L’album “All That May Do My Rhym” di Roky Erickson uscito nel 1995, è stato da poco ristampato con una nuova copertina e ad ascoltarlo oggi è come starsene nuovamente nella California dei vagabondi con un sacco in spalla, e certi sogni sudati e stonati sotto il cappello. Erano però quelli i giorni in cui si aveva ancora fiducia nel prossimo, si dormiva in spiaggia attorno a un falò e c’erano viandanti che ti sbucavano da tutte le parti a qualunque ora del giorno. Allora non vi era alcuna fretta di arrivare, nessun whatsApp o tweet che ti stressava la vita, perché non contava dove eri diretto, quello che importava era la voglia di sentire strisciare sulla tua pelle quel brivido caldo che ti sconvolgeva, solo per dire che anche tu eri passato da lì. Era il tempo dell’autostop, dei viaggi mistici e dell’incanto degli spazi aperti, mentre le nuvole t’inseguivano e l’odore dell’erba ti sfangava le narici. Una miriade di sognatori scarburati e inquieti attraversava l’America nella polvere e nel silenzio, dentro una ebrezza profonda e quella voglia di andare a sentire e vedere cosa stava succedendo. Aveva solo diciassette anni Roky Ericsson quando ad Austin in Texas, nel 1965 fondò con Tommy Hall (uno che suonava il jug elettrico, una damigiana in cui si soffia sull’imboccatura) insieme al chitarrista Stacy Sutherland, Ron Leatherman al basso e John Ike Walton alla batteria: i 13th Floor Elevators. Nel 1966 pubblicano “The Psychedelic Sound Of”, un disco diventato leggendario e riconosciuto come un capolavoro della psichedelica. Un suono ruvido e grezzo, pieno zeppo di atmosfere allucinate e abrasive, contenete l’impetuosa hit You’re Gonna Miss Me, portata in dote dallo stesso Erickson, che poco tempo prima l’aveva incisa col gruppo degli Spades. Musica quella di “The Psychedelic Sound Of” che fluttua dentro le suggestioni allucinate e sconvolte, di musicisti dediti ad un uso massiccio di droghe. Il tempo di un secondo e bellissimo disco “Easter Everywhere” pubblicato nel 1967 (a parere mio superiore al blasonato esordio) e si dà alla fuga perché trovato in possesso di marijuana. Al suo rientro ad Austin viene arrestato e, non ancora ventenne, conosce l’oblio del manicomio criminale e del trattamento crudele e disumano dell’elettroshock. Non aveva ancora ben capito dopo quella crisi isterica cosa gli stava succedendo, con quel sangue che gli colava dal naso per finire sui jeans. Senza rendersene conto diventa un viaggiatore affaticato dal veleno dei psicofarmaci, uno che allunga il passo sotto un sole cocente, attraverso mondi contorti e facce stralunate di zombie e marziani; tutte oscurità che lo tengono bloccato e lontano dalla scena musicale per un lungo periodo. Quando nel 1973 torna ad esibirsi è molto provato, la malattia mentale lo tiene ancora saldo in pugno, come fanno anche i discografici che si comportano da vere sanguisughe, privandolo delle royalties dei suoi dischi e riducendolo in assoluta povertà. I suoi occhi sono rossi e segnati dal dolore, e se pure scompare subito dopo quelle apparizioni, nuovamente negli abissi, continua a scrivere canzoni per fare ritorno nel 1980 con “Roky Erickson and the Aliens” e nel 1981 con “The Evil One”, accompagnato nei due dischi prodotti da Stu Cook, dalla band degli Aliens (ex Creedence Clearwater Revival). Suona un rock blues canagliesco, asciutto e nervoso, dove si coglie gettata sui fianchi delle canzoni, anche qualche pezza di amarezza. Roky Erickson resta un personaggio di culto, ma è grazie al supporto e incoraggiamento che ha dai suoi ammiratori, che nel 1986 si ripresenta con “Don’t Slander Me”, un disco con una registrazione finalmente all’altezza dei suoi corrosivi brani, e della sua monumentale voce. Le sue canzoni ormai sparpagliate come carte nel vento, vengono qui raccolte e messe in fila in modo da sembrare come un branco di lupi affamati che ballano al ritmo di un rock’n’roll indiavolato e fuori di testa, per lasciarti azzannato e sanguinante nella notte. Se poi ci fosse davvero anche un dio del rock, la sua Bermuda, una grandiosa figlia di puttana, dovrebbe avere un posto in prima fila in quel presunto olimpo. Come sempre però il futuro di Roky è identico al suo passato, e lui resta solo e nel più completo anonimato, a scartavetrare la vita, sostenendosi con le sole esibizioni dal vivo. Nel 1995 viene fuori questo “All That May Do My Rhym”, che non è altro che un mix delle sue canzoni riviste in chiave acustica, più vicine allo spirito di Bob Dylan e di Van Morrison, che a quel suono garage eccitante e dalla faccia pesta e divorata, a cui siamo abituati. Ha un aria davvero rilassata Roky, tanto che mentre canta indossa zaino e sandali e, come un novello Jack Kerouac, viene preso da quell’andare non importa dove… antiborghese, antimilitare. Un mondo fatto proprio da schiocchi e babbei che hanno creduto in un momento di alta frenesia e grande ingenuità che si potesse cambiare il mondo con le chitarre e la musica rock, sgasando e frenando in quelle fughe solitarie attraverso il deserto, insieme a chi cercava le risposte nel vento e alla poesia eccitata di Allen Ginsberg. Adesso, come si fa a spiegare che quel mondo è invece morto e sepolto, che quello spirito di ribellione è rimasto soffocato sotto rotoli di catrame, di odio, di sogni infranti e promesse mai realizzate? Quel modo di spillare la vita non esiste più, perché quella moda è tramontata, e le cose sono cambiate e non c’è più nessuno a prenderti su per un passaggio, neanche a pagarlo a peso d’oro; ma è quel viaggio da “beato” che si sente scorrere dentro queste canzoni e la sua voce è tranquilla libera e pura, (alle volte però riprende le sue naturali spigolosità) scorrendo incontro a quell’emozione, perché l’animo di Roky Erickson è come quello di un bambino che non ha mai conosciuto la malizia, ma soltanto la confusione selvaggia di chi si è perso nella quotidiana disperazione di vivere.
Bartolo Federico