Chi ascolta musica con passione e dedizione, dopo anni passati a consumare vinile e cd, sa bene che il produttore è una figura carismatica per la buona riuscita del prodotto finale, anche se molti artisti preferiscono fare da sé. Il produttore nella musica moderna è necessario. Questo ruolo è quasi sempre coperto da musicisti che dopo una ”brillante” carriera, magari a corto di creatività, si dedicano a produrre la musica di altri. Con il passare degli anni, però, questa figura ha assunto un potere che a volte è diventato soffocante, oserei direi ingombrante, riuscendo ad oscurare l’artista stesso. La storia del rock è piena di furibonde litigate tra artisti e produttori, di studi di registrazione diventati ring, di rapporti d’amicizia chiusi per una take andata male o un arrangiamento non gradito. Anche se agli occhi dei più tutto ciò può sembrare esagerato, chi fa musica sa benissimo che i particolari sono importanti, direi fondamentali.
Più il nome del produttore è blasonato, più il rischio diventa palpabile. Volere o non volere, egli andrà a condizionare il lavoro finale, perché da lui dipende il suono, l’ arrangiamento dei brani, i musicisti da utilizzare, ecc.. Capirete che, per un artista, è un rapporto fiduciario che sta al limite. Perché affidare la propria arte ad una terza persona, con tutti i rischi annessi e connessi che questo comporta, è molto rischioso. La paura più grande di un musicista è quella che, alla fine del percorso, il disco sia più una creatura del suo produttore che dell’artista stesso.
Per questo motivo il producer svolge un ruolo delicato che richiede una preparazione e una sensibilità fuori dal comune. A volte ricopre anche il ruolo di analista, di tutore dell’artista. Perché molte star sono fragili interiormente e questa loro fragilità li rende più plasmabili dal meccanismo industriale. Ricordiamoci che la musica è un business, un industria che si affida a manager, funzionari, rete vendita e fatturati. Il dio denaro, alla fine, è quello che conta per il prosieguo di una carriera.
Per portare un esempio di connubio riuscito tra artista e produttore cito quello tra Willy DeVille e Jack Nietzsche. Questa è stata una collaborazione perfetta sotto tutti i punti di vista, sia umani che musicali. L’idillio tra i due ha permesso di pubblicare dischi come Cabretta (1977), Return to Magenta (1978), Coup de Grace (1981), che, solo a metterli in fila, mi vengono i brividi. Nitzsche ha anche detto che DeVille è stato il miglior cantante con cui avesse lavorato; ed essendo stato dietro il banco di regia dei Rolling Stones, di Neil Young, dei Buffalo Springfield, di Graham Parker ecc.., capirete che suona come una dichiarazione d’amore vera e propria
Ma non sempre accade ciò. Spesso, come accennavo, i rapporti sono tormentati. Come ad esempio quello che ebbe Dylan con Daniel Lanois ai tempi di Time Out Of Mind. Si dice che volarono sberle durante le sedute. Lo stesso vale anche per lo stesso DeVille e Mark Knopler. Quando incisero Miracle, Willy, alla fine del lavoro, chiuse i rapporti con Knopler. E’ evidente, quindi, quanto il ruolo di producer abbia una parte rilevante e delicata nella carriera di un’artista, sia nella sua fase iniziale che quando ha bisogno di essere rilanciata. In entrambi i casi la scelta di questa figura è fondamentale. E’ pur vero che molti artisti, appresi i meccanismi di produzione, amano fare da sé, proprio per evitare questa dipendenza e per avere la più ampia libertà di decisione sulla propria musica.
Da tempo il mercato americano delle produzioni musicali e sempre più in mano a T-Bone Burnette . Questo ex musicista è come il prezzemolo: produce qualunque genere, dal pop al rock, dal country al blues e, a quanto sembra, è molto apprezzato dai più. Ciò non significa che me lo devo fare piacere per forza poiché molti lo esaltano! Personalmente, trovo il suo modo di produrre musica freddo, chirurgico, asettico, anche se per altri è un re Mida. I dischi che lui ha prodotto li ho ascoltati quasi tutti; da Jakob Dylan a Robert Plant, da Natalie Merchant alla colonna sonora di Oh Brother Where Art Thou?, non ne ho perso nessuno (ora però qualcuno gli dica che è il momento di riposarsi un po’! ), finendo all’ultimo di Greg Allman. Come presumevo, anche in quest’ultimo caso la musica suona, per quanto mi riguarda, molle, priva di vitalità, per nulla coinvolgente. Greg ci mette la sua grande voce (anche se a tratti è un po’ stanca, dato i gravi problemi di salute che ha dovuto affrontare) per tenere vivo il tutto. Ma il gusto di Burnette per gli arrangiamenti, per il suono, è quello di sempre. Come nei suoi dischi solisti, prendere o lasciare. Anche il blues più torrido, nelle sue mani, diventa un bicchiere d’acqua fresca.
La scelta dei musicisti poi influisce tantissimo sul risultato finale. Lui usa, giustamente, quelli di cui si fida, che fa girare nei vari dischi ma alla fine, come già ho avuto modo di dire , tutte le sue produzioni, giocoforza, si somigliano. Probabilmente, se queste canzoni le avessero suonate gli Allman al completo, il risultato sarebbe stato diverso da quello che ci tocca ascoltare oggi: musica innocua, che non azzanna, che non ferisce, che non ti brucia l’anima come ci si aspetterebbe da un disco di “blues” di Greg Allman, uno che di diavoli nelle sua vita ne ha visti a go-go. Ma se questa prova dà nuova verve a Greg per poter tornare ad incidere magari con un altro produttore mi va bene lo stesso. Non dimentico mica che lui è il fratello del più grande slide-man di blues bianco di tutti i tempi: l’immenso, immaginifico, Duane Allman che con lui ha fondato quella gioiosa macchina da guerra che è l’Allman Brothers Band.
Ascoltare musica è anche cercare di sviluppare un proprio senso critico. Quindi, oltre ad essere un vero piacere, a volte richiede dei piccoli sacrifici, come quello di andare a confrontarsi anche con suoni e melodie che magari non rientrano nei parametri del nostro gusto. Questa piccola immolazione ci aiuterà a sentire con un orecchio più preparato la musica da cui traiamo più piacere. Con il tempo è chiaro che ci si forma un proprio gusto, una propria visone che però non deve essere mai presa come la verità assoluta. E’ bene sempre nutrire qualche dubbio.
Anche quando leggiamo una recensione che parla benissimo del nostro artista preferito è bene far scattare “i se e i ma”, almeno fino a quando non lo si è ascoltato e giudicato con le proprie orecchie. Fidatevi solo di loro, perché, come diceva un mio amico, quello che per te è un pavimento per un altro è il soffitto.
Per anni l’informazione in Italia si è basata sulla lettura delle riviste musicali. Quelle che mi sono passate sotto mano nel tempo, e vado a memoria, sono state: Ciao 2001, Popster, Suono, Il Mucchio Selvaggio. Dalla sua scissione è venuto fuori L’ultimo Buscadero. Da una successiva scissione del Mucchio è venuto fuori Velvet e da una terza Feedback. In ultimo Jam.
Non riconoscere i meriti del Mucchio su una gran parte di fruitori di musica in Italia sarebbe ingiusto anche se personalmente sono anni che non compro più la rivista, precisamente da quando Zambo con Marco Denti ne uscirono per dar vita a Feedback (esperienza che ebbe breve vita), poi i due confluirono nel Buscadero, che se scrivessi che mi piace mi verrebbe il naso come pinocchio.
A proposito dei giornalisti musicali si dice che siano dei musicisti mancati che riversano nello scrivere questa passione ma, come per tutte le passioni, nessuno di loro possiede la verità assoluta. Il mio consiglio al neofita, se capita da queste parti, è sempre quello di ascoltare ascoltare, ascoltare (oggi i mezzi non mancano) prima di acquistare un cd. Solo cosi si evitano scottature e, con quello che costano i dischi, la prevenzione è cosa buona e giusta.
Con l’avvento di internet si è aperta una voragine. Scovare le magagne è alla portata di tutti. Un tempo ci si doveva per forza di cose affidare totalmente alle recensioni ed era fondamentale il rapporto di fiducia che avevi con il recensore (era il tuo produttore). Per dire, non ho mai comprato un disco di cui sproloquiava il critico Paolo Carù, dal momento che i supporti fonografici sono sempre costati un occhio della testa. Comunque anche questo non ti esimeva dal prendere le cosiddette “sole”. Ma, allora, mancavano del tutto i canali per ascoltare i dischi anticipatamente. Chi non abitava, oggi come allora, nelle grandi città era destinato a ricorrere alla vendita per corrispondenza per venire in possesso dell’agognato vinile. Recarsi in un negozio di dischi e chiedere un disco di George Thorogood significava farsi prendere per matto. Ed io adoravo andare da Melluso, l’unico negozio diciamo importante che c’era nelle mia città, e chiedere di Terry Allen o di Willie Nile solo per vedere la faccia che faceva il commesso alla mie richieste.
Di tempo, da allora, ne è passato, ma l’amore e la passione restano intatte, specie per il blues che è musica semplice ma non semplicistica, suonata prevalentemente su accordi maggiori, anche se ascoltandola può sembrare il contrario. I vecchi grandi bluesman dalle loro chitarrine (tali erano i loro strumenti rispetto ai gioielli creati in seguito, potremmo definirli addirittura giocattoli) tiravano fuori note che, prima di essere suoni delle corde, erano suoni dell’anima, del cuore. Con le loro canzoni si mettevano a nudo. Tant’è che i primi cantautori sono stati proprio loro. In tanti ci hanno provato, specie gli artisti bianchi innamorati di questa musica, a catturare quell’intensità, quell’ardore, quella desolazione, quel feeling che i bluesmen anteguerra riuscivano a spargere ma, anche negli episodi migliori, a mio avviso, al massimo si sono avvicinati senza mai riuscire ad uguagliarli.
Le loro canzoni non avevano produttori. Quelle canzoni ascoltate oggi, a distanza di ottanta e più anni, sono tali e quali a quelle che suonavano nelle strade, nelle feste o davanti alle loro case, e non hanno perso un briciolo della loro forza, della loro poesia. Per questo, definire il blues la purezza assoluta della musica non è esagerazione. Soffiate via la polvere che c’è un tesoro nascosto.
Bartolo Federico-gennaio 2011-
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