La pioggia si era messa a schizzare da
ogni parte. L’uomo si passò una mano sulla fronte ma incomprensibilmente tardò
ad andare via. Era vestito con abiti signorili, e vederne uno in quella zona,
era davvero una cosa che non passava inosservata. Tanto che mi venne naturale
chiedermi chi stesse aspettando. A guardarlo da dietro il vetro della mia
finestra di casa, pareva un signorotto, di quelli che si vedono nei noir. Con quelle scarpe nero lucide, l’abito di grisaglia e il trench beige
portato con il collo alzato, doveva essere un manager o un uomo d'affari. Di
sicuro apparteneva a quella razza umana, lontana da me mille miglia. Uno di quelli che
se la passava bene nella vita, con quell’aria di sufficienza anche sotto la pioggia che
lo stava inzuppando dalla testa ai piedi. Quelle sciocche deduzioni spuntate
davanti a un vetro sporco, mi furono sufficienti per farmelo stare ingiustificatamente sulle palle.
Mi allontanai dalla persiana e spensi il radioregistratore che suonava “Are
You Gonna Be There (At the Love-In)” una canzone della Chocolate Watch
Band contenuta in “No Way Out”, album uscito nel 1967. Una garage
band tosta, rude, messasi insieme nel 1964 a San Josè, città vicino San
Francisco. Il gruppo, composto da Ned Torney, Mark Loomis, Jo Kemling e Tom
Anton, aveva una passione sfrenata per suonare con chitarre
taglienti un rock’n’roll grezzo, di grande impatto emotivo. Esordirono con un
45 giri contenente la cover ben fatta di “It’s All Over Now Baby Blue”
di Dylan, anche se la loro influenza principale restava quella congrega
di bastardi dei Rolling Stones. Si racconta che la versione di “Come
on” fece impallidire lo stesso Mick Jagger quando la sentì. Non
so perché mi ero tolto le scarpe e dopo un po’ la pioggia smise di cadere.
Guardai nuovamente fuori dal vetro e di quell’uomo non c’era più traccia.
Sparito in un lampo. Come alle volte scompaiono certe cose di noi.
Era
da un po’ che il peso di quello che facevo, o che non facevo, mi schiacciava
verso il fondo. Cercare un senso a tutto questo non è che migliorasse la
situazione. La mia voglia di verità e giustizia era fatica sprecata, destinata a
rendermi la vita ancora più triste. Così, quella sensazione di sentirmi in
trappola aumentava. Forse, ragionai, è solo una questione di prospettive. Ma in
fondo vale sempre la pena di viverla questa vita. Anche quando inghiottiamo
merda a palate, e ci sentiamo soffocare dagli eventi. C’è sempre un modo per
rimetterci nuovamente sulla strada dei sogni. Alle volte una frase, un libro,
una giornata di sole, un bicchiere di JD, una scopata con i fiocchi
bastano per superare quei marciapiedi malconci e sconnessi, in cui ci troviamo
a camminare. Alle volte serve anche una canzone dei Kinks per
sorreggerci e riprenderci dallo sbandamento. Turbolenti e aggressivi, i
fratelli Davies, tanto che i loro concerti si trasformavano sovente in
gigantesche risse. Con liriche ironiche sostenute da un rock-beat energico e
diretto, Ray e Dave entrambi chitarre e voce, prendevano di mira con le loro
canzoni la piccola borghesia inglese. Nati nel 1963 dopo un breve rodaggio
volarono in cima alle classifiche con “You Really Got Me”, un
pezzo che diventerà negli anni un classico riproposto da un infinità di
artisti. Nel 1979 vanno in tour in America ed è da quelle notti passate sui
palchi che nel 1980 venne tirato fuori “One For The Road”. Un disco che
offre abbastanza materiale di successo e che diventerà suo malgrado come un
antologia. Ma questo è un disco per chi si muove in tante direzioni diverse, e
si trasforma in tante persone diverse. La vita non è altro che una
concatenazione di eventi, di frammenti,
di ricordi.
Non esiste una giusta lotta. O forse si! Non sapevo
più cosa pensare. Il diavolo mi era saltato fuori con un ruzzolone da una
scatola di ricordi, chiusa da chissà quanto tempo. Nella penombra fissai
l’estremità della sigaretta, e un sottile anello di fumo si alzò nell’aria.
Precipitavo alla cieca verso l’ignoto. Spensi il mozzicone ed ebbi come
l’impressione di essermi infilato dentro una di quelle buche da cui è difficile
uscirne senza niente di rotto. Udivo il suo respiro, la sentivo muoversi
nell’oscurità. La porta del bagno che si chiudeva, l’acqua che scorreva nel
lavandino, i suoi morbidi passi mentre mi raggiungeva nel letto. Mi sentivo
distrutto da quei pensieri. Allora accesi la luce e lo stereo in contemporanea,
ricordandomi di un vecchio amico che in passato aveva riempito un vuoto. Dopo
andai a dormire. American Fool uscì nel 1982 e come è capitato a tanti di noi,
mi fece conoscere John Cougar un ragazzo nato in un paesino del Midwest,
nello stato americano dell’Indiana. Veniva dalla periferia quel randagio. Con
il giubbino di pelle e i Ray-Ban ti guardava dritto negli occhi, sfidandoti con
quella spocchia tipica dell’età, mista alla diffidenza naturale di chi è
abituato a sfidarla, l’esistenza. Mi sentivo come se fosse giunto a casa mia il
fratello più grande che non avevo mai avuto. Tenendomi stretto quel disco
sotto le ascelle, comprato un sabato pomeriggio, John entrò nella mia
vita mentre in sella al mio ciclomotore un Bravo truccato di colore
rosso, guidavo nel traffico cittadino credendo di avere un Harley Davidson.
China Girl, Jack & Diane, Thunder Hearts, Hurts So
Good
furono una scossa di adrenalina, canzoni che centrarono il bersaglio e mi colpirono
direttamente al cuore. Dopo aver pubblicato nel 1983 “Uh Uh”, un 33 giri
dal piglio rollingstoniano, da sempre un grande amore di John Cougar, nel 1985
esce Scarecrow, un lavoro musicalmente più maturo dei precedenti,
pensato e scritto in difesa della causa dei contadini, strangolati dalle banche
e dalle scelte socio-economiche del presidente Reagan, che qui viene
attaccato duramente in “The Face Of The Nation”. L’esempio che ha in
testa Cougar, da sempre animato da una forte sensibilità sociale, è quello di Woody
Guthrie. Ma per questa battaglia non si presenta come faceva Woody solo con
una semplice chitarra acustica ammazza fascisti, porta con se una band di
duri e puri rock’n’roller,
una band che suona pungente e acre quanto basta, per rafforzare il suo urlo di
battaglia e di dolore.
Pioggia sullo spaventapasseri,
sangue sull'aratro Questa terra ha alimentato una nazione, questa terra mi ha
reso orgoglioso E figlio mio, mi dispiace, ma non erediterai niente Pioggia
sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro Pioggia sullo spaventapasseri, sangue
sull'aratro. Le colture cresciute la scorsa estate non sono bastate per pagare
il mutuo Impossibile comprare il seme da piantare questa primavera e la Banca
Agricoltori mi è preclusa. (Rain On
The Scarecrow - John Mellencamp/George M. Green)
La
schiavitù del lavoro, le disparità, l’odio razziale, la povertà dilagante e le
ferite dell’anima inflitte dai governi di mezza Europa alla gente, sono i passi
che servono per distruggere intere popolazioni. The Lonesome Jubilee è
uscito nel 1987. “Caro signor
Presidente vivo in periferia. E’ molto lontano da Washington D.C. Facevo
l’operaio ma la mia ditta si è trasferita e si sono scordati di me. Non ricevo
il sussidio di disoccupazione per qualche ragione che mi è ignota. I miei figli
hanno fame. Ho quattro bocche da sfamare (Down And Out In
Paradise). Ne è passato di tempo. In questi anni trascorsi cercando di
andare avanti in un modo o nell’altro, me lo sono sempre ripetuto che bisogna
saper aspettare. Ma alla luce di quanto accade non ci credo più. La solitudine, le difficoltà economiche ed
esistenziali, i problemi del lavoro, della gente di mezza età, sono i temi
fondanti di questo disco, che risuonano tragicamente attuali. Queste canzoni
sono come tagli profondissimi inflitti sulla carne viva delle persone. Qualcuno
senza chiederci neanche il permesso ci ha rubato la vita. E’ uno di quei rari
casi in cui le cose restano sempre le stesse, quando invece non dovrebbero
esserlo più.
Mi
misi a suonare del blues, bevendomi qualche birra. Charlie Patton, Blind
Willie Mc Tell, Son House, Bukka White, tutta roba incredibile. Il cuore
aveva preso a battermi forte quando ad un tratto qualcosa si mosse nell’ombra.
Mi spostai senza respirare e mi appoggiai alla parete. Guardai attentamente
anche nelle fessure dei muri, ma non c’era nulla in quella stanza, se non io e
i miei fantasmi ad agitare la notte. Forse avevo solo sognato. Accesi una
sigaretta e ripensai a quello che mi aveva detto un anziano signore al
supermercato mentre eravamo in fila alla cassa. Alla fine: le cose che ci distruggono non
sono soltanto quelle che non facciamo, ma anche quelle che facciamo.
E che ci vuole tempo per venirlo a sapere. Ci vuole tempo per imparare tutto. Anche
a difendersi. I Flamin Groovies, un gruppo rock’n’roll e rhythm &
blues nato in California nel 1965, sono il classico esempio di chi arriva
sempre in ritardo all’appuntamento con la notorietà. Un po’ di sfiga, ma anche
la voglia di essere controcorrente sono sempre state le peculiarità della loro
carriera. Per potere esordire furono costretti a stamparsi il disco da soli.
Duemila copie in tutto. Solo in seguito la Epic li mise sotto contratto. Ma
l’esito delle vendite di Supersnazz per loro sarà disastroso. Nel tempo
però quel vinile sarebbe divenuto un cimelio ambito e ricercato da tutti i
collezionisti di musica dei sixties. Ma i Groovies sono gente
abituata a masticare amaro. In qualche modo sono arrivati con gli strumenti in
mano fino ai giorni nostri. In tutti questi anni passati a servizio del rock
rimane una loro canzone che ancora oggi viene suonata sui palchi dei
seminterrati, dei garage o dei piccoli club. Ma avrebbe meritato anche
palcoscenici più blasonati. E’ un vero
classico “Shake Some Action”, per chi è rimasto seduto in seconda fila,
nel grande Luna-Park del rock. E la versione che suonò Charlie Pickett And
The Eggs nel disco d’esordio, intitolato Live At the Button del
1982, è semplicemente fantastica. Da brividi. Una canzone che suona come un
canto di vittoria per tutti quei sognatori, canaglie e solitari, caduti e
sperduti per il troppo furore di vivere.
Graham Bond era uno dei padri del blues inglese. Morì
travolto da un convoglio della metropolitana londinese contro il quale era
caduto ubriaco e drogato.
Nessuno può fermare lo scorrere del tempo. Nessuno. Possiamo solo sistemare i ricordi dentro i cassetti della memoria. Avevo portato con me la bottiglia di whisky e una scodella piena di ghiaccio. Andando avanti cerchiamo solo di limitare i danni. Prima che arrivi il silenzio.
Nessuno può fermare lo scorrere del tempo. Nessuno. Possiamo solo sistemare i ricordi dentro i cassetti della memoria. Avevo portato con me la bottiglia di whisky e una scodella piena di ghiaccio. Andando avanti cerchiamo solo di limitare i danni. Prima che arrivi il silenzio.
Bartolo
Federico
Sempre stimolanti i tuoi post...stasera vado col vinile...Charlie Pickett l'ho trovato fra Willie "loco" Alexander e Bruce Joyner...John Cougar tra Joe Ely e John Hiatt...i Flamin' tra i Creedence e i Crazy Horse...belle compagnie no? un abbraccio
RispondiEliminaaccidenti, un pezzo di vita quei vinili. un abbraccio Brò.
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