Arrivava puntuale alle cinque del pomeriggio
con la sua moto ape Don Mario, strombettando e bandendo: Torrone, cioccolato, pistacchio e caffè. Come lo volete il gelato, con panna? Da dieci, da venti, o da cinquanta lire? Nel mio quartiere si
camminava a piccoli passi, la città era lontana con i suoi rumori, la sua
brutalità. Noi ragazzi ce ne stavamo rintanati dentro quella piccola casa
cantoniera, ai bordi della strada statale. Il nascondiglio perfetto per fumarci
le sigarette che rubavamo dai pacchetti dei nostri genitori, e per farci le
seghe sfogliando i fumetti sexy di Messalina. E’ dura dire che è finita,
ammetterlo. Chissà che fine ha fatto il professor Trovato? Ogni pomeriggio sempre la stessa storia. Lui
che usciva sul suo balconcino bestemmiando e urlando che doveva riposare, e non
tollerava i nostri schiamazzi. E noi di rimando che lo mandavamo affanculo, con
odio. Se poi usciva anche sua moglie per
dargli man forte, era anche peggio. Non ascoltavamo nessuno. Ed erano botte da orbi,
una volta tornati a casa. È un cazzo fritto la vita. L’ha scritto Celine, ed io
a lui ci credo. È difficile guardare la gente nei suoi egoismi, nella sua
miseria. Tutti hanno l’aria di sapere. Anch’io. Ho gli occhi arrossati è
un’aria assonata. E non ho più risposte alle domande che mi faccio. Nel 1968 un
viaggio in moto che va da Los Angeles
a New Orleans, diventa la storia di
un film che parla di strade polverose, di distributori di benzina deserti, di
cartelloni pubblicitari, e di sogni strapazzati dal vento della Monument Valley.
Dennis Hopper insieme a Peter Fonda e Terry Southern, ha scritto la sceneggiatura di Easy Rider (un termine che sta a indicare l’uomo di una puttana) oltre
a esserne il regista. Il film inizia con le note di The Pusher una canzone di Hoyt
Axton che è una denuncia contro gli spacciatori di cocaina, e prosegue con Born To Be Wild entrambe interpretate
dagli Steppenwolf, una band che suonava
una miscela potente di hard rock e psichedelica. In Easy Rider si sentono dieci
canzoni, e per la prima volta è la musica che crea le immagini del film. La
storia racconta di due motociclisti Billy
(Hopper) e Captain America (Fonda)
e del loro sogno di libertà. Entrambi finiscono ammazzati in una strada
provinciale nell’America dell’intolleranza, di ieri e di oggi. La canzone The Weight fa parte della colonna
sonora ed è suonata dal gruppo canadese The
Band. Un brano epico che ti mette sulla strada, e ti fa immediatamente
identificare con quei due viaggiatori solitari. In un mondo che ci vuole tutti uguali, la libertà si può trovare
in mille piccole cose. In un viaggio in moto, o nel buio della notte, con la
luce della luna a illuminare i tuoi passi. Oppure dentro i solchi di Music Big Pink (1968) e The Band (1969) due grandiosi album. Musica
indefinibile quella di The Band, misteriosa,
tormentata, che racchiude elementi che provengono dal blues, dal folk, dal ragtime,
dal gospel, dal soul, dal rock’n’roll. Che trova la sua ispirazione in quell’America
polverosa e di confine, nel diavolo come nella Bibbia. Musica corale, ricca di
sentimento ed emozione, ma anche di paura e di colpa. I musicisti suonano al
sevizio delle canzoni, e questo fa sì che la musica si modelli e si ricompatti
in nuovi suoni, creando un nuovo stile. Non si era mai sentito nulla del genere
nel rock, prima di quelle pubblicazioni. Ho messo un disco di Marvin Gaye e ho fatto una doccia, prima calda poi freddissima. Con cura mi sono fatto anche la
barba, così quando ha suonato I Heard it
Through The Gravepine mi sono sentito meno solo. Easy Rider mostra come si può finire in galera per una sciocchezza,
e come si venga picchiati a sangue da una guardia giurata, con uno sceriffo che
fa finta di nulla. Nessuno in questo mondo combatte in maniera leale. Nessuno. Si
diventa fragili e insicuri, quando s’invecchia. E le cose vanno come vogliono, senza
che tu possa farci nulla. Alle volte è una vera angoscia alzarsi dal letto, e
rifare quello che hai fatto il giorno prima. Ma c’è una sola rabbia, quella
utile. Il mio vecchio quartiere è scomparso, non è rimasto più nulla dei miei
ricordi. Ed io mi sento un pesce fuori dall’acqua. La verità come sempre si attorciglia,
sussulta, come un tempo ha fatto la mia gioventù. Tutti abbiamo piccoli segreti
di cui ci vergogniamo. E le cose che ci lasciano, ci fanno sentire sempre più
soli. Ci vorrebbe del whiskey per allontanare questi incubi. Per non bere
ho continuato a scrivere. Gli Hawks
era il gruppo di supporto di Ronnie
Hawkins un cantante di rockabilly che dalla natia Arkansas si spostò in
Canada, alla ricerca di quel successo che l’America gli aveva negato. Quando il
gruppo originario cominciò a liquefarsi reclutò insieme al batterista Levon Helm, quattro giovanissimi musicisti
canadesi. Robbie Robertson, Richard Manuel,
Garth Hudson e Rick Danko. Fu un apprendimento duro e tosto come disse
Garth Hudson, ricordando quel periodo: “Era
un pubblico di puttane e vagabondi, buoni a nulla e ruffiani della peggior
specie”. “Che voleva solo ballare”, ci aggiunse Robbie Robertson. Però con il
duro lavoro nei vari locali honky tonk, cantine malfamate e night club, la loro
fama cominciò a prendere quota, tanto che nel 1965 Bob Dylan chiese a quei ragazzi di accompagnarlo in quello che è
ritenuto uno dei più selvaggi e riusciti tour che abbia mai fatto. Fu un enorme
successo e una volta finito quel viaggio, se ne andarono tutti insieme a Woodstock
nelle cantine di Big Pink una casa di campagna presa in affitto, dove suonarono
per mesi appuntando su un comune registratore domestico quelle prove. Dapprima il
contenuto di quei nastri girò in forma di bootleg, poi nel 1975 la Columbia
pubblicò The Basement Tapes, un
estratto di 24 brani di quelle
leggendarie session. Nel novembre del 2014 la Columbia ha pubblicato The Bootleg Series Vol 11, 6 CD con 139 tracce, e come doppio CD e triplo LP
contenente le 38 tracce più
significative con il titolo The Basement Tapes Raw. Quando sei giovane ti fai trasportare da quel
magma di emozioni che ti rullano dentro, e che ancora non sai controllare. Cosi
ti convinci che puoi guidare il tempo. Ma in Time Waits For No One, i Rolling
l’hanno spiegato che il tempo non aspetta nessuno. Il tempo ti sommerge
sotto cumuli di macerie, ti spezza le ossa, e ti getta annichilito in un angolo.
Ho messo una delle mie canzoni preferite, quella che mi ricorda chi sono, e che
non posso arrendermi, anche quando finisco nei cattivi pensieri. Hey Hey My My mi ha scaraventato una
chitarra animalesca nella stanza, e un sacco di decibel in pieno viso. Una
rabbia prepotente si è messa a vibrarmi nel petto. Mi sono alzato e in un
bicchiere d’acqua ho preparato una bustina per il mal di testa. Ho bevuto appoggiandomi
al tavolo della cucina. Ci ho creduto, eccome se ci ho creduto, alla
rivoluzione. Come tutti quei babbei puri di cuore. Ho creduto che potevo
cambiare il mondo. Per questo sono sceso in strada e ho lottato, anche se i
celerini mi hanno gonfiato di botte. Colpi di manganello e di scudo, sulla
testa, nelle braccia, tra le gambe, sempre da inerme. Perché io non ho mai
alzato un dito contro di loro. Resto ancora oggi frastornato da tutta quella brutalità.
Ho lasciato molte cose dietro di me, che a guardarle
mi sembrano come lividi tumefatti sulla pelle. Cose morte. Fermarsi a
rimuginarci sopra, non ne vale la
pena. Da ragazzo, erano gli anni settanta, c’era molta tensione sociale. Ma era la solita
storia dei ricchi contro i poveri. Solo che si era giovani e l’indifferenza non
ci aveva ancora sopraffatto. Si aveva dentro un romanticismo maldestro. Dopo,
quando si ha un passato alle spalle, la vita diventa più complicata. La poesia
ce la divoriamo insieme a tutto il resto. Sono
state un bluff quelle barricate, come molte altre cose che ho saputo solo dopo.
Ma a quel tempo ero come quei “nastri della cantina” spontaneo e genuino, perfino
nei miei difetti. Ma chi parlava di lotta, di autonomia operaia, d’immaginazione
al potere, del Che, e urlava in piazza: hasta
la victoria siempre, stava solo fingendo. Si sono rimangiati tutto in un
batti baleno. Roba da far venire il voltastomaco. È sempre così che va a finire,
quando con il potere ci vai a braccetto. Pure Jerry Rubin un agitatore politico, che nel 1970 scrisse Do It! Scenarios Of The Revolution una
volta passatagli l’ubriacatura giovanile, si convertì al capitale. Nel 1976
diventa un super manager con investimenti nella appena nata Apple Computer. In culo alla rivoluzione.
In culo a tutto. E’ il mio rifugio la musica. Lo è sempre stato. E nel
rock’n’roll che ho trovato altri sbandati di cuore, altri folli sentimentali e
malinconici attaccabrighe. Che per
quanti lividi, ferite, inganni, alibi, e porcherie si porta appresso, oggi sembra
la faccia grinzosa di Iggy Pop. L’unico
re del rock’n’roll rimasto in circolazione. Mi sono fatto un bourbon, solo per
riprendere conoscenza. Ci vuole molto tempo per imparare, ma anche questo serve
a poco. Le cose vanno per come vogliono, e nessuno può farci niente. Gram Parson, come The Band, è stato un
precursore nella musica. Aveva la strada nel
cuore, il luogo dove inseguiva quei brividi e quegli sguardi che t’incantano. E
lo faceva guidando sempre nella corsia di sorpasso. Una vita bruciata in fretta
la sua, in quell’esplosione selvaggia, pura e genuina di sentimenti, che solo
un pazzo allo stato brado possiede. Gli piaceva stirarla al limite della
rottura l’esistenza, solo per la voglia di andare a vedere e sentire le cose
che non sapeva. In quelle strade di un America polverosa e genuina, che ancora raccattava
qualsiasi autostoppista fermo ai bordi dei propri sogni, diretto nel deserto di
Joshua Tree. E' sempre dentro alla musica che trovi il rimedio a tutti i
tuoi mali passati, presenti, futuri. Ho spento la luce e mi sono sdraiato sul
divano. Speravo che il sonno prendesse il sopravvento. Ma non c’è stato niente
da fare. Anche gli occhi si abituano alla penombra. Di colpo mi sono ritrovato nuovamente
nella pioggia. Picchiava da tutte le parti. Poi è cessata così com'era
arrivata, in un botto. Ho acceso la luce e ho messo “The Gilded
Palace of Sin” dei Flying Burrito Brothers anno 1969. Un pugno di canzoni che hanno cambiato per sempre il country
rock (i semi però Gram Parson li aveva già sparsi in “Sweetheart Of The Rodeo” (1968) dei Byrds) le sue visioni si concretizzarono dentro queste melodie, che
suonano tenere e psichedeliche, solitarie e senza timori. Con quella sfrenata voglia
di far tornare la musica sulla strada. Per capire che nulla dopo questo disco fu
come prima, basta ascoltare la cover di Dark
end of the Street che da ballata soul notturna, diventa un pezzo per attraversare le strade blu con la
faccia attaccata al finestrino. L’ex groupie Pamela Des
Barres oggi scrittrice, ha spiegato con queste parole a cui non mi sento di
aggiungere altro, la musica di
Gram Parson.
“La
chiamava Cosmic
American Music ed era la miscela perfetta: la tradizione country
per la prima volta sedeva sulla motocicletta del rock'n'roll, o se preferite,
il vino proibito del folk bianco veniva assaporato di nascosto durante la
cerimonia soul di mezzanotte. Era riuscito in questa fusione sensuale,
scoppiettante: il suo viaggio, la sua missione, consisteva nel trasportare gli
ascoltatori verso quella nuova dimensione, accompagnarli più in alto, cullarli
con la sua voce profonda, passionale e poi scappare via, a cento all'ora, sull'onda
lunga di una pedal
steel guitar, di un pianoforte scordato da saloon,
una chitarra elettrica o un violino ubriaco. Lui sapeva come accenderti, come
farti andare su di giri. Ma conosceva anche le corde segrete dei sentimenti,
sapeva come farle vibrare dolcemente, facendole risuonare dentro di te. Senza i
suoi insegnamenti non so proprio dove sarebbero oggi molti paladini del genere
alternative-Country”. Lo posso vedere sognare sotto le luci della
città, quel viso d’angelo. Posso vedere i suoi occhi umidi di lacrime, quando
con la radio accesa guardava la sua innocenza infrangersi nel mondo. Lo avevano
avvertito di stare lontano dai guai, ma a lui piaceva fottutamente il rock’n’roll.
Gli piaceva quel rumore basso e morbido. Nel deserto barcollò un attimo, poi
riprese a sudare freddo. Si raggomitolò come un bambino impaurito, sotto le
stelle di Joshua Tree. Voleva
lasciare il suo cuore in quel paesaggio che amava molto, e così accadde.
Bartolo Federico
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