venerdì 9 settembre 2016

E' Tutto Finito Ora (bambina blue)

La pioggia si era messa a schizzare da ogni parte. L’uomo si passò una mano sulla fronte ma incomprensibilmente tardò ad andare via. Era vestito con abiti signorili, e vederne uno in quella zona, era davvero una cosa che non passava inosservata. Tanto che mi venne naturale chiedermi chi stesse aspettando. A guardarlo da dietro il vetro della mia finestra di casa, pareva un signorotto, di quelli che si vedono nei noir. Con quelle scarpe nero lucide, l’abito di grisaglia e il trench beige portato con il collo alzato, doveva essere un manager o un uomo d'affari. Di sicuro apparteneva a quella razza umana, lontana da me mille miglia. Uno di quelli che se la passava bene nella vita, con quell’aria di sufficienza anche sotto la pioggia che lo stava inzuppando dalla testa ai piedi. Quelle sciocche deduzioni spuntate davanti a un vetro sporco, mi furono sufficienti per farmelo stare ingiustificatamente sulle palle. Mi allontanai dalla persiana e spensi il radioregistratore che suonava “Are You Gonna Be There (At the Love-In)” una canzone della Chocolate Watch Band contenuta in “No Way Out”, album uscito nel 1967. Una garage band tosta, rude, messasi insieme nel 1964 a San Josè, città vicino San Francisco. Il gruppo, composto da Ned Torney, Mark Loomis, Jo Kemling e Tom Anton, aveva una passione sfrenata per suonare con chitarre taglienti un rock’n’roll grezzo, di grande impatto emotivo. Esordirono con un 45 giri contenente la cover ben fatta di “It’s All Over Now Baby Blue” di Dylan, anche se la loro influenza principale restava quella congrega di bastardi dei Rolling Stones. Si racconta che la versione di “Come on” fece impallidire lo stesso Mick Jagger quando la sentì. Non so perché mi ero tolto le scarpe e dopo un po’ la pioggia smise di cadere. Guardai nuovamente fuori dal vetro e di quell’uomo non c’era più traccia. Sparito in un lampo. Come alle volte scompaiono certe cose di noi. 

Era da un po’ che il peso di quello che facevo, o che non facevo, mi schiacciava verso il fondo. Cercare un senso a tutto questo non è che migliorasse la situazione. La mia voglia di verità e giustizia era fatica sprecata, destinata a rendermi la vita ancora più triste. Così, quella sensazione di sentirmi in trappola aumentava. Forse, ragionai, è solo una questione di prospettive. Ma in fondo vale sempre la pena di viverla questa vita. Anche quando inghiottiamo merda a palate, e ci sentiamo soffocare dagli eventi. C’è sempre un modo per rimetterci nuovamente sulla strada dei sogni. Alle volte una frase, un libro, una giornata di sole, un bicchiere di JD, una scopata con i fiocchi bastano per superare quei marciapiedi malconci e sconnessi, in cui ci troviamo a camminare. Alle volte serve anche una canzone dei Kinks per sorreggerci e riprenderci dallo sbandamento. Turbolenti e aggressivi, i fratelli Davies, tanto che i loro concerti si trasformavano sovente in gigantesche risse. Con liriche ironiche sostenute da un rock-beat energico e diretto, Ray e Dave entrambi chitarre e voce, prendevano di mira con le loro canzoni la piccola borghesia inglese. Nati nel 1963 dopo un breve rodaggio volarono in cima alle classifiche con “You Really Got Me”, un pezzo che diventerà negli anni un classico riproposto da un infinità di artisti. Nel 1979 vanno in tour in America ed è da quelle notti passate sui palchi che nel 1980 venne tirato fuori “One For The Road”. Un disco che offre abbastanza materiale di successo e che diventerà suo malgrado come un antologia. Ma questo è un disco per chi si muove in tante direzioni diverse, e si trasforma in tante persone diverse. La vita non è altro che una concatenazione di eventi, di frammenti, di ricordi.

Non esiste una giusta lotta. O forse si! Non sapevo più cosa pensare. Il diavolo mi era saltato fuori con un ruzzolone da una scatola di ricordi, chiusa da chissà quanto tempo. Nella penombra fissai l’estremità della sigaretta, e un sottile anello di fumo si alzò nell’aria. Precipitavo alla cieca verso l’ignoto. Spensi il mozzicone ed ebbi come l’impressione di essermi infilato dentro una di quelle buche da cui è difficile uscirne senza niente di rotto. Udivo il suo respiro, la sentivo muoversi nell’oscurità. La porta del bagno che si chiudeva, l’acqua che scorreva nel lavandino, i suoi morbidi passi mentre mi raggiungeva nel letto. Mi sentivo distrutto da quei pensieri. Allora accesi la luce e lo stereo in contemporanea, ricordandomi di un vecchio amico che in passato aveva riempito un vuoto. Dopo andai a dormire. American Fool uscì nel 1982 e come è capitato a tanti di noi, mi fece conoscere John Cougar un ragazzo nato in un paesino del Midwest, nello stato americano dell’Indiana. Veniva dalla periferia quel randagio. Con il giubbino di pelle e i Ray-Ban ti guardava dritto negli occhi, sfidandoti con quella spocchia tipica dell’età, mista alla diffidenza naturale di chi è abituato a sfidarla, l’esistenza. Mi sentivo come se fosse giunto a casa mia il fratello più grande che non avevo mai avuto.  Tenendomi stretto quel disco sotto le ascelle, comprato un sabato pomeriggio, John entrò nella mia vita mentre in sella al mio ciclomotore un Bravo truccato di colore rosso, guidavo nel traffico cittadino credendo di avere un Harley Davidson.

China Girl, Jack & Diane, Thunder Hearts, Hurts So Good furono una scossa di adrenalina, canzoni che centrarono il bersaglio e mi colpirono direttamente al cuore. Dopo aver pubblicato nel 1983 “Uh Uh”, un 33 giri dal piglio rollingstoniano, da sempre un grande amore di John Cougar, nel 1985 esce Scarecrow, un lavoro musicalmente più maturo dei precedenti, pensato e scritto in difesa della causa dei contadini, strangolati dalle banche e dalle scelte socio-economiche del presidente Reagan, che qui viene attaccato duramente in “The Face Of The Nation”. L’esempio che ha in testa Cougar, da sempre animato da una forte sensibilità sociale, è quello di Woody Guthrie. Ma per questa battaglia non si presenta come faceva Woody solo con una semplice chitarra acustica ammazza fascisti, porta con se una band di duri e puri rock’n’roller, una band che suona pungente e acre quanto basta, per rafforzare il suo urlo di battaglia e di dolore.

Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro Questa terra ha alimentato una nazione, questa terra mi ha reso orgoglioso E figlio mio, mi dispiace, ma non erediterai niente Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro Pioggia sullo spaventapasseri, sangue sull'aratro. Le colture cresciute la scorsa estate non sono bastate per pagare il mutuo Impossibile comprare il seme da piantare questa primavera e la Banca Agricoltori mi è preclusa. (Rain On The Scarecrow  - John Mellencamp/George M. Green)

La schiavitù del lavoro, le disparità, l’odio razziale, la povertà dilagante e le ferite dell’anima inflitte dai governi di mezza Europa alla gente, sono i passi che servono per distruggere intere popolazioni. The Lonesome Jubilee è uscito nel 1987. “Caro signor Presidente vivo in periferia. E’ molto lontano da Washington D.C. Facevo l’operaio ma la mia ditta si è trasferita e si sono scordati di me. Non ricevo il sussidio di disoccupazione per qualche ragione che mi è ignota. I miei figli hanno fame. Ho quattro bocche da sfamare (Down And Out In Paradise). Ne è passato di tempo. In questi anni trascorsi cercando di andare avanti in un modo o nell’altro, me lo sono sempre ripetuto che bisogna saper aspettare. Ma alla luce di quanto accade non ci credo più. La solitudine, le difficoltà economiche ed esistenziali, i problemi del lavoro, della gente di mezza età, sono i temi fondanti di questo disco, che risuonano tragicamente attuali. Queste canzoni sono come tagli profondissimi inflitti sulla carne viva delle persone. Qualcuno senza chiederci neanche il permesso ci ha rubato la vita. E’ uno di quei rari casi in cui le cose restano sempre le stesse, quando invece non dovrebbero esserlo più.

Mi misi a suonare del blues, bevendomi qualche birra. Charlie Patton, Blind Willie Mc Tell, Son House, Bukka White, tutta roba incredibile. Il cuore aveva preso a battermi forte quando ad un tratto qualcosa si mosse nell’ombra. Mi spostai senza respirare e mi appoggiai alla parete. Guardai attentamente anche nelle fessure dei muri, ma non c’era nulla in quella stanza, se non io e i miei fantasmi ad agitare la notte. Forse avevo solo sognato. Accesi una sigaretta e ripensai a quello che mi aveva detto un anziano signore al supermercato mentre eravamo in fila alla cassa. Alla fine: le cose che ci distruggono non sono soltanto quelle che non facciamo, ma anche quelle che facciamo. E che ci vuole tempo per venirlo a sapere. Ci vuole tempo per imparare tutto. Anche a difendersi. I Flamin Groovies, un gruppo rock’n’roll e rhythm & blues nato in California nel 1965, sono il classico esempio di chi arriva sempre in ritardo all’appuntamento con la notorietà. Un po’ di sfiga, ma anche la voglia di essere controcorrente sono sempre state le peculiarità della loro carriera. Per potere esordire furono costretti a stamparsi il disco da soli. Duemila copie in tutto. Solo in seguito la Epic li mise sotto contratto. Ma l’esito delle vendite di Supersnazz per loro sarà disastroso. Nel tempo però quel vinile sarebbe divenuto un cimelio ambito e ricercato da tutti i collezionisti di musica dei sixties. Ma i Groovies sono gente abituata a masticare amaro. In qualche modo sono arrivati con gli strumenti in mano fino ai giorni nostri. In tutti questi anni passati a servizio del rock rimane una loro canzone che ancora oggi viene suonata sui palchi dei seminterrati, dei garage o dei piccoli club. Ma avrebbe meritato anche palcoscenici più blasonati. E’ un vero classico “Shake Some Action”, per chi è rimasto seduto in seconda fila, nel grande Luna-Park del rock. E la versione che suonò Charlie Pickett And The Eggs nel disco d’esordio, intitolato Live At the Button del 1982, è semplicemente fantastica. Da brividi. Una canzone che suona come un canto di vittoria per tutti quei sognatori, canaglie e solitari, caduti e sperduti per il troppo furore di vivere.
Graham Bond era uno dei padri del blues inglese. Morì travolto da un convoglio della metropolitana londinese contro il quale era caduto ubriaco e drogato.
Nessuno può fermare lo scorrere del tempo. Nessuno. Possiamo solo sistemare i ricordi dentro i cassetti della memoria. Avevo portato con me la bottiglia di whisky e una scodella piena di ghiaccio. Andando avanti cerchiamo solo di limitare i danni. Prima che arrivi il silenzio.

Bartolo Federico


2 commenti:

  1. Sempre stimolanti i tuoi post...stasera vado col vinile...Charlie Pickett l'ho trovato fra Willie "loco" Alexander e Bruce Joyner...John Cougar tra Joe Ely e John Hiatt...i Flamin' tra i Creedence e i Crazy Horse...belle compagnie no? un abbraccio

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  2. accidenti, un pezzo di vita quei vinili. un abbraccio Brò.

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