Il giorno con il passare delle ore si era fatto sempre più caldo.
Cercavo di starmene tranquillo seduto su quella veranda da dove potevo
osservare il mare. Rimisi il libro sul tavolino e rientrai in casa,
stappai una birra e sistemai un disco sul piatto dello stereo. Glamour Girl di T-Bone Walker mi esaminò con attenzione, mentre guardavo gli ultimi raggi di sole pieghettare le onde. Il mare era piatto e lucido e non c’era un alito di vento.
La notte stava giungendo e tutte quelle stelle sparse nel cielo
dicevano che era quasi estate. Anche se stavo attraversando un momento
difficile, mi ripetevo che non dovevo farmi prendere la mano, che quei sogni strani che mi scuotevano e mi turbavano fin nel profondo sarebbero andati via, prima o poi.
Come ogni cosa. Era da mesi che durante il sonno mi svegliavo di
continuo e, quando non riuscivo a riaddormentarmi, aspettavo con gli
occhi sbarrati l’alba. Quella notte, però, aveva ringhiato da subito le
sue intenzioni e continuò a tormentami la mente. Non c’è la feci più a
rivoltarmi tra le lenzuola: mi alzai, infilai le ciabatte blu, la
camicia di jeans, e andai in cucina. Tirai fuori dal frigo la bottiglia
del latte, ne versai un bicchiere abbondante, ci misi dentro due
cucchiaini di zucchero e mi accomodai sulla veranda. Era una notte strana,
impregnata d’immagini chiare e inumidita da bagliori solitari. Guardai
per un pezzo il mare e il cielo, e anche quella luna che sembrava
arrivata lì per caso. Era come un urlo quel brandello di memoria che non voleva andar via.
Di fronte a me avevo case scolorite dal sole e dalla penombra, e c’era
poca gente intorno. Soffiava una leggera brezza, afferrai la Martin piena di cicatrici che era appoggiata sul muro del terrazzino, e strimpellai. A
volte sei felice. A volte piangi. Metà di me è come l’oceano e metà è
cielo. Tu hai un cuore davvero grande che potrebbe schiacciare questa
città. Ed io non posso arrendermi sempre. Tutti i muri cadono. Talune
cose sono già finite. Altre cose vanno avanti. Tu porti una parte di me,
una parte è già andata via. (Walls – Tom Petty).
Le cose accadono e il mondo continua ad andare avanti, che tu lo voglia
o meno. Tanto vale prendere la vita con distacco. Non avevo programmi a breve termine, ma non serviva farne.
Mi ero rintanato in quella casetta che mi avevano lasciato i miei
genitori e che fino a ieri non avevo mai sfruttato a dovere. Ma volevo
fare tabula rasa di molte cose e quello era di sicuro il luogo più
adatto. Il “simpatico contafrottole” questo è più o meno il significato in slang del nome Bo Diddley,
è uno di quei personaggi che ha seminato molto ottenendo il minimo
sindacale. Di lui non si ricorda quasi mai nessuno, perfino i testi di
musica lo bistrattano e lo liquidano frettolosamente. Come fosse una
rogna. Probabilmente paga per avere cambiato spesso panni e identità
musicale, e non si sa come catalogarlo ma, questo è certo, la storia del
rock senza le sue canzoni avrebbe avuto un altro corso. Tra il 1955 e il 1962 Ellas McDaniel in arte Bo Diddley (nome impostogli da Leonard Chess) incide il suo primo 45 giri, scrive tutti i suoi capolavori caratterizzati da un ritmo primitivo, ma anche brutalmente gioioso. I’m a Man, Road Runner, Mona, Story Of Bo Diddley, Cracking Up, Nursey Rhyme, Diddley Daddy, Who Do You Love sono canzoni che verranno riprese da Jimi Hendrix, Muddy Waters, John Fogerty, Rolling Stones, Quicksilver Messenger Service, Doors e un’altra miriade di artisti. Il creolo Diddley, nato nel Mississippi nel 1929, fu adottato dalla famiglia McDaniel all’età di cinque anni. Come è successo a quasi tutti quelli baciati dal talento, la chitarra che gli fu regalata dalla sorella quando compì dieci anni la imparò a suonare da solo e, a tredici era già all’angolo della Langley Avenue
con un suo complessino. La mattina mentre andavo al supermercato notai i
tanti bar che avevano aperto nella zona e le case di legno dei
contadini diventate ormai grigie per effetto della salsedine. Comprai
della pasta, uova, biscotti artigianali, del latte, un pacco triplo di
caffè e delle verdure, qualche birra e una bottiglia di vino. Il J&B lo presi anche ma poi lo riposai nel suo scaffale.
Rientrai e mi feci una doccia, restandomene un bel quarto d’ora seduto
sotto una cascata di acqua tiepida. Mi lavai i denti e mi rasai
abbastanza velocemente. Dopo, mentre mi rivestivo, osservai dalla finestra del salone la spiaggia ancora vuota. Preparai il caffè, ascoltando una cassetta degli Zeppelin che avevo registrato anni prima per portarmela in macchina. “Polvere e Diamanti”
lo avevo chiamato quel nastro, perché a quel tempo avevo l’abitudine di
dargli un titolo, ai miei nastri. Questa è la sequenza dei brani sul
lato A: Travelling Riverside Blues, Ramble On, Immigrant Song, Going To California, When The Levee Breaks, The Rain Song, The Battle Of Evermore, Over The Hill And Far Away, Misty Mountain Hop, Babe I’m Gonna Leave You. Dovevo
cercare la regolarità, pensare pensieri normali, non potevo seguitare a
essere un disadattato, un cavaliere errante, uno che rincorreva ancora
quegli spiriti furiosi che gli danzavano nella testa. Uscii di casa e feci una lunga passeggiata sulla spiaggia
che tra non molto si sarebbe animata da decine di famiglie con bambini e
ombrellone a seguito. Mal sopportavo l’ipocrisia della gente e quelli
che non si volevano annoiare mai. I Quicksilver Messenger Service nacquero per volontà di Dino Valenti, un folk singer già affermato della bay-area. John Cipollina e Terry Dolan lo incontrarono nel 1963. Valenti, innamorato della musica dei Jefferson Airplane, Beatles e Grateful Dead,
si era stancato di suonare da solo e stava cercando di mettere su una
rock-band. Dal momento che era alla ricerca di musicisti, quei due tipi
davvero bizzarri facevano al caso suo. Dino spiegò quale era la sua idea al gruppo… voleva includere anche due ragazze al tamburino che si dovevano anche vestire in maniera eccentrica. Stabilirono di iniziare il giorno dopo. Johnny e Terry si portarono appresso Jimmy Murray e Gary Duncan, due loro amici. Quando arrivarono tutto era pronto, gli strumenti, il manager, la sala. Mentre aspettavano che arrivasse Dino si fecero una pasticca di Lsd. Dopo una lunga attesa, finalmente, arrivò una ragazza che li informò dell’arresto di Dino. Lo avevano beccato mentre fumava marijuana, ma che sarebbe stato rilasciato entro qualche giorno. Passarono i mesi ma Dino non arrivava, perché era ancora in prigione. Nel frattempo i ragazzi conobbero David Freiberg, un amico di Valenti, anche lui uscito da poco di prigione e che suonava la dodici corde in modo eccellente ma, dal momento che David voleva suonare il basso, dopo varie e animate discussioni fu accontentato. I Quicksilver erano nati. Dino Valenti uscì dal carcere dopo un anno e mezzo, ma ormai non c’era più posto nella band. Nel marzo del 1969 esce “Happy Trails”. Il disco, eccetto Maiden Of The Cancer Moon, è il risultato di alcune registrazioni live realizzate nel 1968 nei due teatri Fillmore East e West di San Francisco, ed è la prova di quanto fosse emozionante e travolgente la Quicksilver Messanger Service dal vivo. La prima facciata è composta da una lunga suite di venticinque minuti che prende spunto da Who Do You Love di Bo Diddley per poi diventare, strada facendo, qualcos’altro, in un impasto musicale fantastico. La seconda facciata si apre con Mona sempre di Bo Diddley e, passando per la strumentale Maiden Of The Cancer Moon, si finisce con Calvary, (un pezzo scritto da Gary Duncan) e Happy Trails. C’è di tutto intinto in questo disco, svisate, arpeggi, chitarre distorte e laceranti, tocchi di acustica e improvvisazione. Un vero autentico trip sonoro. Uno dei momenti migliori del rock californiano degli anni sessanta. Stavo cercando di adattarmi alla situazione ma ero sempre animato da una profonda sfiducia verso il genere umano.
Mi sedetti in un bar sotto un pergolato e ordinai da bere. Dal cestino
poggiato sul tavolino presi dei fazzolettini e mi asciugai il sudore
sulla fronte. Il cameriere mi allungò il bicchiere gelato con la vodka
alla pesca che mandai giù in un botto, solo per il gusto di sentirmi le
budella bruciare. Non mi andava d’ingannare nessuno, ma ogni domanda che
mi facevo restava senza risposta, e questo non era un buon modo per
andare avanti. Pensieri cupi si accavallarono nella mente mentre
rientravo a casa. Il nome The Byrds in americano non ha alcun significato razionale, invece il suono dei Byrds rimane ancora oggi un mistero. Innovatori, eccentrici, geni, alieni chi lo sa. Forse solo musicisti. Nell’estate del 1964 Jim McGuinn stava suonando al Troubadour di Los Angeles e si stava divertendo improvvisando imitazioni delle canzoni dei Beatles. Seduto tra la folla c’era Gene Clark, un ragazzo apache del Missouri a cui quell’esibizione fece venir voglia di formare una rock’n’roll band. The Jet Set, con al basso David Crosby, incisero due brani sulla raccolta “Early L.A.”, pubblicata dalla casa discografica Elektra. McGuinn, Clark e Crosby, giusto per affinare l’intesa, si esibirono in qualche locale dove reclutarono un virtuoso del mandolino, un certo Chris Hillman, e un batterista alla sua prima esperienza, Michael Clarke. Dopo un periodo in cui si chiamarono The Beefeaters, il gruppo prese il nome di The Byrds. Con la produzione di Jim Dickson incisero ai World Pacific Studios l’album “Preflyte”, che vedeva composizioni scritte da Clark, McGuinn e Crosby. Per la prima volta una band di rock eseguiva canzoni di musica folk e questo cambiò le cose per sempre nel rock’n’roll. Mr. Tambourine Man è il brano di Dylan che li avrebbe, da lì a breve, catapultati nel mondo delle rockstar. La notte del 20 agosto 1965 le FM’s di L.A., San Francisco e San Diego iniziarono a trasmettere le loro canzoni due volte ogni ora. Ho avuto sempre un debole per Gene Clark,
uno che voleva starsene lontano dal caos e che non voleva essere una
rock’n’roll star. Il pomeriggio la strada sterrata vicino casa era
inondata da un sole incredibilmente luminoso. Il ventilatore sul tre
piedi ruotava cigolando. Quando ci stavano i miei genitori era una casa aperta a tutti.
Per questo loro ci tenevano così tanto. Gli era costata molto
economicamente, ma ne era valsa la pena. In tutte le stanze c’era ancora
qualcosa che parlava di loro. Quella notte avevo dormito molto e mi
sentivo migliore. Era un pomeriggio caldo e senza particolari pretese.
La vita non mi aveva fabbricato felice… e in qualche modo sarei
sopravvissuto.
sabato 18 novembre 2017
sabato 11 novembre 2017
Ombre Lunghe
E’ davvero piacevole un posto nuovo.
Ci vuole un po’ perché la gente impari a conoscerti ed è di questo
lasso di tempo che conviene approfittare per godersi un po’ la vita,
perché dopo, statene certi, si daranno da fare per trovare un modo per
fottervi. Gira e rigira, scopriranno la via da dove è più facile ferirvi. Il motel sulla strada 61
era messo male, sembrava cadesse a pezzi per come era ridotto ma ero
troppo stanco per proseguire. Nel buio pesto della notte posteggiai
l’auto ed entrai. Il proprietario, seduto dietro un bancone scalcinato, mi osservò attentamente e con fare indisponente mi chiese i documenti. “Dall’aspetto mi sembri un musicista”, disse, “sei venuto nel sud per il blues, vero?” e prosegui “quella
tiritera è una rottura di coglioni, dopo due tre pezzi diventa noiosa
sia ascoltarla, che suonarla. Lasciatelo dire da uno che se ne intende.
Tutto il mondo adora i Beatles anche quel pazzo di Charles Manson,
quella sì che è musica!”. Doveva appartenere al Ku Klux Klan
meditai, per cui restai in silenzio. Dalla sacca da viaggio estrassi il
portafoglio e mi avvicinai al bancone. Sotto la luce fioca della
lampadina gli tesi un documento e lo scrutai. Era sulla cinquantina di
corporatura media. Portava capelli lunghi incanutiti, divisi da una riga
nel mezzo, che gli ornavano degli occhietti chiari ed un naso
acuminato. Il suo abbigliamento era anonimo come quello di un impiegato
delle poste o del catasto, ma aveva dipinta sul volto un’espressione che esprimeva tutta la sua ostilità.
Quella faccia mi ricordava qualcuno che avevo intravisto di sguincio
tempo addietro in una piccola foto. Qualcuno che, come lui, allora avevo
catalogato come una vera faccia di cazzo. Firmai il foglio delle generalità e agguantai la chiave della camera.
Quando girai le spalle il tizio mi mormorò qualcosa dietro. Ero
talmente stanco che avevo solo voglia di dormire e feci finta di nulla.
In un pericoloso e pittoresco quartiere chiamato Deep Ellum a Dallas in Texas nel 1920, accompagnato da un adolescente T-Bone Walker che gli regge la lattina per le offerte e custodisce gli incassi, si aggira suonando agli angoli delle strade il cieco bluesman Lemon Jefferson. “Non
temete gente avvicinatevi ad ascoltare quest’uomo. Non vi restituirà lo
sguardo i suoi occhi sono solo bulbi, ma è con il cuore che vi parlerà”.
La sua tazza ogni giorno si riempie di elemosina, straripa di soldi, fa
buoni affari quest’uomo rissoso, puttaniere e ubriacone… è lui il primo cantautore della storia del blues ed
è dotato anche di una grande abilità nel suonare la chitarra. Disegna
fraseggi irregolari dilatando l’assetto ritmico della canzoni e
costruisce complicate strutture armoniche. Sa anche improvvisare,
arricchendo il suo blues con accenni jazzistici. La sua voce, poi, è
alta e chiara, ha vigore, proviene direttamente da quei binari
dell’anima raschiati dal dolore.
O la sua strada è oscura e solitaria. Non guida nessuna Cadillac. O la sua strada è oscura e sacra. Non guida nessuna Cadillac. Se quel cielo gli serve come occhio. Allora la luna è una cataratta (Nick Cave – Blind Lemon Jefferson).
Quando non hai più niente da perdere puoi incominciare da dove vuoi. La strada è lì che aspetta. Memphis Slim lo aveva cantato che ”devi piangere un poco, morire un poco” per capire cos’è il blues. Colpi di pistola, bottiglie di bourbon, case abbandonate, desolazione, vecchi bar, cocci di vetro, viali alberati, muri scrostati. Polvere e cielo. Chitarre da due soldi, melodie soffocate in un lamento notturno. Due monetine, una è per te, una è per i sogni. Tre anni bastarono a Lemon Jefferson per diventare uno dei musicisti più importanti del country blues. Un centinaio di titoli, registrati tra il 1926 e il 1929, lo fecero assurgere a cantante di successo nell’America dei neri insieme alle regine di quel tempo Bessie Smith, Gertrude Rainey e Ida Cox. Fu anche il primo, insieme a Gertrude Rainey, a figurare sull’etichetta dei suoi dischi. Pur cieco, Lemon Jefferson trovò sempre la strada di casa… ma non la notte in cui si perse in una tormenta di neve e morì. Di lui ci restano le sue canzoni e quell’unica foto arrivata fino ai nostri giorni che ci mostra un uomo robusto di età indefinibile con gli occhialini da vista su due pupille agghiacciate dal buio. La sera dopo il mio arrivo me ne sono andato per come sono arrivato, da quel motel e dal signor Charles, un vero uomo bianco del sud. Uno con una voce tremenda, che ogni volta che apriva bocca sparava cazzate. Glielo dissi sull’uscio della porta prima di sparire. “Quando ti viene il blues è il cuore che parla; veda di trovarlo da qualche parte, il suo, signor Charles! Perché io questa notte ho una stella nel cielo che mi segue, che brilla e, nascosti da qualche parte nell’oscurità, ci sono pure due occhi che mi guardano e mi fanno luce… e se la luna è nel rigagnolo, io non ho paura, signor Charles! No, non ho paura, c’è il cieco Lemon Jefferson accanto a me”.
Sorse il gran vecchio sole del mattino. Lunghe erano le ombre degli alberi. Proprio dal ramo a cui avevo appeso la chitarra (Nick Cave – Blind Lemon Jefferson).
Sono dentro un sole accecante, in un giorno vestito d’estate, anche se sono i primi di maggio. Mi ero riempito gli occhi e l’anima di vento e polvere e avevo guidato tutto il tempo, accompagnato dal blues suonato da un bianco. Un vocalist, ma anche bassista e armonicista, un certo Paul Williams. Il tizio possedeva un buon pedigree, aveva suonato con Alexis Korner e Georgie Fame prima di far parte dei Wes Minster Five, un gruppo che suonava R&B. Nel 1964 fece parte della Big Roll Band guidata da Zoot Mooney, con cui registra due album. Poi sostituisce John McVie nei Bluesbreakers, quindi per un paio di mesi suona con il grande John Mayall. Dopo, fa altre cose, più o meno importanti, fin quando nel 1973 registra “In Memory of Robert Johnson”. Il manager dei Kinks, Nigel Thomas, gli supporta il progetto, mentre la casa discografica svedese Sonet accetta di registrare l’album. Nel disco ci suonano fior di musicisti: Bob Hall al piano, Glenn Campbell alla steel guitar, Spencer Davis, Alun Davies, John Mark e Mick Moody alle chitarre e Pat Donaldson al basso. Paul Williams si mette sulle strade del diavolo con umiltà e passione, sapendo bene che c’è un abisso tra lui e quel nero, che non potrà mai agguantarlo e, tuttavia, il blues che ne esce fuori suona sincero e penitente, la sua voce graffiante ha energia e creatività, che quasi mi vien voglia di abbracciare il mondo e andarmene in paradiso… ma sono solo e sperduto qui nell’inquieto Delta.
“Ci ho delle pietre sul mio passaggio e scuro come notte è il mio tracciato.” (Robert Johnson – Stones In My Passway).
Mi fermo alla pompa di benzina per fare il pieno, prendo anche un caffè dalla macchinetta a gettoni e scambio quattro chiacchiere con il benzinaio. Dopodiché me la filo tuffandomi su una strada che spiana la strada. Sembra che ce le siamo sposate le nostre pene, non le molliamo mai… e allora si finisce anche per amarle un po’. La musica di Big Bill Broonzy riempie l’abitacolo, il suo blues, anche se non è straziante come quello di Lemon Jefferson o di Son House, non ha nulla di meno. Broonzy canta con voce tonante e dolente. In più, ha quel riso amaro che ti vien fuori quando ti senti oppresso. Se è vero che le nostre verità le troviamo solo di notte, è anche vero che alle volte non ci accorgiamo neppure di cosa siamo diventati e di come il tempo ha cambiato tutte le nostre prospettive. Frank Broonzy era un diacono della chiesa battista ed era severo con i suoi figli, non permetteva loro di pescare di giocare a biglie la domenica né, soprattutto, di cantare il blues. Se avesse saputo che suo figlio un giorno sarebbe diventato un chitarrista del diavolo, probabilmente gli sarebbe venuto un colpo. Affinché questo non accadesse e per dissuaderlo da ogni tentazione, gli raccontava spesso la storia di un ragazzo che si era seduto sui gradini della chiesa a fischiettare il blues. Un uomo gli si era avvicinato rimproverandolo e con il dito teso gli aveva detto ”ragazzo, domani sarai di nuovo su questi gradini, ma non fischierai”. Il giorno dopo il giovane fu trovato morto su quegli stessi scalini. Accidenti… è bastato un attimo di distrazione che sono finito su una strada secondaria che sobbalza, si ingobbisce, s’inerpica. Una di quelle strade in terra battuta, piena di sterpi, che costeggia un torrente completamente asciutto… e non so perché adesso mi sento finalmente libero mentre vago sotto i cieli del Sud. Aveva fatto il bracciante Big Bill e guidato il mulo mentre attorno a lui l’atmosfera era stracarica di musica. Quando un violinista chiamato See-See Rider gli fece ascoltare delle canzoni rurali, gli si accese dentro il fuoco sacro del blues. Dall’esempio di quel musicista anche lui si costruisce un violino, utilizzando una scatola di sigari e, con una più grande, una chitarra e inizia a strimpellare le canzoni che See-See Rider gli insegna. Suona di nascosto alla sua famiglia ed è costretto a occultare gli strumenti sotto le assi del pavimento perché sua madre voleva che diventasse predicatore. Se non ci fosse stato Big Bill Broonzy, molti neanche se ne sarebbero accorti dell’esistenza del blues. “Young Big Bill Broonzy 1928-1935″ è la più bella collezione di canzoni di questo magnifico chitarrista, troppe volte bistrattato solo perché il suo eclettismo musicale era di difficile categorizzazione e, se qualche volta, come è capitato, ha ecceduto nelle moine musicali, è stato solo per la paura di rivivere la grande povertà che lo aveva segnato. Sfido chiunque a fare il contrario. Il Delta non è solo un posto geografico, è pure uno stato dell’anima. Questo penso nel momento in cui sto attraversando una Ghost Town, fatta di sole cinque case. Il cielo è diventato grigio e, ad un tratto, mi prende uno strano smarrimento. Allora ripenso a quello che mi ha detto un giorno Jack, il mio vecchio amico Kerouac: ”viviamo per desiderare, così io desidererò, e scenderò giù verso altri luccichii altrove”. Il diavolo possiede tutti i trucchi per tentarci. Se si vivesse così a lungo da conoscerli tutti, quei trucchi, non si saprebbe più dove andare, per ricominciare con la felicità. Avevo ancora molta strada da fare, camminando nell’inquietudine. Con la polvere negli occhi e i buchi nelle scarpe.
“Ho appeso al chiodo i finimenti. La vecchia tuta ho gettato via. Ho detto addio alla vecchia zappa. Big Bill non tornerà mai più.” (Big Bill Broonzy).
O la sua strada è oscura e solitaria. Non guida nessuna Cadillac. O la sua strada è oscura e sacra. Non guida nessuna Cadillac. Se quel cielo gli serve come occhio. Allora la luna è una cataratta (Nick Cave – Blind Lemon Jefferson).
Quando non hai più niente da perdere puoi incominciare da dove vuoi. La strada è lì che aspetta. Memphis Slim lo aveva cantato che ”devi piangere un poco, morire un poco” per capire cos’è il blues. Colpi di pistola, bottiglie di bourbon, case abbandonate, desolazione, vecchi bar, cocci di vetro, viali alberati, muri scrostati. Polvere e cielo. Chitarre da due soldi, melodie soffocate in un lamento notturno. Due monetine, una è per te, una è per i sogni. Tre anni bastarono a Lemon Jefferson per diventare uno dei musicisti più importanti del country blues. Un centinaio di titoli, registrati tra il 1926 e il 1929, lo fecero assurgere a cantante di successo nell’America dei neri insieme alle regine di quel tempo Bessie Smith, Gertrude Rainey e Ida Cox. Fu anche il primo, insieme a Gertrude Rainey, a figurare sull’etichetta dei suoi dischi. Pur cieco, Lemon Jefferson trovò sempre la strada di casa… ma non la notte in cui si perse in una tormenta di neve e morì. Di lui ci restano le sue canzoni e quell’unica foto arrivata fino ai nostri giorni che ci mostra un uomo robusto di età indefinibile con gli occhialini da vista su due pupille agghiacciate dal buio. La sera dopo il mio arrivo me ne sono andato per come sono arrivato, da quel motel e dal signor Charles, un vero uomo bianco del sud. Uno con una voce tremenda, che ogni volta che apriva bocca sparava cazzate. Glielo dissi sull’uscio della porta prima di sparire. “Quando ti viene il blues è il cuore che parla; veda di trovarlo da qualche parte, il suo, signor Charles! Perché io questa notte ho una stella nel cielo che mi segue, che brilla e, nascosti da qualche parte nell’oscurità, ci sono pure due occhi che mi guardano e mi fanno luce… e se la luna è nel rigagnolo, io non ho paura, signor Charles! No, non ho paura, c’è il cieco Lemon Jefferson accanto a me”.
Sorse il gran vecchio sole del mattino. Lunghe erano le ombre degli alberi. Proprio dal ramo a cui avevo appeso la chitarra (Nick Cave – Blind Lemon Jefferson).
Sono dentro un sole accecante, in un giorno vestito d’estate, anche se sono i primi di maggio. Mi ero riempito gli occhi e l’anima di vento e polvere e avevo guidato tutto il tempo, accompagnato dal blues suonato da un bianco. Un vocalist, ma anche bassista e armonicista, un certo Paul Williams. Il tizio possedeva un buon pedigree, aveva suonato con Alexis Korner e Georgie Fame prima di far parte dei Wes Minster Five, un gruppo che suonava R&B. Nel 1964 fece parte della Big Roll Band guidata da Zoot Mooney, con cui registra due album. Poi sostituisce John McVie nei Bluesbreakers, quindi per un paio di mesi suona con il grande John Mayall. Dopo, fa altre cose, più o meno importanti, fin quando nel 1973 registra “In Memory of Robert Johnson”. Il manager dei Kinks, Nigel Thomas, gli supporta il progetto, mentre la casa discografica svedese Sonet accetta di registrare l’album. Nel disco ci suonano fior di musicisti: Bob Hall al piano, Glenn Campbell alla steel guitar, Spencer Davis, Alun Davies, John Mark e Mick Moody alle chitarre e Pat Donaldson al basso. Paul Williams si mette sulle strade del diavolo con umiltà e passione, sapendo bene che c’è un abisso tra lui e quel nero, che non potrà mai agguantarlo e, tuttavia, il blues che ne esce fuori suona sincero e penitente, la sua voce graffiante ha energia e creatività, che quasi mi vien voglia di abbracciare il mondo e andarmene in paradiso… ma sono solo e sperduto qui nell’inquieto Delta.
“Ci ho delle pietre sul mio passaggio e scuro come notte è il mio tracciato.” (Robert Johnson – Stones In My Passway).
Mi fermo alla pompa di benzina per fare il pieno, prendo anche un caffè dalla macchinetta a gettoni e scambio quattro chiacchiere con il benzinaio. Dopodiché me la filo tuffandomi su una strada che spiana la strada. Sembra che ce le siamo sposate le nostre pene, non le molliamo mai… e allora si finisce anche per amarle un po’. La musica di Big Bill Broonzy riempie l’abitacolo, il suo blues, anche se non è straziante come quello di Lemon Jefferson o di Son House, non ha nulla di meno. Broonzy canta con voce tonante e dolente. In più, ha quel riso amaro che ti vien fuori quando ti senti oppresso. Se è vero che le nostre verità le troviamo solo di notte, è anche vero che alle volte non ci accorgiamo neppure di cosa siamo diventati e di come il tempo ha cambiato tutte le nostre prospettive. Frank Broonzy era un diacono della chiesa battista ed era severo con i suoi figli, non permetteva loro di pescare di giocare a biglie la domenica né, soprattutto, di cantare il blues. Se avesse saputo che suo figlio un giorno sarebbe diventato un chitarrista del diavolo, probabilmente gli sarebbe venuto un colpo. Affinché questo non accadesse e per dissuaderlo da ogni tentazione, gli raccontava spesso la storia di un ragazzo che si era seduto sui gradini della chiesa a fischiettare il blues. Un uomo gli si era avvicinato rimproverandolo e con il dito teso gli aveva detto ”ragazzo, domani sarai di nuovo su questi gradini, ma non fischierai”. Il giorno dopo il giovane fu trovato morto su quegli stessi scalini. Accidenti… è bastato un attimo di distrazione che sono finito su una strada secondaria che sobbalza, si ingobbisce, s’inerpica. Una di quelle strade in terra battuta, piena di sterpi, che costeggia un torrente completamente asciutto… e non so perché adesso mi sento finalmente libero mentre vago sotto i cieli del Sud. Aveva fatto il bracciante Big Bill e guidato il mulo mentre attorno a lui l’atmosfera era stracarica di musica. Quando un violinista chiamato See-See Rider gli fece ascoltare delle canzoni rurali, gli si accese dentro il fuoco sacro del blues. Dall’esempio di quel musicista anche lui si costruisce un violino, utilizzando una scatola di sigari e, con una più grande, una chitarra e inizia a strimpellare le canzoni che See-See Rider gli insegna. Suona di nascosto alla sua famiglia ed è costretto a occultare gli strumenti sotto le assi del pavimento perché sua madre voleva che diventasse predicatore. Se non ci fosse stato Big Bill Broonzy, molti neanche se ne sarebbero accorti dell’esistenza del blues. “Young Big Bill Broonzy 1928-1935″ è la più bella collezione di canzoni di questo magnifico chitarrista, troppe volte bistrattato solo perché il suo eclettismo musicale era di difficile categorizzazione e, se qualche volta, come è capitato, ha ecceduto nelle moine musicali, è stato solo per la paura di rivivere la grande povertà che lo aveva segnato. Sfido chiunque a fare il contrario. Il Delta non è solo un posto geografico, è pure uno stato dell’anima. Questo penso nel momento in cui sto attraversando una Ghost Town, fatta di sole cinque case. Il cielo è diventato grigio e, ad un tratto, mi prende uno strano smarrimento. Allora ripenso a quello che mi ha detto un giorno Jack, il mio vecchio amico Kerouac: ”viviamo per desiderare, così io desidererò, e scenderò giù verso altri luccichii altrove”. Il diavolo possiede tutti i trucchi per tentarci. Se si vivesse così a lungo da conoscerli tutti, quei trucchi, non si saprebbe più dove andare, per ricominciare con la felicità. Avevo ancora molta strada da fare, camminando nell’inquietudine. Con la polvere negli occhi e i buchi nelle scarpe.
“Ho appeso al chiodo i finimenti. La vecchia tuta ho gettato via. Ho detto addio alla vecchia zappa. Big Bill non tornerà mai più.” (Big Bill Broonzy).
Bartolo Federico
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