle scarpe nero lucide, l’abito di grisaglia e il trench beige portato con il collo alzato, doveva essere un manager o un uomo d'affari. Di sicuro apparteneva a quella razza umana, lontana da me mille miglia. Uno di quelli che se la passava bene nella vita, con quell’aria di sufficienza anche sotto la pioggia che lo stava inzuppando dalla testa ai piedi. Quelle sciocche deduzioni spuntate davanti a un vetro sporco, mi furono sufficienti per farmelo stare ingiustificatamente sulle palle. Mi allontanai dalla persiana e spensi il radioregistratore che suonava “Are You Gonna Be There (At the Love-In)” una canzone della Chocolate Watch Band contenuta in “No Way Out”, album uscito nel 1967. Una garage band tosta, rude, messasi insieme nel 1964 a San Josè, città vicino San Francisco. Il gruppo, composto da Ned Torney, Mark Loomis, Jo Kemling e Tom Anton, aveva una passione sfrenata per suonare con chitarre taglienti un rock’n’roll grezzo, di grande impatto emotivo. Esordirono con un 45 giri contenente la cover ben fatta di “It’s All Over Now Baby Blue” di Dylan, anche se la loro influenza principale restava quella congrega di bastardi dei Rolling Stones. Si racconta che la versione di “Come on” fece impallidire lo stesso Mick Jagger quando la sentì. Non so perché mi ero tolto le scarpe e dopo un po’ la pioggia smise di cadere. Guardai nuovamente fuori dal vetro e di quell’uomo non c’era più traccia. Sparito in un lampo. Come alle volte scompaiono certe cose di noi. 

Era da un po’ che il peso di quello che facevo, o che non facevo, mi schiacciava verso il fondo. Cercare un senso a tutto questo non è che migliorasse la situazione. La mia voglia di verità e giustizia era fatica sprecata, destinata a rendermi la vita ancora più triste. Così, quella sensazione di sentirmi in trappola aumentava. Forse, ragionai, è solo una questione di prospettive. Ma in fondo vale sempre la pena di viverla questa vita. Anche quando inghiottiamo merda a palate, e ci sentiamo soffocare dagli eventi. C’è sempre un modo per rimetterci nuovamente sulla strada dei sogni. Alle volte una frase, un libro, una giornata di sole, un bicchiere di JD, una scopata con i fiocchi bastano per superare quei marciapiedi malconci e sconnessi, in cui ci troviamo a camminare. Alle volte serve anche una canzone dei Kinks per sorreggerci e riprenderci dallo sbandamento. Turbolenti e aggressivi, i fratelli Davies, tanto che i loro concerti si trasformavano sovente in gigantesche risse. Con liriche ironiche sostenute da un rock-beat energico e diretto, Ray e Dave entrambi chitarre e voce, prendevano di mira con le loro canzoni la piccola borghesia inglese. Nati nel 1963 dopo un breve rodaggio volarono in cima alle classifiche con “You Really Got Me”, un pezzo che diventerà negli anni un classico riproposto da un infinità di artisti. Nel 1979 vanno in tour in America ed è da quelle notti passate sui palchi che nel 1980 venne tirato fuori “One For The Road”. Un disco che offre abbastanza materiale di successo e che diventerà suo malgrado come un antologia. Ma questo è un disco per chi si muove in tante direzioni diverse, e si trasforma in tante persone diverse. La vita non è altro che una concatenazione di eventi, di frammenti, di ricordi.

Non esiste una giusta lotta. O forse si! Non sapevo più cosa pensare. Il diavolo mi era saltato fuori con un ruzzolone da una scatola di ricordi, chiusa da chissà quanto tempo. Nella penombra fissai l’estremità della sigaretta, e un sottile anello di fumo si alzò nell’aria. Precipitavo alla cieca verso l’ignoto. Spensi il mozzicone ed ebbi come l’impressione di essermi infilato dentro una di quelle buche da cui è difficile uscirne senza niente di rotto. Udivo il suo respiro, la sentivo muoversi nell’oscurità. La porta del bagno che si chiudeva, l’acqua che scorreva nel lavandino, i suoi morbidi passi mentre mi raggiungeva nel letto. Mi sentivo distrutto da quei pensieri. Allora accesi la luce e lo stereo in contemporanea, ricordandomi di un vecchio amico che in passato aveva riempito un vuoto. Dopo andai a dormire. American Fool uscì nel 1982 e come è capitato a tanti di noi, mi fece conoscere John Cougar un ragazzo nato in un paesino del Midwest, nello stato americano dell’Indiana. Veniva dalla periferia quel randagio. Con il giubbino di pelle e i Ray-Ban ti guardava dritto negli occhi, sfidandoti con quella spocchia tipica dell’età, mista alla diffidenza naturale di chi è abituato a sfidarla, l’esistenza. Mi sentivo come se fosse giunto a casa mia il fratello più grande che non avevo mai avuto.  Tenendomi stretto quel disco sotto le ascelle, comprato un sabato pomeriggio, John entrò nella mia vita mentre in sella al mio ciclomotore un Bravo truccato di colore rosso, guidavo nel traffico cittadino credendo di avere un Harley Davidson.

China Girl, Jack & Diane, Thunder Hearts, Hurts So Good furono una scossa di adrenalina, canzoni che centrarono il bersaglio e mi colpirono direttamente al cuore. Dopo aver pubblicato nel 1983 “Uh Uh”, un 33 giri dal piglio rollingstoniano, da sempre un grande amore di John Cougar, nel 1985 esce Scarecrow, un lavoro musicalmente più maturo dei precedenti, pensato e scritto in difesa della causa dei contadini, strangolati dalle banche e dalle scelte socio-economiche del presidente Reagan, che qui viene attaccato duramente in “The Face Of The Nation”. L’esempio che ha in testa Cougar, da sempre animato da una forte sensibilità sociale, è quello di Woody Guthrie. Ma per questa battaglia non si presenta come faceva Woody solo con una semplice chitarra acustica ammazza fascisti, porta con se una band di duri e puri rock’n’roller, una band che suona pungente e acre quanto basta, per rafforzare il suo urlo di battaglia e di dolore.

Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro Questa terra ha alimentato una nazione, questa terra mi ha reso orgoglioso E figlio mio, mi dispiace, ma non erediterai niente Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro. Le colture cresciute la scorsa estate non sono bastate per pagare il mutuo Impossibile comprare il seme da piantare questa primavera e la Banca Agricoltori mi è preclusa. (Rain On The Scarecrow  - John Mellencamp/George M. Green)

La schiavitù del lavoro, le disparità, l’odio razziale, la povertà dilagante e le ferite dell’anima inflitte dai governi di mezza Europa alla gente, sono i passi che servono per distruggere intere popolazioni. The Lonesome Jubilee è uscito nel 1987. “Caro signor Presidente vivo in periferia. E’ molto lontano da Washington D.C. Facevo l’operaio ma la mia ditta si è trasferita e si sono scordati di me. Non ricevo il sussidio di disoccupazione per qualche ragione che mi è ignota. I miei figli hanno fame. Ho quattro bocche da sfamare (Down And Out In Paradise). Ne è passato di tempo. In questi anni trascorsi cercando di andare avanti in un modo o nell’altro, me lo sono sempre ripetuto che bisogna saper aspettare. Ma alla luce di quanto accade non ci credo più. La solitudine, le difficoltà economiche ed esistenziali, i problemi del lavoro, della gente di mezza età, sono i temi fondanti di questo disco, che risuonano tragicamente attuali. Queste canzoni sono come tagli profondissimi inflitti sulla carne viva delle persone. Qualcuno senza chiederci neanche il permesso ci ha rubato la vita. E’ uno di quei rari casi in cui le cose restano sempre le stesse, quando invece non dovrebbero esserlo più.

Mi misi a suonare del blues, bevendomi qualche birra. Charlie Patton, Blind Willie Mc Tell, Son House, Bukka White, tutta roba incredibile. Il cuore aveva preso a battermi forte quando ad un tratto qualcosa si mosse nell’ombra. Mi spostai senza respirare e mi appoggiai alla parete. Guardai attentamente anche nelle fessure dei muri, ma non c’era nulla in quella stanza, se non io e i miei fantasmi ad agitare la notte. Forse avevo solo sognato. Accesi una sigaretta e ripensai a quello che mi aveva detto un anziano signore al supermercato mentre eravamo in fila alla cassa. Alla fine: le cose che ci distruggono non sono soltanto quelle che non facciamo, ma anche quelle che facciamo. E che ci vuole tempo per venirlo a sapere. Ci vuole tempo per imparare tutto. Anche a difendersi. I Flamin Groovies, un gruppo rock’n’roll e rhythm & blues nato in California nel 1965, sono il classico esempio di chi arriva sempre in ritardo all’appuntamento con la notorietà. Un po’ di sfiga, ma anche la voglia di essere controcorrente sono sempre state le peculiarità della loro carriera. Per potere esordire furono costretti a stamparsi il disco da soli. Duemila copie in tutto. Solo in seguito la Epic li mise sotto contratto. Ma l’esito delle vendite di Supersnazz per loro sarà disastroso. Nel tempo però quel vinile sarebbe divenuto un cimelio ambito e ricercato da tutti i collezionisti di musica dei sixties. Ma i Groovies sono gente abituata a masticare amaro. In qualche modo sono arrivati con gli strumenti in mano fino ai giorni nostri. In tutti questi anni passati a servizio del rock rimane una loro canzone che ancora oggi viene suonata sui palchi dei seminterrati, dei garage o dei piccoli club. Ma avrebbe meritato anche palcoscenici più blasonati. E’ un vero classico “Shake Some Action”, per chi è rimasto seduto in seconda fila, nel grande Luna-Park del rock. E la versione che suonò Charlie Pickett And The Eggs nel disco d’esordio, intitolato Live At the Button del 1982, è semplicemente fantastica. Da brividi. Una canzone che suona come un canto di vittoria per tutti quei sognatori, canaglie e solitari, caduti e sperduti per il troppo furore di vivere.
Graham Bond era uno dei padri del blues inglese. Morì travolto da un convoglio della metropolitana londinese contro il quale era caduto ubriaco e drogato.
Nessuno può fermare lo scorrere del tempo. Nessuno. Possiamo solo sistemare i ricordi dentro i cassetti della memoria. Avevo portato con me la bottiglia di whisky e una scodella piena di ghiaccio. Andando avanti cerchiamo solo di limitare i danni. Prima che arrivi il silenzio.

Bartolo Federico


sabato 3 settembre 2016

Contava Solo La Notte(gabba gabba hey)

Il punk era una novità assoluta, era il presente, un'apoteosi, era potente. Ma non aveva niente a che vedere con la politica. Cioè, forse anche essere apolitici è una forma di politica. Quello che intendo dire è che la cosa bella del punk era che non aveva obbiettivi politici. Si trattava della forma più vera di libertà, la libertà personale. Si trattava anche di adottare qualsiasi comportamento potesse rivelarsi offensivo per gli adulti. Ci si sforzava di essere il più offensivi possibile. Il che ti dava una sensazione magnifica, davvero euforica. Devi essere ciò che sei, capisci? E a me piaceva da pazzi.
Ricordo che le mie nottate preferite erano quelle in cui mi sbronzavo e andavo a passeggiare nell'East Village e a tirare calci ai bidoni della spazzatura. Contava solo la notte. Solo la notte non vedevi l'ora che passasse la giornata e tornasse la notte. Perché di notte potevi uscire, capisci. Era entusiasmante. E canticchiavi queste canzoni splendide e poteva succedere di tutto, e di solito erano cose piuttosto belle. Magari rimorchiavi una ragazza. Avevi un'avventura. Vivevi una fantasia che non avevi mai sperimentato prima.(Legs McNeil)